|  La cecenia e l'estinzione
 In Cecenia rimangono donne e bambini, donne incinte e bambini 
                  piccoli, che cercano disperatamente un appiglio a cui aggrapparsi 
                  per non morire. I bombardamenti protratti per tre mesi, 24 ore 
                  su 24, non hanno lasciato in piedi quasi niente, intatto nessuno.Grozny è macerie, lutto, panico, è poche immagini rubate dagli 
                  ultimi giornalisti presenti, assediati anche loro e rimasti 
                  nei nascondigli per settimane. L'assedio è finito, soldati ubriachi 
                  festeggiano sfregiando i cadaveri, seviziando i prigionieri, 
                  mostrando armi e arroganza, disprezzo e superiorità. Il leader 
                  russo Putin, si fa riprendere mentre regala coltelli da caccia 
                  ai soldati che si sono distinti in azioni di guerra. Anne Nivat 
                  e Sophie Shihab, di Liberation e Le Monde, riescono a 
                  portare in occidente alcune fotografie che rompono la spirale 
                  e la cospirazione del silenzio. Testimoniano il massacro. I 
                  vincitori di Grozny possono dire tranquillamente "più la cosa 
                  resta resta tra noi, meglio s'ammazza", ma la cosa non è più 
                  solo tra loro è anche tra noi e quel disperante filo di umanità 
                  e impotenza con cui ci misuriamo da decenni.
 Dalla città distrutta nessuno riesce più a scappare, neanche 
                  quella metà della popolazione di origine russa ma così povera 
                  che non può trovare le 3000 lire (l'equivalente del caffè e 
                  del giornale con cui iniziamo la giornata) per tentare di mettersi 
                  in salvo. L'altra metà della popolazione è mussulmana, altrettanto 
                  povera e in più marchiata come fanatica, travisata e venduta 
                  come connivente con i terroristi. Un terrorismo quello Ceceno 
                  fatto di guerriglia alla disperata, ma che non può spiegare 
                  la spietatetezza dei russi i cui obiettivi non sono certo le 
                  bande guerrigliere, ma il controllo strategico della regione 
                  e la riaffermazione del ruolo di super potenza con annessi e 
                  connessi economico militari.
 L'occidente si è sporcato degli stessi crimini usando la bandiera 
                  della democrazia, ma sappiamo dalla stessa voce degli emigranti 
                  Kosovari che si sono sentiti dei deportati e non dei salvati. 
                  Il neoliberismo non vivrebbe molto senza nuovi rapporti coloniali, 
                  perché pur fingendo che siano il secondo, il terzo e il quarto 
                  mondo ad avere bisogno di noi, siamo noi che abbiamo molto bisogno 
                  di loro.
 Lo ricordo, non è certo inutile ribadirlo, anche se molte analisi 
                  dettagliate hanno detto tutto questo e sono per lo più state 
                  insabbiate o quasi. Vi rimando comunque a Chomsky, a Dumont, 
                  a Roberto Cavalieri, che in Balcani d'Africa spiega troppo 
                  bene cosa nasconde il concetto di guerra etnica e soprattutto 
                  a chi serve. Vi ricordo anche Ilaria Alpi che meno fortunata 
                  di Cavalieri mise le mani su qualcosa che avrebbe svelato certi 
                  traffici e certi rapporti e per questo venne uccisa con il suo 
                  operatore in maniera da confondere per sempre le tracce. Niente 
                  però sparisce per sempre.
 Le tracce restano, magari casualmente. A Alby, per 5 giorni 
                  le donne mussulmane non hanno seppellito i cadaveri, sperando 
                  passasse di lì un fotografo e sperando fino all'ultimo che la 
                  testimonianza dell'eccidio giungesse in occidente. È stato inutile, 
                  ma altrove due giornalisti francesi invece scattavano, usavano 
                  quel che rimaneva dei rullini per fermare l'oblio e la menzogna. 
