Fa uno strano effetto 
                    leggersi oggi documenti di movimento risalenti agli anni '70.
                    Sia che si tratti di scritti operaisti sulle lotte di fabbrica 
                    di ambito marxiano-marxista, analisi sulle forme e le motivazioni 
                    della lotta armata, testi di critica radicale situazionista 
                    o saggi libertari antiutopici, quello che si noterà 
                    sempre è che fortemente pervasivo era un senso di programmaticità 
                    e fiducia nei cambiamenti in positivo che il futuro avrebbe 
                    di lì a poco portato. Anche quando, appunto, si faceva 
                    autocritica feroce o si esaminava in modo fortemente analitico 
                    "lo stato delle cose", l'idea era che il comunismo, 
                    socialista o anarchico che fosse, era comunque alle porte, 
                    e che "noi" si era l'avanguardia di un mondo, una 
                    comunità, un "popolo" nuovo che stava mettendo 
                    in crisi & rivoltando tutti, ma proprio tutti i dettami 
                    dell'ancient regime.
                    E a partire dal famoso falso filosituazionista della "Carta 
                    della Sorbona" diffuso nel maggio del '68, per oltre 
                    un decennio l'idea era che, come cantavano i Jefferson Airplane, 
                    "insieme si può fare la rivoluzione". Le 
                    memorie di chi scrive riportano appunto a giorni di fervore 
                    unico passati tra Radio Alice e le strade & le piazze, 
                    col senso intenso di "fare la storia", tra una manifestazione 
                    e un esproprio proletario, un volantinaggio davanti a scuola 
                    e una carica della polizia, con una profonda convinzione che 
                    tutto, veramente tutto stava cambiando, e un nuovo mondo, 
                    una nuova realtà, erano alle porte.
                    In realtà, come i militanti delle Brigate Rosse sequestrati 
                    dallo stato capirono per primi nel loro osservatorio pur malgrado 
                    privilegiato dato dal distacco forzato dagli entusiasmi auto 
                    contagianti, il mondo ci si stava cambiando intorno senza 
                    che ce ne accorgessimo, troppo presi/e dal nostro "interagire" 
                    con e per nome di un "popolo", quello della gente 
                    comune, che ormai non esisteva più, soprattutto nella 
                    forma in cui noi lo volevamo vedere idealizzandolo.
                    La sconfitta, la fine di un'illusione, venne infatti non dall'aver 
                    perso clamorosamente battaglie sanguinose, non dall'essere 
                    stati sopraffatti/e dalla repressione di stato e polizia, 
                    ma dal non essere più rappresentativi/e di percorsi 
                    e di bisogni che, in contraddizione coll'allargamento dell'area 
                    numerica che li rappresentava, da avanguardia passavano inesorabilmente 
                    a nicchia senza che avessimo più nuovi strumenti adatti 
                    per comprenderlo.
                    Un processo di erosione lento ma di grande successo perché 
                    apriva brecce sulle piccole cose, quelle assolutamente trascurabili 
                    per chi, "unto dal verbo" si apprestava a fare la 
                    rivoluzione. E poi perché il gioco degli opposti, la 
                    presenza di una componente ying nello yang e viceversa, è 
                    oggettiva parte dell'esistente. Non a caso il primo clamoroso 
                    successo soft pop americano dei Bee Gees arrivò nell'era 
                    dell'hard rock, ed il loro secondo, con la disco music, quando 
                    sembrava ormai certo che i templi della cultura borghese fossero 
                    stati spazzati via dalla gioia creativa del "comunismo 
                    giovane e felice".
                   
                  
 
