|   Marc 
                  Blitzstein 
                  il maccartismo e l’Opera (incompiuta) 
                  Sacco and Vanzetti.  
                Lo spunto per ricordare Marc Blitzstein (1905-1964) nel centenario 
                  della nascita ce lo offre il pregevole saggio (1) 
                  di Maria Cristina Fava, stampato l’anno scorso, che analizza 
                  il caso del Musical incompiuto Sacco e Vanzetti, del compositore 
                  statunitense definito da Eric Gordon (2) 
                  «la coscienza sociale della musica americana» il 
                  quale «manifestò in molti dei suoi lavori una marcata 
                  sensibilità verso i problemi sociali e le ideologie collegate 
                  al proletariato».  
                  Blitzstein, solo per aver iniziato a raccogliere materiale e 
                  scrivere un’Opera avente come tema il caso Sacco e Vanzetti 
                  si è visto chiudere tutte le strade professionali e contro 
                  di lui è scattato quel meccanismo preventivo/repressivo 
                  intimidatorio che la storia ha registrato col termine di maccartismo, 
                  il sistema funzionale e ben oleato ancora ben presente nella 
                  quotidiana politica contemporanea.  
                  Sappiamo, come ricorda l’autrice, che «La musica 
                  è indubbiamente un riconosciuto e prezioso mezzo per 
                  raggiungere le masse e il XX secolo è stato testimone 
                  di alcuni formidabili esempi di questa capacità di coinvolgimento» 
                  tant’è, aggiungiamo noi, che i regimi totalitari 
                  di questo secolo (dittature o democrazie poco importa) hanno 
                  esortato, condizionato – e interferito su – non 
                  pochi musicisti e musicologi per piegarli alla (loro) fondamentale 
                  esigenza di orientare il consenso e indottrinare le masse. Un 
                  atteggiamento, odioso quanto strutturale, comune alle dittature 
                  di ogni colore, che non esclude i cosiddetti “liberi” 
                  regimi democratici, Stati Uniti in testa (e i suoi “fanti 
                  di picche” a seguire), campioni di più raffinate 
                  dittature postmoderne: censura e persecuzione (aperta o celata) 
                  sono una delle armi più micidiali dell’ideologia 
                  del dominio, pronta a reprimere chiunque si attivi al di fuori 
                  delle linee stabilite dai parassiti della società. Una 
                  delle sue ultime formulazioni, oggi, è riassunta nello 
                  slogan «tolleranza zero», che avvicina paurosamente 
                  le due (moderne) forme essenziali di dominio dell’uomo 
                  sull’uomo (nazi-fascismo e democraticismo) facendole quasi 
                  coincidere nella nuova formula di dominio postmoderno che è 
                  il liberismo. Siamo convinti, intanto che rievochiamo la figura 
                  di Blitzstein, che moltissimi altri musicisti e artisti (ma 
                  non solo), nei quattro mondi, stiano subendo, nell’ombra 
                  della quotidianità istituzionale, la sua stessa sorte. 
                 
