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                Per l’occidente 
                  al potere, cioè per le forze governative che dichiaratamente 
                  con grande supponenza si stanno autoponendo a salvaguardia dei 
                  valori su cui si fonda l’attuale concetto occidentale 
                  di benessere dei popoli, oggi la democrazia è diventata 
                  la cartina di tornasole che dovrebbe misurare il tasso di libertà 
                  di ogni singolo stato in tutto il mondo. Vissuta e proposta 
                  come la panacea che dovrebbe liberare le forze migliori ed assicurare 
                  la garanzia del rispetto dei diritti individuali, a tutti gli 
                  effetti è stata assunta quale metro di giudizio per decidere 
                  come trattare chi non vi si vuole adeguare, ovviamente con le 
                  buone o con le cattive. In altre parole la democrazia è 
                  ridotta ad uno slogan propagandistico, capace di immettere sul 
                  mercato globale del consenso la bandiera dei presunti supremi 
                  valori occidentali, contrabbandati come superiori a qualsiasi 
                  altro di qualsiasi altra tradizione di civiltà. È 
                  ormai di fatto diventata sempre di più un alibi considerato 
                  buono per svariati usi e consumi, dai più redditizi ai 
                  più efferati.  
                   
                  In suo nome  
                In nome suo si dichiarano e si fanno guerre dagli effetti sempre 
                  più devastanti nei confronti delle popolazioni inermi. 
                  In nome suo gli stati superpotenti e le multinazionali sovrannazionali 
                  finanziarie e mercantili fanno spensierate e segrete alleanze 
                  con regimi dittatoriali di piccolo cabotaggio, capaci di distinguersi 
                  nell’arte redditizia di sorreggersi esclusivamente sull’efferatezza 
                  e la corruzione. In nome suo si perpetuano con gran disinvoltura 
                  situazioni di sfruttamento e di oppressione, alcune al limite 
                  della sopportabilità, stati di povertà e di miseria 
                  sotto la soglia dell’umano culturalmente accettata, situazioni 
                  di disuguaglianza sociale ed economica capaci di abbruttire. 
                  Di fatto in nome suo da diversi decenni il mondo sta consumando 
                  una quotidiana tragedia che vede quali indiscusse protagoniste 
                  la sopraffazione, l’ingiustizia, l’oppressione, 
                  le guerre. È del 14 gennaio scorso il rapporto allarmante 
                  e pessimista sullo stato dei diritti umani nel mondo, che investe 
                  indistintamente tutti gli stati, presentato alla riunione annuale 
                  ONU della Commissione per i diritti dell’uomo.  
                  Eppure la parola democrazia continua ad evocare un eden politico 
                  fondato sulla libertà diffusa, sul rispetto delle singole 
                  persone, sulla garanzia dei diritti fondamentali. Nonostante 
                  tutto continua ad essere considerata l’invenzione politica 
                  più consona a realizzare le mai sopite aspirazioni di 
                  convivenza pacifica e giusta tra gli esseri umani. Perché, 
                  dunque, nel momento in cui ha trovato storicamente la maniera 
                  di diventare da momento potenziale momento effettuale, l’esperienza 
                  che ha messo in campo sta sortendo effetti che ne contraddicono 
                  la spinta propulsiva? Perché il percorso vissuto della 
                  sua attesa attuazione ha generato un mostro, non riconosciuto 
                  tale dalle oligarchie dei potenti e dagli intellettuali che 
                  ne traggono beneficio, ma sofferto come tale dalle masse di 
                  individui che ne subiscono ogni giorno gli effetti? La democrisia, 
                  come l’ha definita Massimo Nava nel suo ultimo libro, 
                  alludendo all’ipocrisia di cui è infarcita la democrazia 
                  del potere globale (1).  
                  Nella sua formulazione quasi lapidaria la risposta appare semplice: 
                  ne è stato stravolto il senso originario. Dal momento 
                  in cui la democrazia prese avvio, trascinata con veemenza sulla 
                  scena storica dalla forza della rivoluzione (Francia 1789), 
                  da possibilità in potenza trasformandosi in fatto operativo, 
                  i nuovi moderni poteri costituiti cominciarono a mettere in 
                  atto un’operazione culturale di progressiva deprivazione 
                  di senso, per preparare una sostituzione di senso. Il fine non 
                  dichiarato (ma quando mai lor signori dichiarano le proprie 
                  intenzioni?) era quello di trovare un supporto ideologico in 
                  grado di giustificare l’instaurazione del nuovo potere, 
                  che sorgeva sulle ceneri del vecchio, l’ancien régime 
                  abbattuto, trascinato dalla richiesta popolare di istituire 
                  un nuovo assetto politico sociale che avesse le caratteristiche 
                  della democrazia, cioè di una partecipazione del popolo 
                  attiva e verace. Dovevano andare incontro alla richiesta popolare 
                  e, nello stesso tempo, garantirsi l’instaurazione del 
                  nuovo potere, eteronomo al pari di quello abbattuto, ma che 
                  avesse l’apparenza dell’autonomia come a gran voce 
                  richiedevano gli eventi.  
