Era l’antivigilia 
                    dei funerali di Karol Wojtila. Un compagno romano, sentito 
                    casualmente al telefono, inarrestabile come un fiume in piena 
                    mi ha trasmesso la sindrome da soffocamento provata lavorando 
                    a pochi metri dalle interminabili file di pellegrini salmodianti 
                    che attendevano sino a quindici ore il proprio turno per poter 
                    rendere omaggio alla salma del papa. 
                    Un amico di un’amica parlava di alluvione umana, una 
                    marea di persone tra le quali, transfuga dal primo diluvio 
                    del secondo millennio, galleggiava desolata qualche auto resa 
                    inutile dal riempimento totale di ogni spazio. A far da contrappunto 
                    a queste sensazioni in presa diretta i ripetuti e sempre più 
                    allarmati sms della protezione civile che invitavano a diradare 
                    le partenze, a muoversi in gruppo, e, infine, a non muoversi 
                    affatto perché la paralisi era ormai raggiunta. 
                    Il compagno romano poco prima della sua fuga dalla capitale 
                    mi narrava la vita all’epoca della fine della secolarizzazione 
                    con particolari degni di un medioevo da film catastrofico: 
                    l’orrendo tanfo di urina che aleggiava ovunque ne era 
                    il segno più emblematico, specie per l’indifferenza 
                    fanatica con cui i pellegrini affrontavano questa sorta di 
                    autoimposta via crucis. Mentre Roma, pur con la sapienza millenaria 
                    di chi ne ha viste di ogni colore, pareva più prostrata 
                    che ai tempi del sacco dei lanzichenecchi. 
                    Una collega del compagno, avendo la possibilità, grazie 
                    ad un pass, di risparmiare alla madre cattolica le lunghe 
                    ore di attesa riducendole a poco più di mezz’ora, 
                    si era sentita rispondere con tono dolente che “così 
                    non vale”. 
                    Ho avuto a questo punto chiara consapevolezza che l’omaggio 
                    al defunto, più che un gesto di reverenza verso un’autorità, 
                    era divenuto un atto penitenziale, un gigantesco lavacro collettivo. 
                    Un piccolo martirio di fronte alla salma di un papa che aveva 
                    giocato le ultime carte del suo lungo regno all’insegna 
                    della sofferenza esibita sino all’oscenità dell’estrema 
                    performance pubblica. Silente ma fragorosa l’agonia 
                    mostrata in diretta mondiale ha posto l’ultimo tassello 
                    del pontificato del primo papa polacco. Vedendo le foto, mi 
                    sono da anni risparmiata il video, ho pensato “pietà 
                    l’è morta”. Sebbene sapessi che Wojtila 
                    aveva voluto percorrere un tale cammino mi è risultato 
                    difficile non pensare che quello esibito con tanta sicumera 
                    dalle finestre vaticane era un povero vecchio dolente e un 
                    po’ rincoglionito. Sarà l’incancellabile 
                    segno lasciatomi da un umanesimo laico irriducibile alle logiche 
                    sacrificali di certo sentire religioso, ma quello che per 
                    27 anni è stato un fiero ed irriducibile nemico della 
                    libertà, della speranza di emancipazione individuale 
                    e sociale, mi ha suscitato forte pena. 
                    La sua immagine si è sovrapposta a quella di Terri 
                    Schiavo, la cui sofferenza si era conclusa mentre l’agonia 
                    di Wojtila entrava nella sua fase finale. 
                   