                  Le autorità russe dicono ancora che si tratta di corpi di uccisi 
                  in combattimento, ma chi ha mai visto combattere mani e piedi 
                  legati e con le orecchie mozzate? Insomma non è mica Hallowen. 
                  I video della tv tedesca hanno poi riempito altri buchi. Il 
                  leader russo, Putin, si pavoneggiava un mese fa, mentre era 
                  in visita ufficiale in Francia, vantandosi come un difensore 
                  della causa animalista con Brigitte Bardot. Parlava diffusamente 
                  del suo bel cagnolino e Grozny da due mesi già moriva, invitava 
                  l'ex diva a Mosca, complice il noto razzismo antimusulmano di 
                  lei, e si diceva pronto a discutere di diritti degli animali.
 Sia chiaro non ho niente da dire contro chi protegge gli animali, 
                  tra l'altro li proteggo anch'io, ma faccio notare,ce ne fosse 
                  bisogno, l'uso di mass media-retorica-divismo per cancellare 
                  realtà più amare. Mentre scrivo queste note, mentre rifletto, 
                  una domanda insistentemente si pone tra me e le righe.
 Penso all'Afganistan dei Talebani, alla morsa oscurantista che 
                  lo stringe e penso all'Algeria che faticosamente sta uscendo 
                  da un bagno di sangue. Mi chiedo se si possono difendere i diritti 
                  degli uni, sapendo che si rischia di vedere poi gli stessi violare 
                  quelli di molti altri e soprattutto altre. L'Algeria insegna 
                  che si può fare una battaglia civile e umana se non si lasciano 
                  soli quelli che patiscono gli oscurantismi sulla loro pelle 
                  e nonostante tutto testimoniano interamente, con corpo e parola 
                  una ben più alta sovranità. Questa battaglia, questo non abbandonare, 
                  sono cominciati anche qui, nel nostro paese. Sono cominciati 
                  con il rifiuto dei campi profughi, dei Rom, degli steccati per 
                  i troppo scuri e diversi. In una comunicazione che non si sottragga 
                  anche al difficile compito di rivelare che i diritti umani sono 
                  i diritti umani di tutti, uomini-donne-bambini, che non si fermi 
                  compiacente al giustificazionismo che consente la violazione 
                  tra i violati (sono tra loro), in questo vedo una strada, rischiosa, 
                  per alzare le cortine (quelle vere), cortine che reciprocamente 
                  rivelano l'altro a noi e noi all'altro.
 È difficile dire qualcosa su questi argomenti e mi rendo conto 
                  che pur volendolo fare da tempo, tacevo per l'imbarazzo che 
                  tutto questo mi procura. Troppe, certo, le delusioni, gli esempi 
                  duri da digerire, ma troppi anche gli "interventi umanitari" 
                  con i bombardieri, i missili, le stragi impunite.
 Se è vero che siamo figli e figlie di nessuna frontiera e viviamo 
                  sulla "linea dell'esilio" è pur vero che sono pesanti per la 
                  nostra coscienza le immagini senza speranza di una città cancellata 
                  dal mondo, una città le cui immagini ferite non lasciano più 
                  spazio a parole o concetti, ma conducono inesorabilmente a luoghi 
                  che non sappiamo più.
 Nota: Il libro di R. Cavalieri, Balcani d'Africa è edito 
                  dalle edizioni gruppo Abele. Sul caso Ilaria Alpi numeroso è 
                  il materiale reperibile.
   Nadia Agustoni     8 
                  marzo Nel Chiapas Tanto piccole da sembrare bimbe, dietro i passamontagna che 
                  nascondono volti di madri, i segni dell'età e della dura quotidianità. 