                  Ne conseguì che fu inventata e prese piede la democrazia 
                  rappresentativa, come fu definita, assicurandosi tecnicamente 
                  il consenso e al contempo una chiara e netta separazione tra 
                  il potere costituito e il popolo, riproducendo in forma nuova 
                  e partecipata la divisione gerarchica tra chi comanda e chi 
                  è comandato, tra chi ha il potere e chi lo subisce. La 
                  logica del dominio, che da molti millenni incombe sulle sorti 
                  delle genti e che la rivoluzione aveva tentato di scalzare con 
                  la forza degli eventi, era così riuscita a reintrodursi 
                  adattandosi al nuovo sentire ed al nuovo volere. Diventa allora 
                  indispensabile capire un minimo il senso originario e quello 
                  del suo stravolgimento moderno imposto al momento della messa 
                  in opera.  
                  Essa nacque e prese forma per la prima volta nella Grecia antica, 
                  nella città stato di Atene. Il suo maggior elaboratore 
                  teorico fu Aristotele, che capì subito che il problema 
                  politico fondamentale risiede nel potere decisionale e la inserì 
                  nella nota tripartizione delle forme possibili di governo: la 
                  monarchia, l’oligarchia e la democrazia. La monarchia 
                  è caratterizzata dal potere di un solo reggente, il monarca 
                  appunto, il quale assomma unicamente su di sé il potere 
                  di decidere per tutti, con l’annessa facoltà d’imporre 
                  ad ogni suo sottoposto la propria volontà. L’oligarchia 
                  letteralmente è il governo di pochi, di un’élite 
                  in linguaggio attuale, che comprende la variante specifica dell’aristocrazia, 
                  cioè del governo dei nobili, la minoranza aristocratica. 
                  La democrazia è il governo del popolo, dei più 
                  secondo Platone, letteralmente di tutti i componenti la società. 
                  Tradotto in termini quantitativi, le tre forme di governo si 
                  distinguono in quella di uno solo, in quella di una minoranza 
                  di pochi e in quella di tutti o, a seconda delle interpretazioni, 
                  della maggioranza.  
                  
                   
                  Demokratia e gubernum 
                 
                Per capirci qualcosa entriamo più addentro al senso 
                  vero della democrazia, che è un po’ più 
                  complesso di quello che la propaganda occidentale in auge ci 
                  sta contrabbandando. Partiamo dal significato originario: demokratia, 
                  ovvero kratia (governo, potere) del demos 
                  (popolo quale insieme dei cittadini, i politei). Il 
                  popolo vi detiene la sovranità del potere ed ha la titolarità 
                  di governare in quanto popolo. L’atto del governare inerisce 
                  all’azione capace di tenere la direzione giusta (il latino 
                  gubernum indica il timone della nave, meno efficace 
                  del greco kratia che con più aderenza al senso 
                  politico comprende il potere, quale capacità e potestà 
                  insieme, di decidere e tenere la direzione appropriata). Il 
                  governo non è in sé un’istituzione giuridica 
                  costituita (es. il premier e il consiglio dei ministri), come 
                  oggi viene comunemente inteso, ma una funzione sociale, che 
                  nella democrazia originaria dovrebbe essere svolta e condotta 
                  dal popolo nel suo insieme.  
                  In democrazia dunque, per come è stata concepita e per 
                  il senso che continua a trasmettere, il popolo è sovrano 
                  ed è il vero titolare della gestione governativa. Il 
                  governo del popolo, appunto. Ma già in quest’assunto, 
                  frutto di una traduzione inadeguata, sono contenute ambiguità 
                  che vanno chiarite, se siamo spinti dalla volontà di 
                  una comprensione appropriata e idonea a capire veramente. Quel 
                  “del”, riferito al popolo, viene infatti inteso 
                  in maniere contrastanti. O come semplice espressione di un rito 
                  collettivo, com’è per esempio il voto elettorale, 
                  o come proprietà di, nel senso che l’atto del governare 
                  non è esercitato direttamente da chi ne è titolare 
                  mentre ufficialmente appartiene agli elettori che hanno designato 
                  chi lo esercita in loro vece, o come momento concreto e reale 
                  di esercizio diretto del potere da parte del popolo, che ne 
                  è sovrano e titolare. Delle tre l’unica interpretazione 
                  coerente non può che essere la terza, se si vuol veramente 
                  rientrare nel significato originario con serietà e chiarezza. 
