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                 Una storia confusa 
                Non è certo la confusione che manca nelle pagine di 
                  questo romanzo breve appena uscito per i tipi dell’Einaudi 
                  (Franco Bernini, La prima volta, Torino, 2005, 12,00 
                  euro). L’impressione è che l’autore, affermato 
                  regista e sceneggiatore, abbia voluto rimescolare situazioni 
                  e personaggi difficilmente accostabili, e che quindi la carne 
                  al fuoco sia diventata troppa. E proprio la presenza degli elementi 
                  che avrebbero dovuto rendere più convincente la trama, 
                  ossia gli anarchici attentatori e i moti popolari del 1898, 
                  appare come una pretestuosa forzatura, sostanzialmente estranea 
                  all’economia del racconto. Ma andiamo per ordine.  
                  Siamo nel 1898. Esattamente l’8 maggio 1898, il giorno 
                  in cui l’esercito sabaudo prende a cannonate la folla 
                  affamata a Milano mentre a Torino, fra mattina e pomeriggio, 
                  si disputa il primo campionato di calcio italiano. Da una parte 
                  il popolo che, nel chiedere pane e migliori condizioni di vita, 
                  vede centinaia dei suoi figli trucidati dalle truppe regie, 
                  dall’altra quattro aristocratiche squadre di football, 
                  tre torinesi e una genovese, impegnate a disputarsi il primo 
                  scudetto con foga e spirito cavalleresco. Per legare fra loro 
                  questi due argomenti e rendere così più interessante 
                  il racconto, Bernini non ha trovato di meglio che ricorrere 
                  alla curiosa invenzione di due anarchici, quello buono, il giovane 
                  poeta e calciatore animato da nobili ideali e quello cattivo, 
                  il maturo mestatore spinto alla vendetta dall’odio e dal 
                  rancore. Insomma, i soliti banali stereotipi nazional-popolari 
                  che caratterizzano la figura dell’anarchico: di qua il 
                  generoso utopista, di là il tenebroso assetato di sangue. 
                  Già che c’eravamo, si sarebbe potuto fare di meglio. 
                   
                  La storia non è particolarmente complicata, anche perchè, 
                  come detto, si svolge nell’arco di una sola giornata. 
                  In un velodromo torinese si affrontano il Genoa Cricket and 
                  Athletic Club, il Football Club Torinese, l’International 
                  F.C. e la Società Ginnastica. In campo signorotti e professionisti 
                  inglesi, marinai genovesi, la buona borghesia torinese e qualche 
                  nobile in vena di stravaganze. Fra questi, a duellare sul tappeto 
                  erboso e nella vita, Jason Brandi, giovane anarchico e poeta, 
                  e l’onorevole Teodorico Venaria, già di simpatie 
                  socialiste ma ora, da quel politicante spregiudicato che non 
                  nasconde di essere, passato armi e bagagli alla reazione. E 
                  mentre le quattro formazioni si affrontano spensieratamente 
                  sul terreno di gioco, su un altro terreno, drammaticamente, 
                  cadono a centinaia i proletari milanesi e la dimostrazione pacifica 
                  di un popolo spinto dalla crisi, diventa una carneficina insensata. 
                  Nel rispetto degli ordini ricevuti, Bava Beccaris, il generale 
                  di pessima fama che legherà il proprio nome a uno dei 
                  periodi più bui della storia italiana, ordina alle disciplinatissime 
                  truppe di soffocare nel sangue la protesta popolare. Come la 
                  storia ricorda, il Bava, in segno di gratitudine per la lezione 
                  inflitta al proletariato, vedrà appuntarsi sul petto, 
                  per mano reale, la massima onorificenza aurea; ma quel metallo 
                  si trasformerà in piombo, allorché Gaetano Bresci, 
                  “l’anarchico venuto dall’America” metterà 
                  ben altra medaglia sull’augusto petto di Umberto I.  
                  Comunque sia, le drammatiche notizie che giungono da Milano, 
                  pur gettando lo sconcerto fra i giocatori, non riusciranno a 
                  fermare il gioco (guai fin da allora a mettere in discussione 
                  la funzione “conciliatrice” e metapolitica della 
                  passione sportiva!) e le squadre continuano così la loro 
                  signorile sfida di fronte alle poche decine di persone che assistono 
                  allo spettacolo. Fra questi, tre poliziotti giunti per sorvegliare 
                  quegli strani signori che si affrontano in mutandoni (e il delegato 
                  intuisce che la vita dell’onorevole è in pericolo), 
                  alcune giovani signore e signorine attratte dal nuovo sport, 
                  una famigliola capitata non si sa come. E poi il cattivo di 
                  cui si parlava prima, l’anarchico Elias, disinteressato 
                  al football e lì solo per istigare il suggestionabile 
                  David Jason a sparare all’odiato deputato in nome dei 
                  morti milanesi. Va da sé che il vigliacco cercherà 
                  in tutti i modi, usando il suo ascendente sul giovane, di armarne 
                  la mano senza farsi coinvolgere nel criminoso progetto. Però, 
                  per una serie di fortuite circostanze, l’attentato non 
                  si compie, anzi, dei due è il giovane idealista che ha 
                  la peggio quando subisce a freddo un brutto, scorrettissimo 
                  fallo ad opera di Venaria. Si vendicherà, però, 
                  facendo innamorare la figlia del padrone delle ferriere di turno 
                  e sottraendola alle voglie del deputato, mentre una baronessina 
                  resa incinta da quel malvagio, dopo un provvidenziale aborto 
                  spontaneo, troverà l’amore nel referee, 
                  un distinto e galante notaio. E, perché ci sia giustizia, 
                  i cattivi avranno quello che meritano. Venaria morirà, 
                  di lì a poco, in un incidente automobilistico, mentre 
                  Elias, dopo aver tentato di sottrarsi all’arresto colpendo 
                  alcuni poliziotti, sconterà qualche anno di galera, anche 
                  se poi questo “incidente del mestiere” gli procurerà 
                  quell’agognata aureola di martirio, che gli “permetterà 
                  di fare carriera in mezzo ai suoi sodali”.  
                
