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                    | Come la Nato realizzò il sogno di Enver 
                        Hoxadi Pino Cacucci
    Nel primo anniversario dell'intervento 
                        "umanitario" della Nato nei Balcani, qualche informazione 
                        utile sulle menzogne di allora e sulle vergogne di oggi.   |  |   Se mai volessimo l'ennesima conferma 
                  storica che stalinismo e nazismo traggono linfa da radici comuni, 
                  l'Uck sarebbe l'esempio odierno più concreto.Viviamo in un'epoca nella quale sia il progetto di Hitler - 
                  dominare il mondo - che quello di Stalin - controllare cuori 
                  e menti degli esseri umani - sono stati portati a compimento 
                  non da una singola nazione o alleanza di stati, bensì dal coacervo 
                  di imprese transnazionali che chiamano questo incubo "globalizzazione", 
                  mentre il mezzo con cui lo concretizzano, il "neoliberismo", 
                  è in sé una contraddizione in termini: mai il mercato è stato 
                  meno libero, perché ferreamente controllato e spietatamente 
                  escludente, capillarmente a senso unico (come sostiene da anni 
                  Noam Chomsky, "il neoliberismo è una ricetta i cui propugnatori 
                  impongono alle proprie vittime ma si guardano bene dall'adottare"). 
                  Tornando agli albori di quello che , all'apparenza, sembrerebbe 
                  un assurdo storico - la convergenza di intenti tra un satrapo 
                  staliniano e la Nato - va ricordato che l'Uck è in fondo una 
                  creatura del dittatore albanese deceduto nel 1985, fu lui a 
                  vagheggiare la "Grande Albania" - sebbene il progetto fosse 
                  già caldeggiato dal governo collaborazionista durante l'occupazione 
                  fascista - e a organizzare, armare e sovvenzionare il primo 
                  nucleo di "guastatori" kosovari albanesi, negli anni che lo 
                  vedevano acerrimo nemico di Tito e della Yugoslavia fermamente 
                  antistalinista (anche se per motivazioni tutt'altro che libertarie...).
 La memoria cortissima dei nostri mezzi d'informazione ha ignorato 
                  alcuni illuminanti reportage pubblicati in epoca non sospetta 
                  dal... New York Times (d'ora in poi NYT), cioè lo stesso 
                  giornale che più tardi avrebbe capeggiato la campagna in favore 
                  dell'intervento "umanitario". Nel 1982 l'inviato David Binder 
                  descriveva una situazione con termini sorprendentemente simili 
                  rispetto a quella che diciassette anni dopo avrebbe scatenato 
                  la guerra, ma diametralmente opposta: la minoranza serba risultava 
                  vittima di ogni sorta di soprusi da parte della maggioranza 
                  albanese, mentre il governo centrale si guardava bene dall'intervenire 
                  per non alimentare il nazionalismo di entrambe le parti e non 
                  fornire pretesti alla bellicosità di Tirana.
 Scriveva Binder il 9 novembre dell'82, dopo l'ennesima aggressione 
                  con tentativo di bruciare vivo un bambino serbo: "Incidenti 
                  di questo genere hanno spinto molti degli abitanti del Kosovo 
                  di origine slava a fuggire dalla provincia, favorendo così la 
                  richiesta dei nazionalisti di un Kosovo etnicamente puro e albanese. 
                  Secondo le stime di Belgrado, 20.000 serbi e montenegrini hanno 
                  abbandonato per sempre il Kosovo dopo i tumulti del 1981". Riguardo 
                  i quali, il NYT del 28 novembre pubblicava quanto segue: "In 
                  una spirale di violenza iniziata con gli scontri all'università 
                  di Pristina nel marzo 1981, un gran numero di persone sono state 
                  uccise e centinaia ferite. Con frequenza settimanale, si sono 
                  registrati casi di stupri, incendi, saccheggi e sabotaggi con 
                  lo scopo di espellere dalla provincia gli slavi ancora rimasti 
                  nel Kosovo". Nel 1986 un altro inviato, Henry Kamm, riportando 
                  il clima di aggressione ai danni degli "slavi" (serbi e montenegrini) 
                  sottolineava che le "autorità comuniste locali, di etnia albanese" 
                  coprivano i crimini dei nazionalisti.
