|    Lupi 
                  Rieccole, le musiche a cui non si sa dare un nome. Quelle 
                    intrappolate nei cd che non si sa dove mettere (troppo strano 
                    per chiamarlo rock, troppo sperimentale per essere jazz...). 
                    Sono musiche che raccontano storie, storie strane.  
                    I “Lupi” di Claudio Lodati e Marco Giaccaria hanno 
                    gli stessi occhi di fuoco dei lupi bianchi dentro a “Black 
                    flag”, vecchio romanzo tenebroso di Valerio Evangelisti. 
                    Sanno aspettare, i lupi. Ti guardano da lontano, ma la lontananza 
                    non significa salvezza, perché i lupi hanno il dono 
                    del silenzio e della sorpresa quando mirano alla gola.  
                    Nel cd i lupi prendono la forma sfuggente di frammenti sonori 
                    improvvisati, mescolanze sempre diverse delle chitarre di 
                    Claudio e dei trattamenti elettronici di Marco. Musica nata 
                    da improvvisazioni, però chiamarla musica per caso 
                    non va bene: la casualità non è solo un altro 
                    modo di chiamare con superficialità le perle gettate 
                    ai porci. Questi lupi sono musica che è frutto di ragionamenti, 
                    complotti, premeditazione. Claudio offre chitarre che sotto 
                    la maschera della riconoscibilità sfidano pareti verticali 
                    intrascrivibili. Marco sgrana come rosari sequenze subdole 
                    e ingannatrici: basta grattare appena appena sotto la superficie 
                    di certi loop “carini” giusti giusti per un jingle 
                    per sorprendersi di unghie affilate, basta avere il coraggio 
                    di strappare un angolo di certa tappezzeria computerizzata 
                    per svelare le crepe cattive che corrono attraverso questi 
                    muri.  
                    
                   Quello di Claudio e Marco è un disco di una bellezza 
                    magnetica e oscura, attraente come un gorgo, dove l’unica 
                    rassicurazione viene dalle note poste all’interno di 
                    copertina, che descrivono la collocazione spaziale stereofonica 
                    delle chitarre e la presenza e grosso modo il tipo degli interventi 
                    artificiali. Ci sono anche due piccole foto, i ritratti dei 
                    due autori/esecutori accanto alle proprie armi, che non promettono 
                    niente di buono. Il resto è vertigine, inquietudine, 
                    temporale nero che si avvicina e nasconde il cielo.  
                    Introvabile nei negozi. Cercatelo sul web su www.marcogiaccaria.it 
                    e www.lodati.com. 
                   
                    Obedience 
                       
                  La storia di questo cd degli americani Larval comincia con 
                    un inseguimento mozzafiato di chitarre elettriche gommose, 
                    ruota contro ruota senza tregua e senza paura di farsi male, 
                    il guard rail sfiorato di corsa come dentro a un videogioco. 
                     
                    Larval è un ectoplasma rocksperimentale messo in piedi 
                    da Bill Brovold, chitarrista visionario frequentatore di brutti 
                    giri tipo la Tzadik e la Knitting Factory. La formazione non 
                    è stabile: alcune cose funzionano solo per uno o due 
                    elementi, altre addirittura (nel secondo album del gruppo) 
                    sono partiture sovrapposte per 17 elementi. “Obedience” 
                    è il suo/loro terzo cd.  
                    Bill sembra modellare la voce del suo strumento come un fan 
                    sballato ed ultraquarantenne del dinamico duo Fripp/Belew: 
                    corde e dita annodate in ore e ore di disciplina a cucinare 
                    lingue d’allodola in gelatina, negli occhi la polvere 
                    di follia di chi cerca l’intonazione giusta come si 
                    impegnasse in un duello laser a difendere il destino del mondo. 
                     
                    Immaginate l’inquietudine dei canadesi Godspeed gettata 
                    di peso sulle spalle della generazione precedente, come se 
                    certe pagine di oggi fossero state suonate con l’incoscienza 
                    psichedelica che faceva il nido nei solchi di trent’anni 
                    fa. Immaginate pezzi di circo equestre spogliati della spensieratezza 
                    acquarello della copertina di “Lizard” e rivestiti 
                    della notte più nera. Immaginate che il vento porti 
                    un refolo Van der Graaf, l’eco di un’arpa spettrale 
                    sopra alle macerie. Ma sopra a tutto immaginate una chitarra 
                    elettrica invadente e dirompente, grigia e inquietante come 
                    un fiume in aprile.  
                    Il Bill suona come un re Cremisi avvelenato e con la bava 
                    alla bocca, come se invece di frequentare coscienziosamente 
                    i corsi vegani di guitar craft e la tisana della buonanotte 
                    avesse optato per serate d’alcool ed incubo metropolitano. 
                     
                    Il suono che si consuma qui dentro è ricco di riff 
                    contorti e ossessionanti, spesso e volentieri pesanti il giusto 
                    e con forte retrogusto progressive. Riff cattivi sì, 
                    ma non come quei certi ibridi punkmetal di periferia di oggi, 
                    tutto fumo ed effetti speciali ma niente ciccia: qui la cattiveria 
                    incombe geometrica ed obliqua come una punizione sognata cento 
                    notti di seguito.  
                    I pezzi sono lunghi eterni come la sera delle prove generali 
                    di una sinfonia perduta e finalmente restituita. Non appena 
                    sembra di giungere da qualche parte, ecco che la musica perde 
                    i pezzi e ritorna il buio.  
                    
                   Il cd è pubblicato dall’americana Cuneiform, 
                    rintracciabile sul web cliccando su www.cuneiformrecords.com. 
                    Cuneiform ha anche pubblicato tra mille cose “156 Strings”, 
                    una raccolta curiosa e stuzzicante fatta di scampoli proposti 
                    da chitarristi contemporanei, tutti in cerca d’avventura 
                    tra le sei corde di una chitarra acustica. Il tutto è 
                    stato messo insieme da Henry Kaiser, rampollo di famiglia 
                    americana ricca nonché chitarrista fulminato da rara 
                    inventiva e dalla capacità camaleontica di ritagliarsi 
                    spazi gustosi non appena avvicina altri colleghi.  
                    Sembra che Kaiser si sia preso l’impegno sovrumano di 
                    tracciare la cartografia della chitarra contemporanea: in 
                    questa raccolta mondi lontanissimi (vecchie glorie come Duck 
                    Baker, Richard Thompson e Peter Lang guancia a guancia con 
                    Steffen Basho Junghans e Fred Frith) si prendono per mano 
                    a formare una catena umana/chitarristica singolare. Impresa 
                    titanica e impossibile, d’accordo, ma questo cd è 
                    tutta roba buona da mangiare e si può descrivere solo 
                    con mugolii di piacere: l’ago del termometro è 
                    mediamente stabile nella zona rossa del godimento estremo, 
                    indeciso tra “stupefacente” e “bizzarro”, 
                    con punte frequenti oltre lo “sballato” e il “completamente 
                    fuori”.  
                    
                   Bella anche la copertina: un sorridente paesaggio montano 
                    tutt’attorno a un laghetto dalla cui superficie sbuca 
                    la testona di un dinosauro furbastro, intento a rosicchiare 
                    la sua merenda vegetariana. Dietro, a specchiarsi sulla superficie 
                    del lago è una formazione di dischi volanti. Da avere, 
                    da ascoltare e riascoltare rabbrividendo ogni volta di sorpresa 
                    ed entusiasmo.  
   
                    Marco Pandin 
                  
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