|  
                 Raramente un poeta mha fatto esitare 
                  così a lungo prima di dargli del tu. Dò del tu a Rimbaud, a 
                  Pavese e a Bukowski quando li penso ad alta voce,eppure tu,Victor, 
                  sei il compañero e così volevi che tutti fossero con te e 
                  fra di loro. Tu che per cultura democratica, per nascita umile, 
                  per afflato umano, per profonda identità etnica, più di qualsiasi 
                  altro avevi annullato le distanze che spesso intercorrono, almeno 
                  qui nellEuropa americana, tra lartista popolare e la folla 
                  là sotto, creando e cantando con la modestia artigiana della 
                  materia intagliata, della baracca eretta, del campo arato. Gesti 
                  quotidiani legati alla tua terra che compivi insieme agli altri; 
                  allo stesso modo prendevi in mano la chitarra con quella prospettiva 
                  di utilità che sempre ti ha perseguitato come un dovere insopprimibile 
                  provocando nel tempo i tuoi persecutori che ti hanno soppresso. 
                  Dai vasti spazi andini, alle campagne, fino alle periferie suburbane, 
                  hai raccolto la sonorità, ora lamentosa, ora ruggente, di un 
                  intero popolo incarnandolo in ununica anima, la tua.  
                  Canti sconfinati e itineranti tra dolcezza e anatema, tra rivolta 
                  e amore, tra sogno e miseria, sempre teso al recupero del folclore 
                  più autentico e lacerante. Figlio di contadini, poi adottato 
                  dalle plobaciùnes, i quartieri della povertà operaia, hai concimato 
                  la tua creatività nella fame cinicamente distribuita, nella 
                  sporcizia di un piano regolatore del degrado, nelle malattie 
                  che falciavano i bambini, in un potere che falciava gli adulti, 
                  in un fango reale che aveva poco del fango divino, in quellabbandono 
                  desolante e istituzionale in cui tutto il tuo paese e la stessa 
                  America Latina versava e versa ancora per arricchire, come tutti 
                  sanno, caste di potere economico che fanno capo a New York o 
                  ad Atlanta, o dietro le luci festose di Las Vegas... Un immenso 
                  martirio collettivo di intere nazioni soggiogate che subiscono 
                  in forma diretta e implacabile il meccanismo del genocidio attraverso 
                  lo stillicidio culturale e fisico che tende allannientamento 
                  dellidentità storica e dei fondamentali diritti delluomo. 
                  Una gigantesca camera di rianimazione dove il popolo non sopravvive 
                  con le macchine costose per ricchi ne tanto meno con gli organi 
                  da trapianto trafugati per loro, ma con minimi supporti alimentari 
                  indecenti. Allora ho capito perché mhai fatto esitare così 
                  a lungo prima di darti del tu, questo tu così confidenziale 
                  e che sa di retorica, di banale e facile rapporto epistolare 
                  al di là del tempo, che sa di fraternità acquisita per procura 
                  e non con il tuo consenso e, soprattutto, non con il mio.  
                  Risentendo le tue canzoni, la tua voce botanica che come un 
                  rampicante s attorciglia alla mia coscienza, la purezza primitiva 
                  e dolce della tua chitarra suonata come una arpa, i tuoi versi 
                  dolenti e coraggiosi, si è insinuata in me una sottile vergogna 
                  e non riesco a stemperarla anche se mi ripeto che non ho colpa 
                  di essere qui, in questa parte del mondo rigurgitante falsi 
                  problemi, qui nella società postindustriale e informatica dove 
                  sinventano i depistaggi dellintelligenza, qui in questo villaggio 
                  globale così lontano e diverso da un villaggio Mapuche, qui 
                  tra i miei rossori etici per essere cresciuto in un ambiente 
                  borghese. Il senso di vergogna non si attenua, anzi aumenta 
                  come una allergia destabilizzandomi come cercassi degli alibi 
                  al mio essere così poco utile, a essere così pigro. Certo, Victor, 
                  anche qui i poeti scrivono ma scrivono arrampicandosi su un 
                  comodo inesistente, su unastrazione virtuosistica, su un 
                  geroglifico incomprensibile, protesi, secondo unomologazione 
                  manieristica, a obbedire alle tacite regole accademiche, scorporandosi 
                  con arroganza aristocratica e sprezzante, dalle realtà atroci, 
                  dai conflitti inquietanti, dalle obliate tematiche civili e 
                  utopiche che dovrebbero incendiare il cielo e le coscienze letargiche. 
                  I pochi che credono nellaltra riva, ci rimangono sullaltra 
                  riva, scrivendo senza più destinatari.  
                  Restano i poeti in musica, ormai sempre più rari e purtroppo 
                  scomparsi. Restano soprattutto gli artisti del vuoto programmato 
                  dal palinsesto commerciale ben confezionato che, prima o poi, 
                  esplodono in una bolla dispeptica e flatulenta alimentando la 
                  demenzialità della sottocultura. Penso alla strofa de La domenica 
                  delle salme dove Fabrizio De André esortava e attaccava quei 
                  suoi colleghi che pur avendo il potere della grande comunicazione 
                  di massa evitavano con cura di allertare le folle giovanili 
                  sui mali epocali incombenti. Voi che avete cantato sui trampoli 
                  e in ginocchio/ coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio/ 
                  voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti/ 
                  per lAmazzonia e per la pecunia/ nei palastilisti/ e dai padri 
                  Maristi/ voi avevate voci potenti/ lingue allenate a battere 
                  il tamburo/ voi avevate voci potenti/ adatte per il vaffanculo/. 
                  Controcanto alle parole di Fabrizio, un altro grande poeta libertario, 
                  Leo Ferré. Non dimenticate che lingombrante nella morale/ 
                  è che si tratta sempre/ della morale degli altri/ I canti più 
                  belli/ sono quelli di rivendicazione/ I versi devono fare lamore/ 
                  nella testa dei popoli/ Alla scuola della poesia non simpara/ 
                  CI SI BATTE! E infine le stesse tue parole, Victor: Un artista 
                  deve essere un autentico creatore e quindi nel suo più profondo 
                  un rivoluzionario... un uomo pericoloso quanto un guerrigliero 
                  a causa del suo grande potere di comunicazione. 
                  Il tuo viaggio, Victor, per lAmerica Latina con la chitarra 
                  sotto il braccio, mi ricorda, per analogie evocative, un altro 
                  viaggio, quello del Che ragazzo a bordo della sua moto, anche 
                  lui alla ricerca delle ragioni di tanta miseria e ingiustizia 
                  e delle strategie di liberazione da adottare. Lui con le armi, 
                  tu con il canto. Entrambi siete morti per un identico sogno 
                  e per mano di uno stesso nemico. Ora, nella nostra memoria, 
                  vi scambiate i ruoli vissuti. E poi, essere comunisti in Sudamerica 
                  è come essere anarchici a Versailles. In tempi sospetti di cancellazione 
                  di debiti, cè un debito inestinguibile, quello nei tuoi confronti, 
                  per avermi regalato, dopo tante vanità, un po di salutare vergogna. 
                  Come facciamo ora ad affrontare lascolto delle tue canzoni 
                  senza aprire delle falle nelle sacche lacrimali così disidratate 
                  dal nostro freddo intellettualismo? Basterà pensarti nello stadio 
                  Cile per sbattezzarci in quellacquasantiera di sangue dove 
                  hai scritto la tua ultima poesia con le ossa rotte e il viso 
                  tumefatto, poesia che non hai potuto ultimare perché tavevano 
                  prelevato per ucciderti come si uccide al mattatoio. Una poesia 
                  incompiuta che starà ad altri completare. Uncompañero aveva 
                  raccolto quel pezzo di carta e laveva poi nascosto in una calza. 
                  Quelle parole ci appaiono oggi come una tremenda diretta del 
                  massacro. Il tuo ultimo canto, Victor. E grazie per il tu. 
                  