                  Tanto colorate, con le loro gonne e camicette di manta decorata 
                  a mano, con i loro fiocchi, da sembrare innocenti bamboline, 
                  non fosse per qualche seno scoperto col relativo pargolo attaccato, 
                  portato a tracolla.Tanto determinate da occupare una radio governativa della città, 
                  trasmettendo per un'ora comunicati sullo stato delle cose nelle 
                  loro comunità. "Molte di noi non sanno leggere, né scrivere, 
                  e da qui vogliamo solo farci ascoltare". Tanto semplici ed incolte 
                  da rappresentare sui loro cartelli di denuncia figure con stereotipi 
                  infantili, disegni di carri armati, elicotteri ed aerei che 
                  sorvolano a bassa quota i loro municipi autonomi giorno e notte, 
                  per intimidire e filmare basi di appoggio zapatiste e osservatori 
                  internazionali, rendendo la vita una costante ossessione. Ma 
                  tanto degne e coscienti di chi è il nemico da combattere, alias 
                  Ernesto Zedillo, alias neoliberismo, machismo, militarizzazione, 
                  paramilitarizzazione.Tanto nobili da pensare oltre la loro miseria, 
                  allargando la lotta a tutte le donne oppresse del pianeta, o 
                  chiedendo l'immediato rilascio degli studenti della UNAM di 
                  Città del Messico, l'università più grande del mondo, incarcerati 
                  dopo un anno di occupazione fatta per rivendicare il diritto 
                  ad uno studio libero e gratuito.
 Erano in quasi 10.000 l'8 marzo le piccole donne zapatiste del 
                  Chiapas, indigene TZOTZIL, TZELTAL, CHOL, ZOQUE e TOJOLABAL, 
                  salite dalla Selva Lacandona o scese dai monti del Los Altos. 
                  Molte scalze, hanno marciato sotto il sole di S. Cristobal De 
                  Las Casas, città simbolo della oppressione spagnola sugli indigeni, 
                  ai quali ne era vietato l'accesso fino al secolo scorso. Hanno 
                  urlato la loro sofferenza ma anche rivendicato con ordine ed 
                  organizzazione il diritto ad occupare ruoli decisionali nelle 
                  comunità, il diritto al riposo, alle cure sanitarie, all'istruzione. 
                  E alla vita, minacciata dai vigliacchi gruppi paramilitari assoldati 
                  dal governo, o dalle stesse forze armate e dell'ordine. Hanno 
                  denunciato gli incarceramenti, le sparizioni e gli omicidi commessi 
                  a danno dei militanti zapatisti. E col danno la beffa dei programmi 
                  governativi di aiuto PROCAMPO e PROGRESA, pubblicizzati sulle 
                  TV in una campagna elettorale già iniziata da mesi, che mostra 
                  indigeni belli e felici, e che costerà al governo (ai cittadini 
                  messicani) qualcosa come il 2% del PIL. Aiuti governativi che 
                  naturalmente non esistono, o altro non sono che offerte di generi 
                  di prima necessità in cambio della desistenza.
 Una delle rivendicazioni politiche più grandi della marcia è 
                  stata, come da qualche anno a questa parte, il rispetto degli 
                  "accordi di S. Andres", dove nel Maggio 1995 il governo si impegnava 
                  a migliorare le condizioni delle popolazioni indigene concedendo 
                  loro una maggiore autonomia politica e culturale. Accordi poi 
                  disattesi dal burocrate Ernesto Zedillo, presidente di un paese 
                  politicamente e socialmente allo sbando. Poco più di 6 anni 
                  fa, il 1° gennaio 1994, l'Esercito Zapatista di Liberazione 
                  Nazionale si rivelò agli occhi del mondo, occupando il municipio 
                  di questa stessa città e annunciando la rivolta armato in difesa 
                  di un popolo oppresso da più di 500 anni.
 La vita di questo popolo purtroppo, non è migliorata da quel 
                  giorno. Ma da quel giorno gli indigeni del Chiapas hanno (ri)conquistato 
                  faticosamente una forte dignità. E una voce. E una grande, grande 
                  speranza.
  Paolino Bruschi
    Con o senza Haider
 Amnesty International denuncia gravi episodi di brutalità da 
                  parte della polizia austriaca nei confronti di arrestati e detenuti. 
