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                 Orfeo, figliuolo di 
                  Apollo e di Clio  quando Clio non era ancora un'automobile 
                   suonava così bene la lira che gli alberi e i sassi 
                  gli correvano dietro, i fiumi sospendevano il corso loro e le 
                  bestie feroci gli si univano intorno per ascoltarlo. 
                  Figuriamoci quindi se non l'ascoltò Euridice, che, rapita 
                  dalla maestria musicale di Orfeo, si incantò all'ascolto 
                  fin tanto che fu amore - reciproco. Il giorno delle nozze non 
                  passò inosservato, specialmente ad un fratellastro del 
                  nostro, tal Aristeo, che della medesima Euridice s'era invaghito 
                  e che approfittò della prima occasione per zomparle addosso. 
                  Fuggì la poverina e, non badando a dove metteva i piedini 
                  leggiadri, le toccò in sorte il morso di una serpe che, 
                  per lo strazio disperato di Orfeo, la mandò, in quattro 
                  e quattrotto, all'inferno. 
                  Orfeo non si fece troppe domande sul perché la sua amata 
                  fosse finita all'inferno e, lira alla mano, ivi discese per 
                  addolcire gli animi di Plutone, di Proserpina e di tutte le 
                  altre deità infernali. La dolcezza del suo canto fece 
                  miracoli e i diavoli decisero di restituirgli Euridice ad una 
                  condizione a dir poco esigua: nel risalire verso la nostra valle 
                  di lacrime, Orfeo non avrebbe mai dovuto guardare la sua Euridice. 
                  Nemmeno di sottecchi  pena, il riperderla definitivamente. 
                  Nessuno fece il minimo cenno alla proibizione di parlarsi. E 
                  così mi immagino che, nella lenta risalita da quei postacci 
                  scuri e maleodoranti, i due innamorati si siano detti finalmente 
                  un mucchio di cose. Parole d'amore, certo, ma anche ammissioni 
                  dell'angoscia provata, gli sgomenti di una solitudine improvvisa 
                  e apparentemente senza fine, il sollievo insperato, qualche 
                  promessa di ciò che, di lì a poco, li avrebbe 
                  attesi. Ad un certo punto, tuttavia, Euridice deve aver detto 
                  qualcosa che avrebbe fatto meglio a tacere, perché Orfeo 
                  si girò su se stesso e, guardandola dritta negli occhi, 
                  visibilmente alterato, le disse: "Ma tu non penserai mica 
                  davvero di votare per il Polo ?". 
                Nei giorni precedenti le elezioni politiche, i giornali hanno 
                  dato fondo alle proprie risorse in fatto di dire e non dire, 
                  di stare un po' di qui e un po' di là, di esser pronti 
                  al nuovo padrone chiunque fosse. L'equità  che 
                  qui è solo e soltanto quell'equità verso i potenti 
                  che, più si perfeziona, più va a danno di chi 
                  potente non è , l'equità, dicevo, ha voluto, 
                  fra l'altro, che, nel darci dentro con il tema del colpo al 
                  cerchio e del colpo alla botte, ci si buttasse sul ghiotto paragrafo 
                  delle coppie divise. Il tal padrone del vapore che ha sposato 
                  la nota editrice vota Polo, mentre lei vota Ulivo; il noto cantante 
                  "anarcoindividualista" magari non vota, ma la signora, 
                  da dirigente di Forza Italia com'è, non potrà 
                  esimersi dal voto al Polo; il post-comunista con la modella 
                  dal nobile cognome vota Ulivo e lei Polo; la star televisiva 
                  e il marito regista, lei all'Ulivo e lui al Polo; e così 
                  via fino alla coppia paradigmatica che si presta, in quanto 
                  tale, a ricondurre nell'alveo della banalità ogni sospetto 
                  di grave incongruenza. 
                  Tocca ai due ristoratori che, isolati nel solito paesino dimenticato 
                  da Dio dagli uomini ma non dalla Guida Michelin, interpretano 
                  la loro parte con solerzia e buona volontà non propriamente 
                  disinteressata. Lui si presenta in sala rosso fin di capelli, 
                  con falce e martello ridotti ad orecchino, il povero Che Guevara 
                  stampato sul pettorale del grembiule e si fa fotografare mentre 
                  brandisce una versione mignon del busto di Lenin. Lei è 
                  nera, affigge gigantografie di Mussolini e stappa in tavola 
                  bottiglie sulla cui etichetta il duce campeggia nelle pose più 
                  plastiche e perentoriamente fiduciose di sé. 
                  Sono tutti esempi di matrimoni perfettamente riusciti.  
                  Ciò dovrebbe dirci qualcosa sull'abisso buio e profondo 
                  nel quale ci troviamo. I ristoratori diventano la metafora della 
                  politica ridotta a gusto. Un'operazione di cui è palese 
                  la loro innocenza le cui responsabilità, invece, andrebbero 
                  ascritte a chi si è pasciuto di lunghi e snervanti anni 
                  di consociativismo, di "paci sociali" e di "governabilità", 
                  di riforme a favore di chi non ne aveva bisogno, di una fitta 
                  trama di corruzione associata, di crimini antipopolari, di mediocrità 
                  calcolate e di un colpo di stato che, in nome del sistema elettorale 
                  maggioritario, ha, di fatto, blindato una classe dirigente inetta 
                  e pericolosa per le dodici generazioni a venire. Se delle scelte 
                  politiche si può parlare oggi come di baruffe burlesche, 
                  lo si deve anche a costoro. 
                  Tutto ciò che in differenti idee politiche può 
                  configurarsi come altrettanti progetti di vita  come giudizi 
                  sul miglior modo di comportarsi al mondo, come investimento 
                  odierno di ciascuno affinché chi lo seguirà stia 
                  meglio di lui, come spinta morale ad una più sensata 
                  distribuzione di dignità e risorse sul pianeta che abitiamo, 
                  o come semplici istruzioni per uscire di casa e tornarci senza 
                  doversi attaccare al bocchettone del gas , tutto ciò, 
                  integralmente, è cancellato dal repertorio degli impegni 
                  civili. 
                  E se la vita associata dei molti viene rappresentata ormai allo 
                  sbando, da meno non è la vita associata della coppia. 
                  Nessuno degli irresponsabili testimoni di questa sottilmente 
                  venefica propaganda potrà mai dire con Thomas Mann che 
                  "già da studente, con un presàgo compiacimento" 
                  ebbe "a lungo" la sua futura moglie "davanti 
                  agli occhi" (T. Mann, Sul matrimonio, SE, Milano 
                  1988). A meno di non ammettere che, "già da studente", 
                  avesse architettato un progetto di vita in cui l'amore fosse 
                  uno dei compartimenti stagni fra i tanti e avesse anche pensato 
                  alla vita di coppia come alla soluzione consociativa ideale 
                  per garantirsi il conto in banca. 
                  
                  Felice Accame 
                P.S.: La quantità di "anarcoindividualisti" 
                  in circolazione nel periodo pre e immediatamente postelettorale 
                  dovrebbe indurre a ulteriori, penose, riflessioni. C'è 
                  inflazione  come se l'anarcoindividualismo fosse diventato 
                  una sorta di camera di decompressione nel passaggio dall'Ulivo 
                  al Polo. 
                  
                
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