 Considerando che dall'altra parte della frontiera Enver Hoxa 
                  finanziava i gruppi paramilitari, embrioni del futuro Uck, il 
                  NYT non aveva remore nel descrivere la situazione. Va ricordato 
                  che risale ad allora la coniazione del termine "stupro etnico", 
                  largamente usato dai kosovari albanesi ("comunisti", a quei 
                  tempi) per "convincere" i serbi ad abbandonare terre e case. 
                  Binder tornò in Kosovo nel 1987, e l'11 gennaio scrisse: "Gli 
                  albanesi nel governo locale hanno dirottato fondi pubblici e 
                  modificato regolamenti per impadronirsi di terre appartenenti 
                  ai serbi, sono state attaccate chiese ortodosse, hanno avvelenato 
                  pozzi e bruciato raccolti. Molti giovani albanesi sono stati 
                  istigati dagli anziani a stuprare le ragazze serbe". Difficile 
                  definire tutto questo "vittimismo serbo": gli archivi del NYT 
                  non sono stati colpiti da missili intelligenti e chiunque, magari 
                  nella sua prossima vacanza nella Grande Mela, può andare a verificare. 
                  Milosevic fu molto abile nello sfruttare l'esasperazione della 
                  minoranza serba per raccogliere voti (giurando alla folla che 
                  non avrebbe mai più subìto soprusi e violenze dalla maggioranza 
                  albanese), ma non dovette faticare granché, vista la serie di 
                  orrori praticati per anni con quotidiano accanimento dai giovanotti 
                  che propugnavano la Grande Albania e ammiravano Enver Hoxa. 
                  Gli stessi che anni dopo sventoleranno bandiere a stelle e strisce, 
                  con notevole capacità di trasformismo politico.
  Sarajevo, l'Holiday Inn nel quartiere Marindvor - albergo che 
                  durante l'assedio ospitava la stampa internazionale.
    Stupri e saccheggi
  Orfani del satrapo di Tirana, i nazionalisti specializzati 
                  in stupri e saccheggi hanno trovato, un bel giorno, il più potente 
                  protettore che il destino potesse loro riservare: George Tenet, 
                  direttore quarantaseienne della CIA. Tenet viene da una famiglia 
                  albanese, sua madre fuggì "dal comunismo" (quello di Hoxa) a 
                  bordo di un sommergibile inglese, e nel luglio del '97 è diventato 
                  uno degli uomini più potenti del mondo per volere di Clinton, 
                  che lo ha messo a capo della centrale di spionaggio statunitense 
                  al termine di una carriera folgorante e con il compito di ristrutturarla 
                  a fondo. Da allora, George Tenet ha lavorato in modo assiduo 
                  per gli ex connazionali. E ha individuato nel Kosovo il punto 
                  nevralgico di una strategia che con i nazionalismi non c'entra 
                  nulla, ma che riguarda esclusivamente il controllo delle risorse 
                  energetiche e la destabilizzazione dell'Unione Europea all'indomani 
                  del varo dell'Euro, per fiaccare sul nascere l'unica potenza 
                  economica in grado di impensierire quella statunitense (prima 
                  o poi toccherà alla Cina, già "avvisata" proprio durante la 
                  guerra contro la Yugoslavia). Gli oleodotti e i gasdotti che 
                  dalla Russia e dall'Iran - via Mar Nero-Romania-Serbia - avrebbero 
                  potuto rendere meno dipendenti i paesi dell'Europa mediterranea 
                  dai giacimenti del Mare del Nord (controllati da Gran Bretagna 
                  e Stati Uniti, il che spiega esaurientemente l'atteggiamento 
                  di Blair al riguardo), sono tornati lettera morta. Washington considera il Caucaso parte della sfera di intervento 
                  Usa e Nato, e ha sostenuto la costruzione dell'oleodotto Baku-Supsa 
                  (in Georgia) proprio per tagliare fuori la Russia diminuendone 
                  l'influenza geopolitica nell'area: l'apertura è avvenuta dopo 
                  una serie di manovre militari congiunte tra Azerbaigian, Ucraina 
                  e Georgia in un piano di alleanze che comprende anche la Moldavia, 
                  collegata alla Nato tramite la "Nato Partnership for Peace" 
                  (Orwell ci ha insegnato che non può mai mancare la parola "pace" 
                  quando si tratta di scatenare guerre...). Ma dal Vietnam in 
                  poi, è assodato che prima di far decollare i bombardieri occorre 
                  conquistare l'opinione pubblica, compito non certo difficile, 
                  considerando la pressoché totale inesistenza di organi d'informazione 
                  indipendenti in grado di incidere in profondità sulle coscienze 
                  (anche a questo riguardo, si veda l'illuminante produzione di 
                  Noam Chom-sky, in particolare Mani-facturing Consent, La 
                  fabbrica del consenso, scritto in collaborazione con Edward 
                  S. Herman). E così, è stato messo a capo dell'Organiz-zazione 
                  per la Sicurezza e la Coope-razione in Europa (Osce) il famigerato 
                  William Walker (senza che nessun giornale si chiedesse perché 
                  un nordamericano dovesse mai comandare un organismo prettamente 
                  europeo).