                  Calci, pugni, ginocchiate, manganellate e gas urticanti sono 
                  i metodi comunemente usati. La maggior parte delle vittime sono 
                  cittadini austriaci o stranieri non bianchi che, in molti casi, 
                  vengono insultati dagli agenti di polizia con epiteti razzisti.Il caso più grave nel maggio 1999: Marcus Omofuma, un richiedente 
                  asilo nigeriano di 25 anni, fu condotto da tre agenti all'aeroporto 
                  di Vienna per essere espulso. Imbavagliato e legato al sedile 
                  dell'aereo con del nastro adesivo "come una mummia", non sopravvisse 
                  al viaggio.
 Le indagini in merito ai maltrattamenti ad opera della polizia 
                  sono lente, incomplete e spesso inconcludenti. Pochissime finora 
                  le incriminazioni di persone colpevoli di violazioni dei diritti 
                  umani. Paradossalmente, spesso sono le vittime ad essere denunciate 
                  dagli agenti per resistenza all'arresto, aggressione o diffamazione.
 Lo scorso novembre la Commissione delle Nazioni Unite contro 
                  la tortura ha esaminato il secondo rapporto periodico dell'Austria 
                  sulle misure adottate per applicare la Convenzione ONU contro 
                  la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani 
                  o degradanti. La Commissione ha raccomandato alle autorità di 
                  dichiarare con chiarezza che gli abusi di potere non saranno 
                  più tollerati.
 L'impunità apre la strada a nuove violazioni dei diritti umani. 
                  Amnesty International rinnova il proprio appello al nuovo governo 
                  austriaco perchè affronti seriamente il problema degli abusi 
                  da parte della polizia. Soltanto l'apertura di indagini immediate 
                  ed esaurienti su tutti gli episodi di maltrattamenti potrà indicare 
                  chiaramente la volontà di impedire altre violazioni e di punire 
                  i responsabili. Amnesty International
   Amnesty International     L'importanza degli archivi I compagni di una certa età sanno molto bene che fino ad alcuni 
                  decenni orsono, quando la loro generazione cominciava ad affacciarsi 
                  all'anarchismo, non esisteva in Italia un solo archivio o centro 
                  di documentazione anarchico degno di tal nome. Se si eccettua 
                  infatti la breve esperienza della Biblioteca "Max Nettlau" creata 
                  a Bergamo da Pier Carlo Masini, nessuno si era posto il problema 
                  di creare una struttura permanente che fosse in grado di raccogliere 
                  la testimonianza della nostra storia e della nostra esperienza, 
                  capace quindi di fornire una documentazione di prima mano sul 
                  percorso storico del libertarismo nel nostro paese. Eppure, 
                  in quegli anni, il movimento anarchico di lingua italiana godeva 
                  ancora di un sostanziale radicamento nel corpo sociale e politico 
                  italiano, era forte e vivace, diffuso sul territorio in modo 
                  sostanzialmente omogeneo, e sufficientemente inserito all'interno 
                  del movimento dei lavoratori: quindi materialmente in grado 
                  di dar vita a strutture del genere.Questa apparente trascuratezza rispetto al nostro patrimonio 
                  e alla necessità della sua conservazione, era forse imputabile 
                  al fatto che i meccanismi della trasmissione dell'esperienza, 
                  della continuità e della pratica quotidiana del nostro movimento, 
                  erano ancora in grado di funzionare direttamente, senza il bisogno 
                  di trovare legittimazione nelle carte d'archivio o nelle raccolte 
                  delle annate della nostra stampa. In un certo senso si può dire 
                  che mancasse, o non si percepisse appieno, la consapevolezza 
                  che anche l'anarchismo - e il movimento che ad esso si richiamava 
                  - avesse bisogno, prima o poi, di raccolte documentarie che 
                  testimoniassero la sua non secondaria presenza nella storia 
                  sociale italiana. Come ben si percepisce al giorno d'oggi, gli 
                  anarchici non potevano continuare ad ignorare questa esigenza, 
                  che a lungo andare avrebbe comportato la inevitabile, irreparabile 
                  e definitiva perdita di quasi tutto il loro patrimonio documentale, 
                  per lo meno quello sfuggito ai sequestri delle questure di mezza 
                  Italia e depositato negli archivi di stato, o quello acquisito 
                  dai numerosi istituti culturali richiamantisi alla egemonia 
                  culturale marxista.