                  Le altre due sono interpretazioni di comodo per adeguare il 
                  concetto a condizioni che deviano dal senso di partenza e appartenenza. 
                   
                  Affinché il popolo possa essere realmente sovrano bisogna 
                  che gli si permetta di trovare la maniera di esprimere la propria 
                  volontà e di decidere di conseguenza, dev’essere 
                  cioè libero di esprimersi in tutta la sua pienezza e 
                  complessità, tenendo conto che, per la natura stessa 
                  di cui è costituito, il popolo non può essere 
                  inteso come un corpo unico, ingessato e rigido, dal momento 
                  che è composto da una pluralità di individui, 
                  diversi l’uno dall’altro per il fatto stesso di 
                  essere individui. La democrazia allora, nella definizione delle 
                  sue procedure, come prima preoccupazione dovrebbe avere quella 
                  di rispettare la complessità della naturale pluralità 
                  del demos, che può realizzarsi soltanto se tutti gli 
                  individui sono liberi di esprimersi e di decidere insieme, in 
                  una condizione collettiva in cui nel farlo trovano reciprocamente 
                  pari considerazione e pari possibilità.  
                  Se infatti può esprimersi e decidere solo una parte, 
                  è intuitivo che il demos viene scomposto in 
                  due parti, una che ha la potestas, il potere di decidere, 
                  e l’altra che deve accettare le decisioni che la prima 
                  ha preso. È il caso della democrazia cosiddetta rappresentativa, 
                  in cui il popolo è lacerato da una divisione che ripropone 
                  il rapporto dell’ancien régime tra dominanti 
                  e dominati, tra decisori ed obbedienti (i riottosi vengono sanzionati 
                  per legge). Non è a caso che non è classificata 
                  col solo termine che pretenderebbe le appartenesse, cioè 
                  semplicemente con democrazia, mentre ha bisogno dell’aggettivo 
                  rappresentativa per definirne la specificità. In verità 
                  dunque non possiamo sostenere, come con sicumera si continua 
                  a fare da più parti, che siamo in democrazia tout-court, 
                  bensì, se vogliamo essere onesti, in un regime che parte 
                  dalla democrazia come ispirazione di origine, ma che ha scelto 
                  di trasformarsi in un’altra cosa. Quest’altra cosa 
                  vigente in qualche modo le assomiglia, ma non è più 
                  lei, proprio perché non vi è rispettato l’assunto 
                  fondamentale, che cioè il demos, il popolo in 
                  quanto tale e nella sua interezza, oltre ad avere il titolo 
                  di essere sovrano dovrebbe avere soprattutto la potestas, 
                  il potere di esercitare la propria legittima sovranità, 
                  che non ha.  
                   
                  Divisione gerarchica del comando  
                La democrazia cosiddetta rappresentativa, inventata per ripristinare 
                  la divisione gerarchica del comando, si è imposta sul 
                  corpo della democrazia eliminando tutte quelle forme che permettevano 
                  l’esercizio effettivo del potere decisionale popolare, 
                  come le deleghe con mandato, il controllo sui mandati e la revocabilità 
                  immediata nel caso che il mandato non venga rispettato. Se si 
                  fosse permesso al popolo di avere il controllo effettivo delle 
                  decisioni, attraverso gli organismi che si era creato spontaneamente 
                  (in ogni rivoluzione che ha fatto la storia, da quella francese 
                  a quella russa, sono state castrate le strutture che hanno definito 
                  autonomamente l’ambito e i modi del proprio intervento, 
                  come club, comitati e consigli, per poi instaurare regimi totalitari), 
                  non sarebbe stato possibile imporre un potere in grado di ridefinire 
                  la nuova forma di dominio.  