 Fatalmente omonimo dell'avventuriero che invase il Nicaragua 
                  nel 1855 per conto della multinazionale Vanderbilt, Walker ha 
                  un curriculum degno del compito assegnatogli. Entrato in "diplomazia" 
                  nel 1961, specialista di questioni latinoamericane, iniziò la 
                  carriera come funzionario in Perù, quindi assegnato al Dipar-timento 
                  di Stato nell'ufficio per l'Argentina, e a Rio de Janeiro tra 
                  il '69 e il '72 durante la sanguinosa dittatura di Garastazu 
                  Medici, la prima di un'assidua frequentazione di gorilla genocidi 
                  sud e centroamericani. Tra il '74 e il '77 Walker diresse la 
                  sezione politica dell'ambasciata Usa in Salvador, ai tempi delle 
                  famigerate formazioni paramilitari di "Orden", addestrate dalla 
                  CIA e dai Berretti Verdi. Nell'82, con Reagan, lo spedirono 
                  in Honduras, paese strategico in funzione anti-Nicaragua sandinista, 
                  dove vennero dislocati i contras.
 Lavorando in stretto contatto con il colonnello Oliver North, 
                  quello dello scandalo Iran-Contras per i fondi occulti al terrorismo 
                  antisandinista, Walker ha frequentato a quei tempi persino Felix 
                  Rodriguez, istruttore di reparti speciali dal Vietnam all'America 
                  Latina, che interrogò Ernesto Che Guevara dopo la cattura a 
                  La Higuera e trasmise l'ordine di ucciderlo. Nonostante il successivo 
                  scandalo dei fondi, con Walker che compare in ben 13 passi del 
                  rapporto della commissione d'inchiesta, la sua stella non sarebbe 
                  mai tramontata. Nel 1988 fu nominato ambasciatore in Salvador, 
                  dove, l'anno seguente, in occasione dell'elezione di Alfredo 
                  Cristiani a presidente, diede un party per festeggiarlo e invitò 
                  il maggiore Roberto D'Aubuisson, organizzatore degli squadroni 
                  della morte e mandante, tra gli innumerevoli eccidi, anche dell'assassinio 
                  del vescovo Oscar Romero.
 Quando il 16 novembre del 1989 i militari salvadoregni fanno 
                  irruzione nell'Università Centroame-ricana e massacrano i docenti 
                  gesuiti, Walker dichiara di non avere nulla da dichiarare... 
                  Nel '92 ha lasciato il Salvador per occuparsi di Croazia, e 
                  quindi del "Supremo" Tudjman, campione degli interessi Usa nei 
                  Balcani. Infine, è stato inviato in Kosovo, per creare i presupposti 
                  di un conflitto a scopo preventivo che limitasse una futura 
                  espansione economica russa - e di conseguenza anche iraniana 
                  - e permettesse agli Stati Uniti di costruire la più grande 
                  base militare nei Balcani - l'odierna Bondsteel, nei pressi 
                  di Orahovac - i cui lavori in corso sono di tale portata da 
                  dimostrare che le truppe Usa resteranno lì per secoli. Il pretesto 
                  all'intervento "umanitario" a suon di missili e proiettili all'uranio 
                  lo avrebbe inventato il 15 gennaio 1999 a Racak.