 
                    Tra dolore e santità 
                  Una volta tanto non ho potuto che concordare con i peggiori 
                    reazionari: siamo di fronte ad uno scontro di civiltà 
                    di inaudita violenza. 
                    Da un lato una concezione dell’umano che valorizza e 
                    salvaguarda il diritto a godere della vita nella sua pienezza, 
                    scegliendosi in piena libertà. Dall’altro un 
                    pensiero autoritario che scinde l’individuo da se stesso 
                    consegnandolo nelle mani brutali di un dio crudele, un dio 
                    che benedice la sedia elettrica dove la democrazia statunitense 
                    frigge anche i ragazzini, un dio che santifica la vita nell’icona 
                    mostruosa di un uomo torturato e morto sulla croce. Una croce 
                    che i preti di ogni tempo vorrebbero caricare sulle spalle 
                    di noi tutti. Per questo Terri Schiavo è un simbolo, 
                    il simbolo di una civiltà fondata sul dolore, sulla 
                    tortura, sull’imposizione del martirio. 
                    La sua fine, come quella di Wojtila, ne è l’emblema 
                    macabro: carni sofferenti date in pasto alle folle, spiate 
                    dalle telecamere, monitorate nelle funzioni corporali assunte 
                    a segni dello spirito. 
                    L’associazione tra dolore e santità, tra sacrificio 
                    ed elevazione morale, mette al centro del palcoscenico l’osceno, 
                    trasfigurando il troppo umano in oltre umano. 
                    L’aureola di Wojtila la stanno lucidando da tempo nei 
                    sotterranei del Vaticano. Le folle accorse a Roma gliel’hanno 
                    già posta in capo. Ed ogni pellegrino era convinto 
                    di portarsene a casa un frammento, guadagnato nella lunga 
                    attesa tra immondizia e sudore nelle vie di una Roma attonita. 
                    
                    Quante ere geologiche sono passate da quel luglio del 1881 
                    quando la salma di Pio IX, che attendeva da un pezzo sepoltura, 
                    venne portata semiclandestinamente a Roma, dove nonostante 
                    le precauzioni sfuggì d’un soffio alla rabbia 
                    del popolo inferocito che tentò di gettarla nel Tevere 
                    per poi riparare con una fuga precipitosa in S. Lorenzo? 
                    Eppure l’uomo che si vuole oggi santificare a furor 
                    di popolo ha avuto nel nostro secolo un ruolo non diverso 
                    da quello che nel proprio svolse Pio IX, che alla modernità 
                    laica che avanzava si oppose con tutte le proprie forze, guadagnandosi 
                    l’odio feroce della città eterna. 
                    Certo, contrariamente al suo predecessore, ha dimostrato la 
                    straordinaria capacità di vestire di abiti nuovi e 
                    accattivanti la vecchia paccottiglia che ha riportato in auge. 
                    Con indubbia sapienza comunicativa ha avuto parole di dialogo 
                    mentre reprimeva e cancellava ogni opposizione interna alla 
                    sua bottega. Ha sceneggiato in pubblici eventi l’incontro 
                    ecumenico che nei fatti si è adoperato a distruggere. 
                    Ha sostenuto le peggiori dittature in Cile, in Argentina e, 
                    da ultimo, a Cuba. Sempre in prima fila a difendere i diritti 
                    umani, si è ben guardato dal chiederne il rispetto 
                    ad Augusto Pinochet, il sanguinario che riceveva in udienza 
                    privata mentre nelle galere cilene gli oppositori venivano 
                    torturati a morte. Passerà alla storia come uomo di 
                    pace, ma della pace è stato sostenitore solo quando 
                    era nell’interesse della chiesa: pacifista sì 
                    in Iraq, ma guerrafondaio convinto in ex Jugoslavia. Il governo 
                    statunitense, che ha notoriamente scarsa finezza comunicativa, 
                    nel ricordarlo ha elogiato il suo pieno appoggio alla decisione 
                    USA di non ritirare i missili atomici puntati sull’impero 
                    del male. Evidentemente, il papa che “ha vinto il comunismo” 
                    non si fidava troppo del suo armamentario celeste. 
                  