                   
                Gli studi musicali, iniziati negli States, continuati a Parigi, 
                  quindi in Germania, portano Blitzstein a contatto con l’ambiente 
                  del movimento artistico rivoluzionario animato da Bertolt Brecht, 
                  Kurt Weill e Hanns Eisler, le cui teorie stimolano il giovane 
                  musicista «a considerare il grande impatto sociale della 
                  musica e il suo potenziale politico».  
                  Il periodo di formazione musicale e politica si conclude tragicamente 
                  nel 1936, con la morte per anoressia di Eva Goldbeck, «che 
                  ebbe un’influenza determinante sulla sua teorizzazione 
                  della musica come mezzo per raggiungere le masse». Il 
                  distacco forzato dalla sua “amante intellettuale”, 
                  che Blitzstein aveva conosciuto nel 1928 e sposato nel 1932 
                  nonostante la sua conclamata omosessualità, stimola un’intensa 
                  attività creativa e sono di quel periodo alcuni dei suoi 
                  lavori più provocatori (3). 
                  Poi la guerra. A Londra, con funzioni di direttore della stazione 
                  radio americana, compone altri due pezzi (4). 
                  Tornato negli USA, scrive altre quattro opere (5), 
                  poi, il 22 gennaio 1964, la tragica quanto oscura fine, in Martinica, 
                  a seguito di una selvaggia aggressione.  
                  Con l’improvvisa morte, alcuni suoi progetti musicali 
                  rimangono incompiuti (6) tra cui l’Opera 
                  Sacco e Vanzetti commissionata dal Metropolitan Opera Theatre 
                  e sovvenzionata dalla Ford Foundation, che lo stesso autore 
                  stentava a concludere a seguito delle vessazioni cui era stato 
                  sottoposto dalla destra americana.  
                Circa la mancata Opera Sacco e Vanzetti di Blitzstein, in molti 
                  hanno indagato, ma a molti era sfuggito il fatto che quel tema, 
                  ancora negli anni Sessanta, in America era tabù. Che 
                  nessuno, ancor meno il governo americano, voleva ancora discutere 
                  dei due anarchici fatti arrostire sulla sedia elettrica nel 
                  1927, sia come duro monito per quanti osassero inneggiare al 
                  comunismo e all’anarchia nella “già libera” 
                  terra americana (garante perfino della felicità ma non 
                  certo del piacere di viverla), sia per compiacere l’allora 
                  ancora “adolescente” regime fascista, coi quali 
                  gli USA avevano ottimi rapporti. Le grandi mobilitazioni che 
                  si erano susseguite non solo in America, dalla sentenza all’esecuzione, 
                  avevano, però, lasciato il segno e il caso Sacco e Vanzetti, 
                  pur sopito nei trent’anni successivi, non era stato archiviato 
                  dalle coscienze più fini: guai a parlarne, però. 
                  Soprattutto nel nuovo clima da guerra fredda. Sì, certo, 
                  in casa, al bar, nei circoli politici. Ma farne un’Opera! 
                  E al Metropolitan! Sponsorizzata, addirittura, dalla Ford Foundation! 
                   
                  L’ultima indagine, in ordine di tempo [nel saggio citato] 
                  intreccia l’esistenza dell’artista – caratterizzata 
                  dal bisogno di essere parte espressiva della coscienza generale 
                  della società – con la messa in campo, da parte 
                  della destra americana, di ogni ostacolo in grado di impedire 
                  la realizzazione di un progetto che intendeva mettere in scena, 
                  in quegli anni, il caso Sacco e Vanzetti. Andando al sodo e 
                  utilizzando ogni mezzo, su Blitzstein viene lanciata una capillare 
                  crociata fondata su: denigrazione e ridimensionamento delle 
                  qualità artistiche dell’autore, da parte dei più 
                  noti e diffusissimi giornali conservatori, schedatura e continue 
                  convocazioni, da parte dell’FBI, controllo delle relazioni 
                  politiche e personali, da parte del Comitato per le attività 
                  antiamericane, lettere minatorie a fiumi, da parte della John 
                  Birch Society, un’associazione privata ultrareazionaria, 
                  inclusione nella lista delle centocinquantuno personalità 
                  “di sinistra” redatta dall’organizzazione 
                  anticomunista Counterattack e mille altre piccole e grandi angherie. 
                   
                  Per tutti, il leit motiv era uno solo: Sacco e Vanzetti avevano 
                  ucciso e per questo avevano pagato; quel Blitzstein lì, 
                  che intendeva musicarne i fantasmi, in fondo, era solo un poveraccio, 
                  per di più omosessuale, bohémien, comunista, ebreo 
                  e libero pensatore, quindi antiamericano, ergo: andava distrutto, 
                  senza tralasciare il dare una tiratina d’orecchie alla 
                  Ford Foundation e al Metropolitan Theatre.  
                  La cattiva coscienza americana non poteva salire su un palcoscenico, 
                  soprattutto se si rivangava uno degli episodi più emblematici 
                  dell’ipocrisia nazionale, che tanto scalpore aveva suscitato 
                  sul piano interno e internazionale, mettendo sotto accusa tutto 
                  quel sistema spacciato come il “migliore del mondo”: 
                  il caso Sacco e Vanzetti.  
                  In un tal contesto di caccia alle streghe, anche la misteriosa 
                  morte di Blitzstein, su cui nessuno ha mai indagato seriamente, 
                  rientra, a buon diritto, nella democratica crociata indetta 
                  dalle buone coscienze americane, su cui veglia, rassicurante, 
                  la statua della libertà.  
                  