                Sceneggiatura per fiction TV  
                  Come dicevamo, la confusione non è poca. E l’attenzione 
                  e la competenza con le quali sono descritte le varie fasi della 
                  partita fanno pensare che tutto il resto non sia che un contorno 
                  pretestuoso e superficiale. Ma, se proviamo a immaginare che 
                  La prima volta non volesse essere un romanzo quanto 
                  la traccia della sceneggiatura di una fiction televisiva, allora 
                  la prospettiva del giudizio cambierà radicalmente.  
                  Vediamo, infatti, che le insipide storie d’amore si prestano 
                  “televisivamente” a ricchi colpi di scena e che 
                  il tratteggio di una “questione sociale” inopinatamente 
                  scaraventata nel testo come un sacco di patate, potrebbe rendere 
                  più interessanti e diversificate le varie puntate, alleggerendo 
                  una narrazione che rischierebbe, se si parlasse solo di calcio, 
                  di annoiare il telespettatore. Così allora si può 
                  capire meglio la leggerezza e la superficialità con le 
                  quali si affrontano temi altrimenti interessanti come i moti 
                  sociali di fine ottocento o la fase “regicida” dell’anarchismo. 
                  E perché tale superficialità si trasforma, anche 
                  se forse involontariamente, in aperta denigrazione laddove tratteggia 
                  la figura di un anarchico uso a strumentalizzare i compagni 
                  soggiogati dal rapporto di sudditanza imposto dalla sua autorevolezza. 
                  In pratica, il classico fellone: pronto a lanciare il sasso 
                  della rivolta sociale ma a nascondere la mano di fronte alla 
                  repressione.  
                  Nella mia più che trentennale frequentazione del movimento 
                  anarchico, credo di non avere mai incontrato un compagno dedito 
                  a nascondersi, dopo averli istigati, dietro gli atti altrui, 
                  o ad approfittare di una pretesa autorità nei confronti 
                  di compagni disposti a riconoscerla. Avremo mille difetti, ma 
                  non di accettare passivamente l’autorità, massime 
                  quando ad esercitarla vorrebbe essere uno di noi. Del resto, 
                  come è noto, gli attentatori ottocenteschi ai quali si 
                  richiama Bernini agirono di propria iniziativa e furono sempre 
                  disposti a pagare, anche duramente, di persona. Credo che, al 
                  di là di una qualsiasi valutazione dei loro gesti, vadano 
                  loro riconosciuti coraggio e dedizione. E anche i gruppi e i 
                  movimenti che lottarono per la libertà contrastando la 
                  reazione, crispina o giolittiana che fosse, lo fecero a viso 
                  aperto e nelle piazze e non strumentalizzando l’idealismo 
                  di giovani adepti generosi e inconsapevoli. Ma qui c’era 
                  la necessità di introdurre la figura di un cattivo, perché 
                  uno sceneggiato (mi scusi Bernini, ma non riesco a togliermi 
                  questa fissazione) senza un cattivo non avrà mai successo. 
                  Secondo me, di personaggi negativi ce ne era già uno, 
                  il deputato-calciatore, e bastava, ma a quanto pare, per poter 
                  dare un colpo al cerchio (la reazione e le cannonate) e uno 
                  alla botte (gli anarchici vendicatori), di cattivi l’autore 
                  doveva crearne due. E così ha fatto!  
                  Ah, dimenticavo. Il primo scudetto andò alla squadra 
                  genovese del poeta che batté in finale, per 2 a 1, quella 
                  torinese dell’onorevole.  
  