                  Polonia, 
                    1939. Karol Wojtila soldato
                   
 
                    Contro donne, gay, scienza 
                  La sua politica delle santificazioni – ha fatto più 
                    santi lui in tre decenni che i suoi predecessori in tre secoli 
                    – la dice lunga sull’atteggiamento politico di 
                    Woitjla. Sempre (prudentemente) in ginocchio per chiedere 
                    perdono di malefatte che gli “storici” al suo 
                    servizio si preoccupano nel frattempo di minimizzare (roghi 
                    di streghe ed eretici, persecuzione degli ebrei, crociate 
                    antiislamiche) ha altresì alzato agli onori degli altari 
                    alcuni dei peggiori criminali del secolo scorso. Ricordiamo 
                    Stepinaç, che benedisse gli spaventosi massacri ustascia 
                    della seconda guerra mondiale, e divenne il protettore della 
                    nuova Croazia cattolica di Franjo Tudjman in piena guerra 
                    civile adeguatamente foraggiata dal Vaticano. E come dimenticare 
                    i preti spagnoli che sparavano ai rivoluzionari durante il 
                    colpo di mano fascista del cattolicissimo Francisco Franco 
                    fatti santi in massa da Karol Wojtila? 
                    Inutile forse rammentare i suoi interventi reazionari in materia 
                    di libertà personale ed autodeterminazione, il suo 
                    accanimento contro le donne, i gay, la ricerca scientifica. 
                    
                    In fondo, è bene ribadirlo, Wojtila non ha fatto che 
                    il proprio lavoro, il lavoro di un monarca assoluto a capo 
                    di un’istituzione che pretende di fondare la propria 
                    legittimità direttamente in cielo. Chi crede di incarnare 
                    la “Verità” non può che vestire 
                    di abiti nuovi la ferocia assolutista ed integralista del 
                    suo magistero. Eccellente comunicatore ma incapace di commuovere, 
                    negli ultimi anni Wojtila e la sua corte hanno coronato con 
                    un’aura di martirio la propria imponente opera di restaurazione 
                    teocratica. Che ha visto nel giorno del suo funerale un bagno 
                    di folla e l’omaggio dei potenti di mezzo mondo. Un’apoteosi. 
                    
                    Tutti in ginocchio di fronte al trono di Pietro i politici 
                    del nostro paese, anche quelli che per storia politica e personale 
                    si sono formati nel cono di luce di una cultura laica, che 
                    oggi è sempre più patrimonio consapevole di 
                    pochi. 
                    I potenti della terra si asserragliano tutti dietro le insegne 
                    delle religioni, religioni che reclamano continuamente un 
                    tributo di sangue e sofferenza. 
                    Di fronte ad una siffatta esibizione di fanatismo le ragioni 
                    laiche e di chi sa che la libertà di fare è 
                    quel che distingue la solarità carnale della vita pienamente 
                    vissuta dalle oscene piaghe di Cristo, dei tanti poveri cristi 
                    di questo mondo, dovrebbero affermarsi con la forza e lo slancio 
                    di due secoli di secolarizzazione. 
                    Eppure il fronte integralista appare ben più agguerrito 
                    e saldo di quello laico. Di fronte al granito in cui è 
                    scolpita la fede integralista, la ragione laica si mostra 
                    incerta, traballante, talora esplicitamente subalterna, invischiata 
                    nell’illusione, ormai tramontata sin nelle filosofie 
                    della scienza, che le “verità” di ragione 
                    possano fugare i fantasmi della superstizione religiosa. 
                    Sono le conseguenze di una secolarizzazione mai portata a 
                    fondo, mai compiuta di fronte alla vertigine irriducibile 
                    della libertà cardine di un ordine simbolico e sociale 
                    auto-fondato perché in-fondato. 
                    L’ansia di ripescare radici cui aggrapparsi in questa 
                    modernità dolente che moltiplica l’incertezza, 
                    erodendo i legami sociali, le narrazioni non escatologiche, 
                    spiega l’oceano umano che si è riversato per 
                    le strade di Roma per le esequie di un uomo cattivo e autoritario 
                    come Karol Wojtila. 
                    E non è certo un caso che gli anarchici, unici amanti 
                    della libertà che non la temono, siano stati tra i 
                    pochi a restare ritti mentre i più si piegavano di 
                    fronte al successore di Pietro.