                  Santo Catanuto 
                Note 
                
                  - Maria Cristina Fava, L’ombra del maccartismo contro 
                    Sacco and Vanzetti di Blitzstein, in «Musica/Realtà», 
                    n. 74, luglio 2004, Milano, pp. 101-117. 
                  
 - Eric Gordon, Mark the Music. The Life and Work of Mark 
                    Blitzstein, New York, St. Martin Press, 1989 (Gordon 
                    è il principale biografo di Blitzstein). 
                  
 - The Cradle Will Rock (1936); I’ve Got 
                    The Tune (1937, dramma radiofonico); No For An Answer 
                    (1941, musical/opera). Nel 1932 aveva composto un Oratorio 
                    per quattro cori e orchestra (The Condemned), mai eseguito. 
                  
 - Freedom Morning (1943) e Airborne Symphony 
                    (1946). 
                  
 - Regina (1949, versione operistica di The Little 
                    Foxes di Lillian Hellman); un adattamento in inglese 
                    della Dreigroschenoper di Kurt Weill (1952); Reuben 
                    Reuben (1955) e Juno (1959), entrambe per il 
                    teatro musicale. 
                  
 - Idiots First e Magica Barrel, composizioni 
                    operistiche. 
                
  
                
  
                  
                La mia 
                  Tribù 
                Carichi di sogni e di vita  
                  ove sperar miglior futuro  
                  fin dal primo gioco sicuro  
                  il mondo chiuso fra frementi dita.  
                  Giovani incoscienti guerrieri  
                  danzar sull’orlo precipizio  
                  per amore di un vero inizio  
                  quando la fine non era che ieri.  
                  Parole cianciate verso paradisi  
                  terreni solcati da ruvide mani  
                  già prima dell’atteso domani  
                  in tempi rapidi allegri precisi.  
                  Travolti gli incerti orizzonti  
                  insieme per tribù solidali  
                  convinte nel combattere i mali  
                  tra intrepidi strade e aperti ponti.  
                  Sgominati spazi estesi  
                  da pregiudizi radicati e tenaci  
                  preti generali rivoluzionari mendaci  
                  losche figure siamesi.  
                  Ora che il vento ribelle non dura  
                  nessun ricorda l’affannosa meta  
                  ove ognun era facil profeta  
                  con qual fonte placar l’arsura.  
                  Solo a rimestar svaniti valori  
                  rimpiango alcuni errori di gioventù  
                  fra quotidiani immondi orrori  
                  breve commiato alla mia Tribù.  
                  
                  Jules Èlysard 
                  
                  
                La ricca povertà 
                  dell’impresa 
                Tra i pregi di cui è ricco il libro di Antonia De Vita 
                   Imprese d’amore e di denaro (Guerini 
                  Associati, Milano 2004) risplende quello, generalmente assai 
                  raro nella produzione saggistica, di trattare temi economici, 
                  politici, sociali, lavorativi con lievità e profonda 
                  accuratezza.  
                  Effetti di un dire e scrivere “a partire da sé” 
                  senza, perciò stesso, porsi da parte dell’autrice 
                  in posizione individualistica rendono la lettura intrigante, 
                  piacevole.  
                  Il libro è ispirato dall’esperienza di chi scrive 
                  pur non risultando un testo autobiografico. Sono le relazioni, 
                  i contesti, le circostanze, a fare la storia: a dare senso all’agire 
                  fattuale e simbolico. Il linguaggio, per quel tanto di imprevisto 
                  e di rischio che sostiene l’impresa di scrittura, assurge 
                  a contenuto e a forma della stessa. Un linguaggio da “fiaba” 
                  dove la fiaba è riscoperta percorso formativo e creazione 
                  sociale.  
                  “Della prima volta in cui l’espressione creazione 
                  sociale è comparsa in un mio discorso – si 
                  legge nel prologo – ricordo le circostanze: era in un 
                  corridoio, durante una pausa di un corso di formazione all’impresa 
                  sociale che la mia associazione aveva ideato e stava realizzando 
                  [...] ‘Cosa stiamo facendo?’ spesso mi domandavo. 
                  Alla lettera stavamo svolgendo un corso per l’avvio di 
                  impresa in un quartiere della città, ma il mio interrogativo 
                  nasceva da quello che, giocando sul serio chiamo un movimento 
                  di liberazione del significante”.  
                  Resoconto di moventi e movenze che circolano dal presente fattivo 
                  e riflessivo, il testo arricchisce circostanze quotidiane, apre 
                  altri contesti e dà voce a pratiche nuove-antiche dell’intraprendere. 
                  Impresa d’amore era quella delle civiltà cortese, 
                  impresa anche “favolosa” quella invitante di Antonia. 
                   