                  Massimo Ortalli 
                 
                  Meglio stupido che sanguinario 
                     di Paolo Valera 
                 
                Se dicendo che voi vi siete inebriato della polvere delle vostre 
                  armi da fuoco e che la montura che avete appeso fra i ricordi 
                  militari nella vostra villa di Monforte, in Fossano, è 
                  inzuppata del sangue di cento e più morti e di migliaia 
                  e migliaia di feriti sorpresi e massacrati per il gusto di massacrare, 
                  vi calunniamo, trascinateci al tribunale dell’opinione 
                  pubblica come mentitori, se sapete maneggiare la penna, o al 
                  tribunale giudiziario, volete farci espiare la colpa, di aver 
                  fatto di voi un uomo infame. Fatelo generale: fatelo, se volete 
                  tramandare ai vostri figli un nome che non faccia rabbrividire 
                  le generazioni come quelli di Hainau e di Radetzky. Dal primo 
                  o dal secondo uscirete, generale, tutto in frantumi, perché 
                  noi vi inseguiremo con un’artiglieria, più formidabile 
                  della vostra del ‘98. Ma la vostra coscienza potrà 
                  essere alleggerita dai delitti dei vostri complici e la storia 
                  potrà mitigarne il giudizio. Documenterete che è 
                  in voi un zinzino di coraggio civico. Sissignore, per un uomo 
                  che rinsavisce deve essere una consolazione confessare i proprii 
                  delitti: e quegli degli altri. È una espiazione che non 
                  umilia che i pusilli e i pitocchi di cuore. Su, purgatevi, mondatevi, 
                  sbrattatevi del sangue di cui siete tutto incrostato. Voi avete 
                  delle scuse. Il soldato ha l’occhio nella schiena e non 
                  conosce che la disciplina. Borioso, furioso, altezzoso non avete 
                  ascoltato che il sentimento omicidiario. La vostra conoscenza 
                  della capitale lombarda si riduceva alla miseria topografica. 
                  Siete venuto fra noi come uno straniero che ha tutto da imparare. 
                  Gli avvenimenti non ve ne hanno dato il tempo. Incalzato dai 
                  telegrammi ministeriali, circondato dai fanatici della moderateria 
                  milanese, capitanata dai Negri e dai Vigoni, avete bevuto alla 
                  sorgente del loro livore e avete creduto a una preparazione 
                  insurrezionale, ad una esplosione popolare. Dichiarate davanti 
                  ai giudici che l’atmosfera infuocata vi ha dato il capogiro, 
                  che la perturbazione degli altri vi ha messo sotto sopra, che 
                  la paura di tutti vi ha fatto carnefice. Accusate, accusate 
                  anche voi, generale. Confessate che durante il terrore non c’erano 
                  giornali che vi informassero, che vi illuminassero, che vi facessero 
                  da lanterna lungo le vie delle stragi. Dite che non c’era 
                  che una stampa canagliesca che applaudiva il gaglioffo che l’aveva 
                  incatenata, una stampaccia che si compiaceva del bavaglio che 
                  le avevate inflitto, una stampa delittuosa che aveva rinnegata 
                  la tradizione della solidarietà professionale, una stampa 
                  iniqua, cortigiana, vile, idrofoba che vi aizzava e vi indemoniava 
                  a traverso i guazzi del sangue che avevate fatto spargere e 
                  forse farete breccia nell’animo di coloro che vi devono 
                  giudicare e forse placherete l’opinione pubblica che vi 
                  vorrebbe appeso al gancio del linciaggio e vi lascerà 
                  passare nella storia come imbecille. State seduto, generale, 
                  non impermalitevi. Meglio essere stupido che sanguinario: i 
                  primi sono compassionati e dimenticati: i secondi sono esecrati 
                  e inchiodati alle muraglie della vergogna eterna. Coraggio, 
                  rivelate tutto come se foste arrivato alla fine dei vostri giorni. 
                 