 Ecco perché oggi va riconosciuto ad Aurelio Chessa, creatore 
                  dell'Archivio "Famiglia Berneri", l'indiscutibile merito di 
                  aver compreso, forse prima di chiunque altro, quale importanza 
                  avesse, e soprattutto avrebbe avuto, promuovere la conservazione 
                  organica dei nostri documenti e delle nostre carte. Fu Aurelio 
                  infatti, personaggio spigoloso quant'altri mai, ma anche completamente 
                  e disinteressatamente dedito al proprio impegno, il primo ad 
                  aver cominciato, con sacrifici personali e grazie a una fittissima 
                  rete di relazioni impostata soprattutto coi compagni del Nord 
                  America, a sottrarre alla distruzione e alla dispersione una 
                  notevole parte della documentazione della storia, e delle storie, 
                  del movimento anarchico.
 La storia, come penso la intendano gli anarchici, non è una 
                  semplice sequenza di atti compiuti dal potere per rafforzarsi 
                  e perpetuarsi; tanto meno si riduce alla riproposizione superficiale 
                  del succedersi di processi che hanno coinvolto la vita popolare 
                  solo in modo negativo. Piuttosto e soprattutto, la storia procede 
                  attraverso pratiche e sentimenti collettivi che si riannodano 
                  e si ripropongono di tempo in tempo a partire dalle insopprimibili 
                  esigenze di emancipazione e liberazione degli individui. E conservare 
                  questa storia, questa esperienza così particolare, è la funzione 
                  primaria di un archivio anarchico, di un archivio in grado non 
                  solo di raccogliere la documentazione che altrimenti andrebbe 
                  dispersa nella turbinosa vicenda delle sedi e delle collocazioni 
                  logistiche, ma anche di opporsi alla riscrittura tendenziosa 
                  della storia attraverso l'uso strumentale delle fonti. In questa 
                  prospettiva gli archivi, le biblioteche, i centri di documentazione 
                  diventano la cinghia di trasmissione, da una generazione all'altra, 
                  di esperienze, sistemi di valori, metodologie e pratiche militanti: 
                  in definitiva, in assenza di modelli autoritari, si rivelano 
                  strumenti utili per annodare l'esperienza delle nuove e delle 
                  passate generazioni di militanti.
 Ne è dimostrazione la bella mostra Storie di Anarchici e Anarchia, 
                  inaugurata l'11 marzo a Reggio Emilia (Sala Giardino dei Musei 
                  Civici) e aperta fino al 9 aprile. Nata dalla collaborazione 
                  fra la Biblioteca comunale "Panizzi", recente beneficiaria della 
                  donazione ricevuta dagli eredi di Aurelio Chessa, e da Fiamma 
                  Chessa, attuale curatrice dell'Archivio "Famiglia Berneri-Aurelio 
                  Chessa", questa esposizione allestita interamente col materiale 
                  documentario e librario dell'Archivio, racconta con la vivacità 
                  delle immagini e dei documenti originali quello che nessun libro 
                  potrebbe trasmettere con altrettanta immediatezza: la storia 
                  di un movimento ricco e vivace, che ha percorso con una intensa 
                  presenza tutta la storia del secolo appena passato.