                  Si è lasciata la forma partecipativa delle elezioni, 
                  per cui si è regalata l’illusione di prender parte 
                  al gioco politico in cui si decide veramente, ma al contempo 
                  è stato tolto ogni vero esercizio della sovranità 
                  effettiva. Impedita e poi tolta l’autonomia politica dell’esercizio 
                  della sovranità di cui rimane formalmente titolare, si 
                  è richiesto e permesso al popolo solo di eleggere dei 
                  rappresentanti, che di fatto non lo rappresentano perché 
                  non hanno un mandato controllabile e revocabile. Sono altresì 
                  dei delegati senza mandato, cui per legge viene demandato il 
                  potere di decidere. Di fatto la supposta rappresentanza si risolve 
                  in una designazione a governare in vece di chi esprime il voto. 
                  È a tutti gli effetti un’espropriazione dell’esercizio 
                  della sovranità. Tanto è vero che lor signori 
                  sono costretti a dichiarare che scelgono in nome degli eletti 
                  anche quando le loro scelte non trovano concordi gli elettori 
                  stessi. La democrazia cosiddetta rappresentativa nei fatti non 
                  è rappresentativa se non degli interessi di potere in 
                  campo, mentre politicamente non è altro che un’immensa 
                  delega che ha l’unico scopo di designare elettoralmente 
                  l’esercizio di un potere puramente oligarchico, che trascende 
                  e tradisce senso e significato originari. Non è quindi 
                  né rappresentativa né democratica.  
                  Il capolavoro di espropriazione della volontà popolare 
                  viene compiuto con Schumpeter, il quale conduce al limite estremo 
                  la deprivazione di senso. Schumpeter restringe ulteriormente 
                  lo spazio della rappresentanza: ispirandosi alla concorrenza 
                  economica del mercato capitalista riduce la competizione elettorale 
                  alla lotta per la designazione dei leader. L’insieme dei 
                  cosiddetti rappresentanti non è più visto come 
                  consesso di eletti, che poi si misureranno nel parlamento come 
                  individui alla pari, ma analizzato e proposto come schierame 
                  di sostenitori che fanno massa per dare forza alle leadership, 
                  unica forza politica che conta, nel gioco politico oligarchico 
                  di conquistare il potere di decidere veramente. Il bello è 
                  che praticamente ha fatto scuola ed ha trovato consenso tra 
                  i maggiori teorici della democrazia che sono venuti dopo di 
                  lui.  
                  Non c’è affatto da scandalizzarsi. Sarebbe ipocrita. 
                  In fondo, soprattutto da quando c’è una massiccia 
                  immissione mediatica, tecnologica e informatica nella regolazione 
                  dei rapporti politici ed economici a livello globale, a cosa 
                  si è ridotta la politica oggi nei paesi cosiddetti democratici 
                  per eccellenza? A tutti gli effetti è un continuo gioco 
                  per estorcere consenso popolare alla permanenza delle leadership 
                  imperanti, espressione delle oligarchie dominanti, gestito con 
                  ingenti risorse, di provenienza frequentemente poco chiara, 
                  dal Grande Fratello dell’attuale era tecnologica, l’immenso 
                  circo mediatico che ci sovrasta, sempre più suadente, 
                  ingombrante e invadente.  
                  A ben ragionare del resto, se proprio cerchiamo una vera coerenza 
                  semantica rispetto al suo significato originario, l’anarchia, 
                  che in modo inequivocabile si pone politicamente come superamento 
                  di ogni forma di dominio, paradossalmente rappresenta la manifestazione 
                  più radicale e conseguente dell’assunto democratico. 
                  Tanto è vero che la pluralità delle proposte anarchiche 
                  riconosce, propugna e, tutte le volte che le riesce possibile, 
                  sperimenta forme di democrazia diretta, che escludono deleghe 
                  di potere e rappresentanze fasulle. La ricerca e la tensione 
                  anarchiche si fondano sulla realizzazione di un’autentica 
                  libertà sociale, dove il livello individuale e quello 
                  collettivo trovano armonica compiutezza nella reciprocità 
                  e nella solidarietà delle relazioni, sempre concordate 
                  mai imposte. Rifugge i centri direttivi e impositivi, che hanno 
                  bisogno di stratificazioni e ruoli gerarchici, perché 
                  sa che una politica rispettosa delle relazioni sociali non ha 
                  bisogno della sferza del comando dall’alto, ma della partecipazione 
                  alle decisioni in uno spirito condiviso di reciproco riconoscimento 
                  delle differenze di idee e di comportamenti. Di conseguenza 
                  si preoccupa di mettere in opera il clima e le strutture che 
                  ne permettano la realizzazione.  