                Brano tratto da: Paolo Valera, Le terribili 
                  giornate del Maggio ’98, La Folla, Milano, s.d.  
                  
                Milano, maggio 1898. Bersaglieri 
                  all'attacco in Largo La Foppa. Sulla destra si intravede il 
                  Caffè Aurora sul cui sito si trova, attualmente, la libreria 
                  Utopia 
                  
                Più crudeli degli anarchici  
                  di Leone Tolstoj  
                L’uccisione di un re, quella di Umberto per esempio, 
                  non è tuttavia un atto di crudeltà particolarmente 
                  ripugnante. Molte misure ordinate dai re e dagli imperatori 
                  – nel passato la strage di S. Bartolomeo, i massacri per 
                  ragioni religiose, la repressione dei contadini ribelli, le 
                  uccisioni di Versailles; oggi ancora i supplizi, l’imprigionamento, 
                  l’impiccagione, le fucilate, le guerre sanguinose – 
                  sono incomparabilmente più crudeli degli omicidi commessi 
                  dagli anarchici. Non si può dire che questi omicidi siano 
                  particolarmente orribili perchè non sono giustificati. 
                   
                  Se Alessandro II e Umberto non meritavano la morte, le migliaia 
                  e migliaia di Russi uccisi sotto Plewna (episodio della 
                  guerra russo-turca del 1877-78. N.d.R.) e gli Italiani 
                  caduti in Abissinia la meritavano molto meno ancora. Gli attentati 
                  contro i sovrani sono orribili, è vero; ma non tanto 
                  per la loro crudeltà e per mancanza di motivi, quanto 
                  per la follia dei loro autori.  
                Brano tratto da: Leone Tolstoj, Per l’uccisione di 
                  re Umberto, Casa Editrice Abruzzese, Rocca S. Giovanni, 
                  1913.  
                  
                 
                  Giornali monarchici e stupidità 
                  umana  
                  di Amilcare Cipriani  
                I giornali monarchici e la stupidità umana ripetono 
                  che la morte di Umberto ha dolorosamente colpito al cuore tutti 
                  gli italiani.  
                  Non è vero; eccone la prova.  
                  Il giorno dopo la morte di re Umberto i due deputati eletti 
                  in Italia furono dei socialisti. I loro avversari elettorali 
                  dimostrarono invano che la idea della trasformazione economica, 
                  propugnata dai collettivisti, i comunisti e gli anarchici, aveva 
                  convinto Bresci dell’urgenza del regicidio. Il popolo 
                  votò pei rappresentanti i principi rivoluzionari a costo 
                  di dare ancora ragione a dei fanatici di abbattere idoli umani. 
                   