                    Il punk finì quando ...
                  Forse avremmo dovuto fare più attenzione ai capelli 
                    corti ben tagliati, ai Rayban e alle Lacoste dei "dirigenti" 
                    di Rosso e di tanti altri gruppi dell'autonomia & non 
                    solo, e meno alle loro parole. Ma non lo facemmo, e il resto 
                    è storia, anzi tragedia e farsa.
                    Certo, è vero; gli anni '80 dalle ceneri del movimento 
                    portarono l'ondata anarco (molto) situazionista (poco) del 
                    punk, con tutta la sua carica sovvertitrice di praticamente 
                    tutti i valori tradizionali, rituali e nazionalpopolari che 
                    stavano fortemente riacquistando terreno, nel nulla desertificato 
                    del dopo-movimento, ma....
                    Ma anche il punk come controcultura (la musica è un'altra 
                    cosa, e chissenefrega, sinceramente) morì quando cominciò 
                    ad essere fico, invece che scriversi nomi di gruppi sconosciuti 
                    o frasi criptiche e slogans radicali sui giubbotti, indossare 
                    piuttosto i cappellini delle squadre di baseball e football 
                    americano & le t-shirts, pure quelle false fatte da Pierre 
                    di Riva del Garda di Vision Streetwear, Everlast e di gear 
                    skate, surf (che pretendevamo di pensare fosse tutta "robba 
                    alternativa") o peggio ancora boxe.
                    E anche in quel caso non ce ne accorgemmo.
                    Ma era la cultura della globalizzazione che avanzava dentro 
                    di noi, il morbo della Nike inoculato che iniziava il suo 
                    percorso retrovirale. Certo, negli anni '70 il WTO ancora 
                    non esisteva, però la Trilateral si, e non è 
                    che i suoi scopi fossero poi tanto diversi.
                    E a rileggersi un articolo contro le multinazionali di John 
                    Diebold (why be scared of them?) targato 1973, scorrono i 
                    brividi lungo il fondoschiena, tanto è attuale l'analisi, 
                    tanto è precisa la descrizione, tanto è lucida 
                    la definizione del loro ruolo e dei loro metodi di intervento 
                    che sembra scritto trent'anni dopo, e a proposito proprio 
                    del WTO.
                    Però, troppo convinti, tutti, che l'economia fosse 
                    solo un sottoprodotto della politica del Capitale, e che quest'ultimo 
                    si sarebbe marxianamente autoestinto, lottavamo sordidamente 
                    contro il controllo sociale e, per l'appunto, specificamente 
                    politico, che il Potere metteva in atto per fiancheggiare 
                    il Capitale, senza accorgerci che era proprio questo in realtà 
                    a usare il potere come strumento e non viceversa. E nessuna 
                    archeologia luxemburghiana o trotzkista poté aprirci 
                    gli occhi, e nessuna analisi della Scuola di Francoforte ne 
                    critica radicale, radicalissima, situazionista, ci colpì 
                    se non di striscio, troppo preoccupati/e come eravamo di creare 
                    la nostra identità antagonista FUORI da un sistema 
                    che giustamente detestavamo.
                    E chi aveva colto nel segno, scovando il vero volto di chi 
                    realmente teneva le fila del sistema di cose contro cui ci 
                    opponevamo c'era già, ma noi preferivamo, forse allora 
                    pure giustamente, vivere l'intensità identitaria della 
                    nostra ribellione quotidiana, piuttosto che fare un lavoro 
                    sporco, noioso, poco gratificante e altamente destabilizzante: 
                    capire quanto pure noi eravamo già parte di ciò 
                    che combattevamo.
                    Mentre scrivo MTV manda un video degli Shandon, punkrock italico 
                    da parrocchia, che rifanno Karma Chamaleon dei Culture Club 
                    in versione ska-punk rock, celebrandola come "bella canzone" 
                    dall'altissimo contenuto di entertainment pop. Il rastapunk 
                    in kilt rosso e t-shirt dei DRI che balla insieme a loro sul 
                    palco forse pensa al deturnamento del tutto e al "riprendiamoci 
                    il divertimento", ma intanto la band ci ammanta anche 
                    le sue "corporate griffes", da STP a Playboy, mentre 
                    il tutto, ripeto, è trasmesso da MTV.
                  