 Dopo la breve introduzione fatta dall'assessore alla cultura 
                  e dal direttore della biblioteca del comune emiliano, che hanno 
                  voluto rimarcare l'importanza della recente acquisizione nel 
                  patrimonio culturale della città, l'architetto Alberto Ciampi, 
                  esperto ed efficace curatore della mostra, ha condotto il numeroso 
                  pubblico giunto da ogni parte d'Italia in un affascinante percorso 
                  attraverso i materiali esposti, illustrando non solo i criteri 
                  storici e scientifici su cui si sono basate le scelte fatte, 
                  ma anche la consistenza e la natura dell'Archivio. Le numerose 
                  bacheche, il cui materiale viene parzialmente descritto nel 
                  bel catalogo curato dall'amministrazione comunale, hanno tutte 
                  un'impostazione monografica, con un'attenzione particolare, 
                  ovviamente, alle figure di Camillo Berneri, della moglie Giovanna 
                  Caleffi e della figlia Maria Luisa, di Aurelio Chessa. Molto 
                  interessanti anche le bacheche dedicate a Leda Rafanelli, ricche 
                  di cimeli davvero commoventi, e quelle assegnate alla pubblicistica 
                  anarchica e ai giornali d'inizio secolo: una attenta scelta 
                  di libri, opuscoli, testate giornalistiche, disposti in modo 
                  da colpire, anche visivamente, l'attenzione del visitatore. 
                  Le altre sezioni della mostra sono dedicate a coloro che hanno 
                  lasciato all'Archivio, in tempi diversi, fondi documentari particolarmente 
                  importanti: da Ugo Fedeli a Pio Turroni, da Pier Carlo Masini 
                  a Emidio Recchioni e Vernon Richards, da Giuseppe Faravelli 
                  a Virgilio Gozzoli. Non poteva mancare, naturalmente, l'esposizione 
                  di materiali riguardanti la rivoluzione spagnola e il ruolo 
                  avutovi dagli anarchici e segnatamente da Camillo Berneri. È 
                  soprattutto il materiale esposto in questa sezione che dà conto 
                  della dovizia e della preziosità dei documenti conservati nell'Archivio, 
                  rendendo ancor più apprezzabile il lavoro di raccolta e conservazione 
                  di Aurelio Chessa.
 Quanto sia diffusa ormai la sensibilità sulla necessità di conservare 
                  e rendere accessibili le testimonianze dell'anarchismo, lo dimostra 
                  il proliferare di piccole biblioteche e centri di documentazione 
                  locali. Poco prima dell'importante mostra reggiana, infatti, 
                  a Rimini il locale gruppo "Libertad" inaugurava l'omonima biblioteca 
                  installata in una nuova sede aperta al pubblico (Casa della 
                  Pace, via Tonini 5): praticamente dall'archivio più grande al 
                  centro di documentazione (per ora) più piccolo. Eppure, a ben 
                  guardare, l'importanza delle due strutture è la stessa, perché 
                  identica è la volontà di trasmettere a nuove generazioni di 
                  libertari i valori, gli ideali e la cultura dell'anarchismo. 
                  Significativa, e sicuramente non casuale, la presenza all'inaugurazione 
                  di una trentina di persone, in gran parte giovani e giovanissimi, 
                  venuti per riscoprire le radici di percorsi di vita alternativi 
                  a quelli proposti dal potere. Giovani che potranno trovare, 
                  fra le testimonianze di chi li ha preceduti, l'esempio della 
                  possibilità di una vita espressa in coerenza con le proprie 
                  tensioni e la propria personalità.
 Desidero chiudere questo breve resoconto con le belle parole 
                  lette al termine dell'inaugurazione da un compagno riminese. 
                  L'attenzione commossa con la quale i presenti hanno seguito 
                  la lettura ha evidentemente colto l'importanza di una presenza 
                  libertaria nella società, anche quando ad esprimerne lo spirito 
                  sia una "scalcagnatissima bancarella" tenuta da alcuni "scalcagnati 
                  trentenni". Oppure una piccola biblioteca ancora povera di testi 
                  ma già ricca di umanità.