                  Come i martiri cristiani rischiavano la morte nel circo, per 
                  rovesciare i falsi dei, così i ribelli contemporanei 
                  rischiano la morte del patibolo o quella generata dalle malattie 
                  nei reclusori per precipitare i re nell’abisso della morte: 
                  i due atti sono identici.  
                  In seguito, ciò che fu sintomatico fu quanto si produsse 
                  in Roma durante i funerali di re Umberto: i principi che seguivano 
                  il feretro del re, spaventati, ad un dato momento, sguainarono 
                  le spade per proteggere il loro sovrano.  
                  Da ciò non si può concludere che una rivoluzione 
                  che cambi il regime politico della penisola, sia imminente pel 
                  fatto che, contrariamente a ciò che si è detto, 
                  la morte del re non ha incontrato l’universale riprovazione 
                  e perché il regime attuale è ridotto a repressioni 
                  violente: in questo – sia detto fra parentesi – 
                  il governo non fa che seguire una tradizione che esiste di già 
                  nel paese.  
                  Perciò bisogna stare in guardia da profetizzare qualche 
                  cosa di importante da questi incidenti. Tuttavia si può 
                  fare osservare che un cambiamento di regime nell’Italia 
                  contemporanea non sarebbe cosa nuova: vi sono dei precedenti. 
                 
                Brano tratto da: Amilcare Cipriani, Il regicidio, 
                  Libreria Sociologica, Buenos Aires, 1901.  
                
                  
                  
                 Due amici che parlano di football  
                  di Franco Bernini  
                David Jason, più sobrio, tracanna una limonata e, gustando 
                  il piacere di quel fresco, chiude gli occhi mentre offre il 
                  volto al sole che cuoce. Immagina godendo il gioco che lo aspetta. 
                   
                  Quando riapre le palpebre, vede poco più in là 
                  un trentenne bruno, snello, naso grifagno, occhi accesi, aria 
                  energica, vestito coi colori di moda, vinaccia e noisette, che 
                  scavalca disinvolto la corda tesa tra il pubblico e il buffet 
                  e gli sorride aprendo le braccia mentre viene verso di lui. 
                   
                  – Ciao, David Jason.  
                  – Elias... ciao.  
                  Un abbraccio.  
                  – Sei stato bravo.  
                  – Mi hai visto segnare?  
                  – No, sono arrivato da poco.  
                  Parole innocenti, che si muovono però in una strana, 
                  sospesa tensione.  
                  Elias afferra un panino imbottito. – Posso?  
                  – Credo che sia riservato ai footballers, ma ormai l’hai 
                  preso...  
                  Un morso dato di gusto, un sorriso soddisfatto, come se Elias 
                  fosse orgoglioso del suo gesto da discolo che comunque, nel 
                  grande viavai, nessuno ha notato.  
                  – Quanto avete di pausa?  
                  – Pochi minuti ancora.  
                  – Non ho capito bene qualche aspetto del gioco, puoi chiarirmelo? 
                  – con gli occhi, di colpo seri, Elias indica il campo, 
                  in quel momento deserto.  
                  I due si muovono.  
                  – Vincerete la partita, David Jason?  
                  – Pensavo che avessimo buone possibilità, però 
                  è tutto ancora da dire.  
                  Due amici che parlano di football. Così appaiono all’agente 
                  Fernando Nisticò che, fermo vicino al palo di una porta, 
                  li scruta mentre gli sfilano davanti.  
                  – Adesso possiamo parlare, siamo lontani abbastanza da 
                  tutti.  
                  Sono arrivati undici passi più in là, la distanza 
                  di un rigore  
                  Elias dà le spalle a Nisticò, lo indica con un 
                  piccolo movimento della testa a David Jason.  
                  – Continua a guardarci?  
                  – Chi?  
                  – Quello accanto al palo. È uno sbirro. Ce n’è 
                  un altro fisso all’ingresso. E forse altri ancora.  
                  – No, ora è girato. Nessuno ci guarda.  
                  Elias annuisce, inspira.  
                  – Non abbiamo molto tempo, sono arrivato stanotte da Milano, 
                  – espira in un fiato.  
                  – Eri lì?  
                  Elias chiude gli occhi, per un lungo istante. Li riapre, fissa 
                  David Jason. Racconta.  
                