                  
 Aggiorniamo 
                    le agende!
                  Ciò, sia detto, è molto più "globalizzazione" 
                    che non gli OGM o il brevetto del riso Basmati, ma intanto 
                    noi continuiamo ancora (per poco, però) a non accorgercene, 
                    a sviluppare un anticorpo che ci impedisce di combattere in 
                    modo adeguato, fuori dalla retorica simbolica della "protesta", 
                    l'operato concreto del WTO e dei suoi propugnatori, perché 
                    ne siamo pure noi fisiologicamente coinvolti/e.
                    È questo il motivo per cui occorre aggiornare le nostre 
                    agende, e per quanto assurdo ciò possa sembrare, guardarci 
                    intorno, nella nostra scena, e imparare da ciò che 
                    vediamo.
                    "Popolo di Seattle" quindi, al di là della 
                    stereotipizzazione televisiva, è qualcosa di molto 
                    diverso da un aggiornamento storico della definizione di "autonomi", 
                    e non è neppure un sinonimo di "compagni dei centri 
                    sociali". Il senso di appartenenza a questa definizione 
                    è necessario quindi viverlo in un senso allargato che 
                    non comprende nel NOI soltanto chi scrive e chi legge, ma 
                    anche tutta una serie di realtà talmente multiformi 
                    da essere spesso anche contraddittorie, conflittuali e apparentemente 
                    inapparentabili.
                    Eppure i metalmeccanici & i punk anarchici, le casalinghe 
                    e i buddhisti, i contadini & i sindacalisti, le associazioni 
                    consumatori e gli ecologisti, i preti socialisti e le creature 
                    GLBT (e via con luoghi comuni e associazioni improbabili) 
                    rappresentano molto di più che non un casuale fronte 
                    comune di rivendicazione di migliori condizioni di vita.
                    Rappresentano piuttosto il paradigma di un nuovo modo di fare 
                    politica che non si basa più sui massimi sistemi di 
                    ideologie o analisi politiche messianiche, ma che vibra della 
                    necessità di fare costantemente i conti col degradare 
                    continuo del quotidiano. Un degradare che ci riguarda indipendentemente 
                    dalle nostre scelte politiche o dalle nostre condizioni sociali, 
                    dove sia chi era favorevole all'intervento bellico italiano 
                    in Serbia, sia chi era contrario rischia ora di morire di 
                    cancro per effetto dei bombardamenti (e se il tasso di esposizione 
                    radioattiva all'uranio impoverito dei militari italiani corrisponde 
                    alle media nazionale è semplicemente perché 
                    TUTTA la nazione è a rischio, indipendentemente dalla 
                    distanza di interazione con lo stesso). E i già 8000 
                    morti italiani dal dopo Chernobyl non sono iscrivibili in 
                    una antica dinamica marxista o marxiana che sia, di conflitto 
                    tra proletariato e padronato, ma fanno suonare una campana 
                    (oltre che a lutto) a raccolta per un modo anche analiticamente 
                    completamente nuovo di fare attività politica e di 
                    definire nuovi nemici, e nuovi alleati (un "popolo" 
                    intero...), ma soprattutto nuovi obiettivi, più concreti, 
                    più socializzanti ma soprattutto più urgenti.
                    Tenendo pure conto che se a volte il "nemico", il 
                    WTO e la logica della "globalizzazione" a favore 
                    delle multinazionali è assolutamente palese, nella 
                    maggioranza dei casi, quelli più pericolosamente "virali", 
                    non lo è poi così tanto.
                    Quindi se, passando dal cancro dell'uranio a quello dell'amianto, 
                    il caso francese, il cui governo è stato condannato 
                    dal tribunale del WTO a continuare a importare tale mortifero 
                    materiale da una multinazionale canadese, ci sembra un motivo 
                    sufficiente per andare a sfasciare le vetrine dei McDonald's 
                    e comunque anche contestare e controinformare ad ogni nuovo 
                    meeting dei G8 e del WTO stesso, su tante altre forme di desertificazione 
                    psico-sociale meno evidenti e palesi occorre assolutamente 
                    mobilitarsi al più presto, anche se ciò richiede 
                    un'autoanalisi e autocritica sociocomportamentale che rischia 
                    di non lasciarci ne indenni ne puri nel nostro ruolo di "ribelli 
                    incazzati".
                    Occorre liberarsi da una mentalità macdonaldizzata 
                    & MTV-izzata, anche se non mangiamo hamburgers né 
                    guardiamo videoclips di pop bands ballerecce e 15enni sexybombs, 
                    ma che determina e modifica comunque il nostro stile di vita 
                    facendoci accettare ben di più di quello che rifiutiamo. 
                    E se è recentissima la nascita di una protesta contro 
                    la Nike in giro per l'Italia, la pretestuosa motivazione del 
                    tutto (lo sfruttamento del lavoro minorile asiatico) mostra 
                    come il reale pericolo sia ancora di là da essere colto, 
                    e come ancora ragioniamo con una pseudo coscienza buonista 
                    ipocrita, diciamolo chiaramente, e discendente da polverose 
                    impostazioni politiche antiche. Ipocrita perché ci 
                    permetterebbe di definire un "più cattivo" 
                    rispetto ad Adidas, Rebook, Fila & co, permettendoci quindi 
                    di rifiutarne una e continuare ad essere imbelli consumatori 
                    zombie delle altre, le quali, sia detto, fanno esattamente 
                    ciò che fa la Nike, cioè ciò che è 
                    più sensato in una logica di profitto "uber alles".
                    Ma anche perché focalizzando su di un unico nemico 
                    invece che sull'interezza del sistema, continuiamo ad essere 
                    preda dei consumi identitari che sono la vera e attualissima 
                    faccia di un controllo sociale sinuoso, brutale e potentissimo 
                    che è il mostruoso ostacolo che si frappone tra noi 
                    e la possibilità di VIVERE, piuttosto che vegetare, 
                    e sempre peggio, nel ciclo del "produci, consuma, crepa".
                    Tutto ciò e non solo è affrontato nel nuovo 
                    libro di chi scrive (Helena Velena) Il Popolo di Seattle, 
                    Jimi Hendrix compreso! (Malatempora, pagg. 128, lire 20 
                    mila), come proposta di discussione e crescita sinergica verso 
                    una nuova politica, questa sì globale, che sappia imparare 
                    a liberarsi dai particolarismi ideologici grazie a una contaminazione 
                    con le altre componenti di questo "popolo" altrettanto 
                    globale di cui noi siamo, sia chiaro, solo una delle tante 
                    componenti.
                  
 
                    Helena Velena
                  
                  
                     
                      |  
                         Il 
                          Popolo di Seattle di Helena Velena è uscito 
                          giusto in tempo per Genova, ed appartiene al trittico 
                          delle edizioni Malatempora assieme a Le multinazionali 
                          fanno male di Ilde Scaglione (pagg. 128, lire 20mila) 
                          e Dove andrà a finire la nuova economia 
                          di Domenico De Simone (pagg. 128, lire 20mila). 
                          Per i lettori di A questi libri sono in vendita 
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