                  Mauro Macario  
                Ci sono cinquemila di noi  
                  in questo piccolo angolo di città. 
                  Noi siamo cinquemila. 
                  Mi chiedo quanti siamo in tutto, 
                  nelle città e nel paese intero. 
                  Solo qui 
                  ci sono diecimila mani che piantano semi 
                  e fanno funzionare le fabbriche. 
                  Quanta umanità 
                  esposta a fame, freddo, panico, sofferenza, 
                  pressione morale, terrore e follia? 
                  Sei di noi erano perduti 
                  come nello spazio astrale. 
                  Uno morto, un altro picchiato come mai avrei creduto 
                  un essere umano potesse venir pestato. 
                  Gli altri quattro vollero metter fine  
                  al loro terrore: 
                  uno saltando nel nulla, 
                  un altro dando di testa contro un muro 
                  ma tutti avevano nello sguardo la fissità della morte. 
                  Quale orrore genera il volto del fascismo! 
                  Eseguono i loro piani con  
                  chirurgica precisione. 
                  Niente importa loro. 
                   
                  Per costoro, il sangue equivale  
                  alle medaglie, 
                  il macello è un atto di eroismo. 
                  O Dio, è questo il mondo che hai creato, 
                  a ciò sono serviti i tuoi setti giorni 
                  di lavoro e meraviglia? 
                  Dentro queste quattro mura  
                  solo un numero esiste 
                  che non fa progressi, 
                  che lentamente non altro desidererà  
                  se non la morte. 
                  Ma allimprovviso la mia coscienza  
                  si ridesta, 
                  e capisco che questondata  
                  non ha il battito del cuore, 
                  solo la pulsazione delle macchine 
                  e i militari che mostrano i loro visi 
                  da levatrici piene di dolcezza. 
                  Messico, Cuba e il mondo intero, 
                  gridate alto contro questatrocità! 
                  Noi siamo diecimila mani 
                  che non possono produrre niente. 
                  Quanti di noi nel paese intero? 
                  Il sangue del nostro presidente,  
                  il nostro compañero, 
                  colpirà con più forza che non le bombe  
                  e i mitra! 
                  Così il nostro pugno colpirà di nuovo! 
                   
                  Comè difficile cantare 
                  quando devo cantare lorrore. 
                  Lorrore che sto vivendo, 
                  lorrore di cui sto morendo. 
                  Vedermi in mezzo a così tanti 
                  e innumerevoli momenti di infinito 
                  nel quale silenzio e grida 
                  sono la fine della mia canzone. 
                  Ciò che vedo, non lho mai visto prima. 
                  Ciò che ho provato e ciò che provo 
                  daranno vita al momento..... 
                   
                  Victor Jara 
                  (Estadio Chile, settembre 1973) 
                  
                 Citazioni e poesia tratte dal libro  
                  Victor Jara, una canzone infinita,  
                  di Juan Jara, 
                  Sperling & Kupfer Editori, 1999 
                
               |