                  
                 L’altruismo sostituirà 
                  l’egoismo  
                  di Franco Bernini  
                Uguaglianza e libertà, questa è l’anarchia 
                  per il ragazzo. Un mondo di fratelli che ha già sperimentato: 
                  il calcio è per lui l’anarchia felice e concreta. 
                  Ognuno corre per il suo piacere, ma collabora con gli altri 
                  per un fine comune. Non contano le differenze di classe ma soltanto 
                  la bravura, ed anche chi è meno capace un posto lo trova. 
                  Regole e sanzioni sono condivise da tutti. Nessuno comanda. 
                   
                  Crede che questo possa funzionare per l’intera società, 
                  che gli uomini abbiano nell’animo lo stesso rispetto per 
                  gli altri che prova lui.  
                  Il lavoro è una gioia e nessuno vorrà privarsene. 
                  L’altruismo sostituirà l’egoismo. Si arriverà 
                  alla libertà per mezzo della libertà.  
                  Questo crede.  
                  – David Jason, spareremo a Venaria.  
                  Il respiro si ferma.  
                  – Cosa?  
                  – Lo uccideremo, noi due. Ho con me le rivoltelle.  
                  Io, uccidere? Uccidere? Questo no, mai, pensa David Jason. 
                  Glielo dico.  
                  – Cosa c’entra Venaria con Milano? – 
                  dice invece.  
                  – È un deputato del Regno, un simbolo.  
                  – Un simbolo? Lui? È un mercenario. Adesso è 
                  di destra, ma prima era di sinistra, e domani chissà... 
                   
                  – Fa parte del governo.  
                  – È soltanto un sottosegretario.  
                  – Al ministero della Guerra, e la guerra la stanno facendo 
                  a noi! È un cocco del re! Che lo ha fatto pure cavaliere! 
                   
                  – Ne abbiamo parlato tante volte... la violenza soltanto 
                  per difesa e...  
                  – Non ti basta quello che è successo?  
                  – Elias...  
                  – Hai paura, farò da solo. Peccato, perché 
                  mi prenderanno, mentre se agissimo in due...  
                  Paura? Sì, ce l’ho.  
                  Quel bambino ridotto ad un grumo di sangue. Quanti ne ammazzeranno 
                  oggi?  
                  – In due, cosa cambia?  
                  – Uno di noi spara, l’altro gli copre la fuga. Li 
                  prendiamo di sorpresa, prima che reagiscano siamo lontani. Basta 
                  che usciamo e andiamo verso la stazione, è il tragitto 
                  che hai fatto per arrivare qui... Te lo ricordi il cavalcavia 
                  che passa sopra i binari?  
                  – Il cavalcavia? Sì.  
                  – Lì vicino c’è una casa sicura, c’è 
                  una carrozza che ci aspetta per portarci fuori dalla città. 
                   
                  – Non so...  
                  – In carrozza da qui a Marsiglia, e poi in nave fino agli 
                  Stati Uniti, dove ci sono molti compagni che… Tra l’altro 
                  tu parli inglese, saresti come un pesce nell’acqua… 
                   
                  Gli Stati Uniti. Ma sparare su un uomo indifeso…  
                  – Non possiamo sfidarlo a duello?  
                  – Un duello?  
                  Elias, in un altro momento, riderebbe.  
                  – Un duello, sì. Armi pari.  
                  – Cosa siamo? Damerini?  
                  – Io, così a sangue freddo. Non me la sento.  
                  – Va bene. Io però lo faccio.  
                  Lo prendono, lo ammazzano di botte. Peggio per lui, io cosa 
                  c’entro?  
                  – Ti aiuto, – si sente dire.  
                  – Davvero, David Jason?  
                  – Sì.  
                  Digli di no, sei ancora in tempo.  
                  – Non mi ero sbagliato su di te.  
                  Diglielo!  
                  – Io però, Elias… ti copro mentre spari. 
                   
                  – No, devi pensare tu a Venaria. Sei un atleta, di te 
                  non sospettano, io avrei problemi ad avvicinarmi.  
                  Ma come? Sei arrivato al buffet e nessuno ti ha detto nulla. 
                   