  Massimo Ortalli
     Quella scalcagnatissima bancarella. Un giorno - erano i primi anni 80 -, su di un piccolo giornaletto 
                  locale che noi ragazzi leggevamo, un tizio più o meno famoso, 
                  di quei piccoli "boss di provincia" che bazzicavano le associazioni 
                  e i locali alternativi e che adesso girano incravattati fra 
                  gli assessorati -se non sono assessori -, mandò una sua lettera 
                  che fu pubblicata.La lettera diceva: "Oggi si può stare sul mercato e fare cose 
                  intelligenti".
 Premesso che non ho mai conosciuto nessuno che stesse su nessun 
                  mercato per fare cose stupide, perlomeno non volontariamente, 
                  quella frase, detta allora ed in quel contesto, rappresentò 
                  per tanti l'epitaffio di tutta un'era, per una pietra che di 
                  lì a poco calò sul "movimento", sui movimenti, degli anni 70.
 Dopo poco, aperta la porta, iniziò il fuggi-fuggi, il riflusso 
                  nel privato.
 "Qualcuno ha l'Aids, qualcuno è morto", cantarono i CCCP.
 C'era, e c'è, il silenzio di chi era ed è rimasto in carcere, 
                  a scontare condanne decennali senza magari neanche aver mai 
                  visto un'arma. Era iniziata la caccia alle streghe, e c'era 
                  gran bisogno di paggi e ciambellani per la nuova corte, per 
                  la stabilità osannata e tanto attesa. I nani e le ballerine 
                  arrivarono poco dopo, e furono reclutati sappiamo dove.
 Alcuni ragazzi, alcuni punx, che parlavano di anarchia e solo 
                  vagamente sapevano dell'esistenza degli anarchici, non accettarono 
                  l'invito. Di nessuno, né al mercato, né alle nuove corti.
 Accettammo l'invito di un gruppo di scalcagnati trentenni che 
                  conoscemmo un sabato pomeriggio, mentre tenevano una scalcagnatissima 
                  bancarella di libri, di riviste, di adesivi. Forse è quello 
                  il modo sbagliato di stare sul mercato, forse il tizio di cui 
                  parlavo prima intendeva quello. Accettammo l'invito di un signore 
                  barbuto di inizio secolo, tal Malatesta, a non delegare a nessuno 
                  la conquista e la difesa delle libertà, della libertà.
 E mentre sfilava la "Milano da bere" degli anni 80 e il movimento 
                  non c'era più per nessuno, scoprimmo sulla nostra pelle il significato 
                  della repressione, del controllo sociale, delle lotte, dei poteri 
                  che un giorno dopo l'altro sottraevano spazi, agibilità, chiudevano 
                  giornali, radio, ogni voce di dissenso. Era la "legge del mercato", 
                  dicevano.
 Quello che ora abbiamo, lo abbiamo strappato con le unghie. 
                  Nessun tipo di agibilità ci è concessa, è concessa agli anarchici: 
                  tutto è ed è sempre stato conquistato e pagato in prima persona.
 Perché a nessuno venga in mente di liquidare tutto ciò con la 
                  categoria tutta cristiana dei martiri immolati a qualsivoglia 
                  causa, che è quanto di più estraneo esista rispetto alla nostra 
                  idea gioiosa di vivere una vita libera.
 Perché sia comprensibile il significato e la dignità di questo 
                  comunque allucinante prezzo politico ed umano che uomini, donne, 
                  gruppi e movimenti quotidianamente pagano in ogni angolo del 
                  mondo, occorre interrogare la nostra storia, la storia del movimento 
                  anarchico. Occorre la memoria. Occorre questa biblioteca. Non 
                  so per quanto tempo, per quanti anni potrà esistere questa biblioteca. 
                  So solo che se mai per qualunque motivo dovesse chiudere, prima 
                  o poi qualcuno che non riesce proprio a fare cose intelligenti 
                  su nessun mercato, la riaprirà e ci si sbatterà come fosse la 
                  dannazione della sua vita.
 L'anarchia è contagiosa. E si trasmette facilmente.
  Pelle Gruppo Libertad - FAI
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