                  In altre parole, l’anarchia va oltre la ristretta e mistificante 
                  visione meramente procedurale in cui la cultura dominante tenta 
                  d’ingabbiare il senso autentico della democrazia. Per 
                  questo pone con forza un problema ermeneutico. Sa che quando 
                  viene interpretata come puro intreccio formale di procedure 
                  giuridiche se ne snatura il senso fino a deviarne il cammino, 
                  come si sta puntualmente verificando, dal momento che oggi negli 
                  stati democratici i popoli sono sistematicamente e strutturalmente 
                  esclusi dall’esercizio della loro legittima sovranità 
                  e dalle decisioni.  
                  Sa che va vista essenzialmente come insieme di modalità 
                  di un certo tipo di gestione politica, che ha come scopo principale 
                  l’esercizio reale della sovranità del popolo. Solo 
                  all’interno di questa visione diventa possibile definire 
                  e sperimentare le procedure più consone a renderla operativa. 
                  L’esercizio in politica non può che essere diretto, 
                  perché se viene deviato verso forme di delega permanente 
                  e di potere si trasforma in altra cosa. Così l’anarchia 
                  è l’ideale di riferimento, che per farsi e istituirsi 
                  usufruisce dei principi di modalità di gestione posti 
                  dalla democrazia originaria.  
                   
                  Potere concentrato in poche mani  
                La domanda che a questo punto sorge spontanea è se sia 
                  veramente possibile istituire organismi capaci di realizzare 
                  ciò che propugna il senso democratico originario: una 
                  sovranità autenticamente del popolo gestita dal popolo. 
                  O, come sostiene Hobbes, data la natura dell’uomo è 
                  inevitabile la concentrazione del potere in poche mani, se non 
                  in una sola, soprattutto, come afferma Schumpeter, data la complessità 
                  delle società attuali? La risposta, nient’affatto 
                  semplice per la complessità delle situazioni che investe, 
                  è però chiara nella sua enunciazione: non è 
                  possibile se si mantiene come riferimento il contesto attuale, 
                  mentre diventa possibile se l’immaginario condiviso trova 
                  la forza di ipotizzare e ritenere realista un contesto completamente 
                  diverso, addirittura contrapposto, come hanno sempre cercato 
                  di fare in nuce le rivoluzioni che si sono succedute.  
                  Più di ogni altra cosa non è possibile se la natura 
                  umana è pensata solo negli aspetti più negativi, 
                  come appunto il noto homo homini lupus hobbessiano, 
                  supponendo arbitrariamente che non possa che essere tale. La 
                  natura umana, invece, è estremamente molto più 
                  complessa ed ampia di ciò che può apparire ad 
                  uno sguardo che pregiudizialmente la voglia inchiodare ad una 
                  visione limitata agli aspetti dell’oggi che fanno inorridire, 
                  superficialmente limitante perché si rifiuta di spaziare. 
                  Come contiene le cose orripilanti che fanno disperare, contiene 
                  pure in potenza le possibilità di esprimersi in tutt’altro 
                  senso. Banalizzando, si potrebbe dire che contiene sia il bene 
                  che il male, soprattutto possiede la propensione culturale che 
                  le permette d’immaginare e di collegare presente passato 
                  e futuro e, immaginando, di intervenire per modificare dove 
                  ritiene opportuno.  
                  Così, rimanendo dentro il sistema capitalista diventa 
                  difficile anche solo supporre una società la cui spinta 
                  ad essere e a fare non sia dettata dal solo bisogno di procurarsi 
                  risorse finanziare, per ottenere le quali si giustifica qualsiasi 
                  intervento, per efferato che possa essere. Così, se nella 
                  definizione e nella messa in opera delle scelte che regolano 
                  la convivenza societaria permane la prevalenza della spinta 
                  a dominare, diventa impossibile realizzare relazioni sociali 
                  supportate da una libertà e da una decisionalità 
                  democratica autentiche. Se le si vuole diventa indispensabile 
                  rifondare l’insieme delle relazioni sociali, politiche 
                  ed economiche sui principi della solidarietà e della 
                  reciprocità, non più sottoposte alla separazione 
                  tra esercizio del potere e sovranità, non più 
                  ingabbiate da strutture di delega che impediscono al popolo 
                  di essere il vero protagonista delle scelte che lo riguardano. 
                  L’esperienza ce l’ha insegnato, è l’autogestione 
                  anarchica che può rendere effettuale l’assunto 
                  democratico della libertà, non la rappresentanza di potere. 
                                   
                  Andrea Papi 
                1. Massimo Nava, Vittime. 
                  Storie di guerra sul fronte della pace, edizione Fazi. 
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