                  – David Jason, mi ascolti?  
                  – Sì…  
                  – Hai capito? Devi essere tu a colpire.  
                  – Non ho mai sparato.  
                  – È facile. Ti do la pistola carica. Basta premere 
                  il grilletto. Avvicinati il più possibile e mira alla 
                  pancia.  
                  – Ma quando?  
                  – Trovalo tu il momento adatto.  
                  Il ragazzo lo guarda. E prende su di sé colpe non sue, 
                  il dolore degli altri. Se solo potesse fare finta di non sentirlo. 
                  Ma non può.  
                  – Va bene. Però sparerò quando sarà 
                  solo. Non voglio colpire chi non c’entra. Noi non siamo 
                  come loro  
                  – D’accordo. Ora vai, David Jason, i tuoi compagni 
                  di squadra ti stanno cercando. Nasconderò la tua pistola 
                  in un posto sicuro. Alla fine della partita ti dirò dove. 
                 
                
                
                
                Un bel congegno  
                  di Franco Bernini  
                Elias ha passato la trentina, la rivoluzione è la sua 
                  donna, lo ha fatto innamorare ma non gli si concede, almeno 
                  non come lui vorrebbe. Ha carisma, lo seguono in molti, ma non 
                  quanti sperava. Gli è mancata un’occasione per 
                  mettersi bene in luce, per affascinare.  
                  E se l’occasione non capita, bisogna crearla.  
                  Lui è certo, da ex studente di fisica, che la rivoluzione 
                  sia non soltanto inarrestabile ma anche alle porte, questione 
                  di mesi, al massimo di anni, non più di un lustro in 
                  ogni caso. Il 1903, non oltre.  
                  Ha studiato a lungo, con pazienza, i fenomeni della vita sociale, 
                  inclusi i problemi economici, politici e morali, le mozioni 
                  e le passioni delle masse. Tutto si riduce a dinamiche limpide, 
                  perfettamente analizzabili.  
                  Meccanica. Cinetica. Null’altro.  
                  Questione di rapporti di forza.  
                  Una leva può sollevare il mondo.  
                  Per questo ha pensato a Venaria. E a David Jason. L’attentato 
                  avrà eco in tutta Europa e nelle Americhe. Sarà 
                  d’esempio.  
                  E lui, Elias, ne coglierà i frutti stando al sicuro in 
                  Svizzera, dove conta di essere tra qualche ora. Da li spargerà 
                  la voce che lui c’era, ha pensato ed eseguito quel gesto 
                  risoluto con la complicità del poeta; dirà che 
                  purtroppo il ragazzo non ce l’ha fatta a fuggire, mentre 
                  lui si è sottratto per puro caso alla cattura.  
                  Comunque vada, ne trarrà fama. Se il deputato morrà, 
                  per ogni ribelle a giustiziarlo sarà stato anche lui. 
                  Se non morrà, avrà comunque il merito di aver 
                  tentato.  
                  Se anche lo dovessero arrestare prima che raggiunga il confine 
                  (ma ci crede poco), non ci sarebbero prove a sufficienza contro 
                  di lui. Rimarrebbe il sospetto, altro motivo di fama. E dal 
                  processo non ricaverebbe che ulteriore notorietà. Ha 
                  ideato un bel congegno.  
                  David Jason, forse, lo prenderanno vivo. Parlerà di lui? 
                  Per come lo conosce, pensa di no. E se anche fosse, il ragazzo 
                  farebbe la figura del traditore. Elias potrebbe smentirlo, in 
                  tribunale. O altrimenti accusarlo di essere un Giuda, dalla 
                  Svizzera. In ogni caso non ne avrebbe danno.  
                  E poi David Jason quasi certamente lo uccideranno, per fermarlo 
                  o per rabbia nei momenti convulsi del dopo. Ad Elias dispiace 
                  per lui, gli dispiace davvero, lo ha in simpatia. Non lo manderebbe 
                  così allo sbaraglio se l’occasione non lo meritasse. 
                  Ma di ragazzi generosi e avventati come il poeta ne verranno 
                  tanti, magari proprio perché attratti da quell’atto 
                  di giustizia che si sta per compiere. Di capi come lui invece 
                  ce ne sono pochi. Sono sacrifici necessari, soprattutto se a 
                  farli sono altri. Proprio un bel congegno. Meccanico. Cinetico. 
                 
                Brani tratti da: Franco Bernini, La prima volta, Einaudi, 
                  Torino, 2005.  
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