                  Così le parole realizzano e la realtà dà 
                  loro materia di realizzazione. In questa contiguità fluente 
                  e distinta tra essere e parola, creazione sociale e 
                  movimento di liberazione del significante sono cose 
                  vere. Di viva caratura politica, alla maniera in cui Hannah 
                  Arendt considera politico non il contenuto del dire, ma il fatto 
                  di dirlo.  
                  Da una soggettività decentrata e impersonale come quella 
                  agita fra le righe di Imprese d’amore e di denaro, 
                  circoscritta nelle trame relazionali che sa intessere, si articolano 
                  elementi concettuali più sentiti, più vitalmente 
                  sofferti che ideologizzati. Tra gli esempi che ne danno conto 
                  vale l’assunzione con cui Antonia De Vita ri-scopre la 
                  valenza d’impresa desiderante, anche nel capitalismo. 
                  Sottratto all’analisi secolare che lo vede(va) il principio 
                  di ogni male – politico – e la causa di ogni ingiustizia 
                  – sociale – il surplus di valore viene liberato 
                  dalle strettoie dell’accumulo di profitto. Ciò, 
                  tuttavia, non significa ribaltare l’assunzione del capitalismo 
                  con il suo elogio, del quale nel libro non c’è 
                  traccia; consente, in vero, di volgere lo sguardo, con i sensi 
                  e con le parole, verso l’interrogazione di quella logica 
                  economicistica a cui “è stata drasticamente ridotta 
                  [...] la matrice affettiva del fare-essere impresa”.  
                  La lettura del libro suggerisce considerazioni il più 
                  delle volte fulminee, comprensioni così nuove da spostare 
                  la visuale sulle cose, con il dono di allargare – un poco 
                  che è tanto – e di chiarire – in parte e 
                  in assoluto – l’orizzonte del reale. Per esempio: 
                  il senso dell’impresa è affermato, come sembra 
                  comunicarlo l’autrice, fuori dall’idea di azienda. 
                  L’impresa appassiona per quello che non è. Non 
                  è azienda, appunto. La incorpora, ma non coincide con 
                  essa, proprio laddove il desiderio e la presa sul reale surclassano, 
                  senza disprezzarli o cancellarli, i progetti precostituiti e 
                  i modelli standardizzati con pratiche in atto di politica più 
                  elementare e più vicina alle cose; surclassano le gerarchie 
                  con le differenze conflittuali, le strutture assodate con gli 
                  sbilanciamenti collaborativi di un saper stare vicino agli inizi. 
                  A disfare e rifare altro: altri mondi possibili. Come negli 
                  stupori artistici e negli incantamenti poetici.  
                  
                  Monica Giorgi 
                Antonia De Vita collabora con la cattedra di Pedagogia 
                  generale e sociale nella facoltà di scienze della formazione 
                  dell’Università di Verona, dove si occupa, prevalentemente, 
                  di filosofia della formazione. Ha fondato, insieme ad altre, 
                  la cooperativa Guglielma ricerca e creazione sociale. 
                   
                  Si è perfezionata sui temi della mistica medievale femminile 
                  e nel 1996 ha vinto il Premio Maria Grazia Zerman, con la tesi 
                  di laurea Autobiografia e differenza femminile nello Specchio 
                  delle anime semplici di Margherita Porete.  
                  Imprese d’amore e di denaro è stato discusso 
                  in sua presenza al Circolo Anarchico Carlo Vanza di Locarno. 
                 
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