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                Non se ne abbiamo a 
                  male i lettori di “A” se affronto un tema così 
                  disdicevole dal punto di vista anarchico come quello delle elezioni. 
                  Ma è solo in Italia, lo ammetteranno anche loro, che, 
                  dopo un confronto elettorale importante, quello delle regionali 
                  del 3 e 4 aprile, in presenza di risultati imprevisti e un discreto 
                  sconquasso del quadro politico, si può passare tanto 
                  tempo a discutere non delle elezioni in sé, ma di una 
                  trasmissione in cui le si sono commentate. È bastata 
                  l’angusta e inattesa presenza di Berlusconi in RAI 3, 
                  la sera di martedì 5, per dirottare sull’argomento 
                  l’interesse dei commentatori, in un profluvio di analisi, 
                  discettazioni, articoli giornalistici, microfoni aperti e trasmissioni 
                  derivate che, nell’insieme, testimonia soprattutto dell’inguaribile 
                  autoreferenzialità del nostro sistema informativo. Forse 
                  varrebbe la pena, avranno pensato in parecchi, di investire 
                  direttamente della presidenza del consiglio il mite Giovanni 
                  Floris, lasciando che Prodi e Berlusconi gareggino tra di loro 
                  per la conduzione di Ballarò.  
                   
                  Le rosse chiome del premier  
                Io, a dire il vero, quel martedì sera avevo altro da 
                  fare, e mi sono perduto l’evento. Sono stato costretto, 
                  così, a vedermelo il giorno dopo in registrata, nel timore 
                  di aver mancato qualche sviluppo fondamentale del dibattito 
                  ideologico in corso. La cosa mi metteva, in un certo senso, 
                  nelle condizioni ideali per coglierne tutte le sfumature, esente 
                  da quell’effetto sorpresa da cui sembra siano stati spiazzati 
                  i telespettatori in diretta all’apparire sul monitor delle 
                  rosse chiome del capo del governo. Invece non ho colto, ve lo 
                  confesso, quasi niente. Il dibattito, a parte qualche battuta 
                  occasionale, mi è sembrato noiosissimo, anche perché 
                  con uno convinto di aver perso solo perché non si è 
                  impegnato abbastanza per vincere che cosa mai si può 
                  dibattere, e poi, diciamolo, ero distratto. Ho passato quasi 
                  tutto il tempo a riflettere su quello che Sherlock Holmes, o 
                  il dottor Watson per lui, avrebbe senza dubbio definito il mistero 
                  delle cravatte a pois.  
                  Lo avrete notato, suppongo, anche voi. I convocati erano quattro: 
                  l’Uomo di Arcore, appunto, e poi D’Alema, Rutelli 
                  e, poveretto, il ministro Alemanno, la cui specialità 
                  è quella di smarcarsi dal berlusconismo puro, ma in quelle 
                  circostanze non poteva proprio farlo e infatti è restato 
                  quasi sempre zitto. Be’, com’è come non è, 
                  portavano tutti e quattro lo stesso modello di cravatta. Blu, 
                  presumibilmente di seta, a pallini bianchi, un po’ più 
                  discreti nel caso di Rutelli, di misura piuttosto cospicua per 
                  gli altri tre. E ancorché parecchi altri indumenti del 
                  genere allignassero in studio, al collo di spettatori, guardie 
                  del corpo e porta-borse vari, per cui immagino si tratti di 
                  un articolo largamente diffuso, la cosa dava un po’ da 
                  pensare.  
                  Non c’è niente di strano, direte voi. È 
                  un caso tipico in cui l’omogeneità mal-celata dei 
                  nostri politici si lascia evidenziare, per uno scherzo della 
                  sorte, da un particolare affatto esteriore. Frequentano, costoro, 
                  tutti lo stesso giro, si occupano, delle medesime cose, concordano 
                  sull’imperativo di tenere quanto più possibile 
                  fuori dai piedi eventuali terzi incomodi, si danno immancabilmente 
                  del tu, perché non dovrebbero portare la stessa cravatta? 
                  Oltretutto, la scelta di un insieme cromatico ideologicamente 
                  “neutro”, come il blu a pallini bianchi, si addice 
                  a un’occasione in cui è meglio non ostentare appartenenze 
                  troppo pronunciate. Solo i leghisti DOC, ormai, sono fedeli 
                  al colore di partito e nessuno si aspetta che D’Alema 
                  inalberi in diretta un tessuto rosso quercia (se esiste un rosso 
                  quercia) o Rutelli un motivo a margherite. E poi l’Italia 
                  è il paese delle mode e della Moda e se la Moda e le 
                  mode impongono il blu a pallini bianchi, che blu a pallini bianchi 
                  sia.  
                 
                    
                  Omologazione come punto d’arrivo 
                 
                Tutto normale, dunque. Ma resta un particolare su cui riflettere. 
                  Quei quattro, a pensarci, appartengono, sì, allo stesso 
                  ceto politico, ma ci sono arrivati per vie abbastanza diverse. 
                  Berlusconi sappiamo tutti chi è e da dove viene. D’Alema 
                  è un figlio d’arte della prima repubblica e del 
                  vecchio PCI, il che già configura due modelli antropologici 
                  alquanto diversi. Rutelli, che Dio lo perdoni, viene dall’alernativismo 
                  degli anni ’70, sia pure in versione soft pannelliana, 
                  e quanto ad Alemanno, non so nulla delle sue esperienze pregresse, 
                  ma ho il mezzo sospetto che non riguardassero i partiti dell’arco 
                  costituzionale (e neanche i boy scout). L’omologazione 
                  di cui testimoniavano quei tagli di tessuto, dunque, non era 
                  tanto un dato di partenza, un semplice marker esistenziale, 
                  quanto un punto d’arrivo, l’ostentazione orgogliosa 
                  di un bersaglio centrato, magari a prezzo di qualche sforzo. 
                   
                  Non per tutti, però. Da un punto di vista strettamente 
                  referenziale, non erano, quelle cravatte, tutte sullo stesso 
                  piano. Se attorno a tre colli su quattro, la loro presenza – 
                  per un motivo o per l’altro – strideva un po’, 
                  nel quarto caso l’oggetto sembrava naturalissimo, come 
                  se chi lo esibiva non avesse mai portato in vita sua un altro 
                  modello. Il blu a pallini bianchi, si sa, è uno degli 
                  accessori classici dei doppiopetto di Armani e degli altri paraphernalia 
                  della imprenditorialità lombarda. È di rigore 
                  ai consigli di amministrazione, racconta di prime della Scala, 
                  di cene al Savini e di ricevimenti in villa in Brianza. La sua 
                  diffusione, con un pizzico di malizia, potrebbe essere vista 
                  come una prova del fatto che i vari percorsi in cui oggi come 
                  oggi si articola l’apprendistato politico nel nostro paese 
                  portano tutti, comunque, a Lui. Non rivela l’esistenza 
                  di un’omogeneità qualsiasi: denuncia un processo 
                  avanzato di berlusconizzazione.  
                  Sì, sì, d’accordo, forse esagero. Ma date 
                  retta a me: tenete d’occhio le prossime apparizioni televisive 
                  di Prodi. Può valere la pena di controllare che cosa 
                  avrà al collo lui.                    
                  Carlo Oliva 
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