  Ingresso del cimitero ebraico... assedio-abbandono-esodo.
    Spudorata messinscena
 Quello che sarebbe passato alla storia come il casus belli 
                  della "guerra umanitaria", cioè la cosiddetta "strage di 
                  Racak", è ormai pienamente provato che si trattò di una macabra, 
                  spudorata messinscena. L'inviato del Figaro Renaud Girard 
                  fu tra i primi a denunciare l'eccidio di 45 civili albanesi, 
                  ma soltanto due giorni dopo pubblicò un secondo articolo denunciando 
                  di essere stato "preso in giro dall'Uck" al pari degli altri 
                  giornalisti. Poi, anche Le Monde e Liberation hanno 
                  smascherato l'inganno, ma troppo tardi (e comunque, al di fuori 
                  della Francia non hanno riscosso alcuna eco). Girard si recò 
                  sul posto il 15, su invito delle autorità serbe, in seguito 
                  a un attacco dell'Uck e a un contrattacco della polizia, con 
                  un bilancio di 15 combattenti albanesi uccisi. Sia i giornalisti 
                  che gli osservatori dell'Osce non videro alcuna vittima civile, 
                  e il villaggio "appariva del tutto normale". L'indomani, Racak era tornata sotto il controllo dell'Uck, e 
                  i giornalisti furono portati a vedere il massacro: 45 corpi 
                  che prima non c'erano, apparsi molto tempo dopo il ritiro delle 
                  forze serbe. Girard pubblicò il 20 gennaio un dettagliato resoconto 
                  dell'inganno subìto, dove, in pratica, erano stati mostrati 
                  cadaveri di persone uccise lontano da Racak e trasportati lì 
                  per la messinscena della strage: perché il giorno in cui sarebbe 
                  avvenuta, nessuno nel villaggio ne sapeva nulla? E perché Walker 
                  si era riunito per 45 minuti con i capi militari dell'Uck proprio 
                  a Racak? L'articolo mandò su tutte le furie i corrispondenti 
                  anglosassoni, che accusarono Girard di "uccidere la loro notizia"... 
                  Il mondo fece come gli osservatori dell'Osce: ignorò la verità 
                  e giudicò sacrosanto l'inizio della guerra. Ottimo lavoro, mister 
                  Walker.
    Il "solito" tragico errore
  Riaffermare che "la verità è la prima vittima di ogni guerra", 
                  appare ormai scontato, ma vale sempre la pena soffermarsi sugli 
                  esempi concreti, per quanto sia la nostra una lotta di minuscoli 
                  Don Chisciotte contro mulini a vento globalizzanti. Tra le poche incrinature nella campagna di disinformazione monolitica, 
                  vanno registrate le corrispondenze di Paul Watson da Pristina, 
                  inviato del Los Angeles Times, cioè di un organo tutt'altro 
                  che critico nei confronti della guerra. Anche Watson, rispetto 
                  alla "strage di Racak", dapprima avalla la versione di Walker, 
                  ma in seguito esprime gravi dubbi e intervista addirittura alcuni 
                  abitanti del villaggio che confermano le deduzioni avanzate 
                  dagli inviati francesi.
 Quando iniziano i bombardamenti, Watson si rifiuta di lasciare 
                  il Kosovo e assume la scomoda posizione di testimone diretto, 
                  affermando a più riprese che la Nato "sta colpendo soprattutto 
                  chi dice di voler salvare" e gli obiettivi degli attacchi sono 
                  sempre civili inermi, senza distinzione tra profughi dell'una 
                  o dell'altra etnia. Ben presto lo sconcerto di Watson si trasforma 
                  in indignazione: il 17 aprile dichiara alla Cbc canadese che 
                  la Nato sta mentendo riguardo i presunti massacri di civili 
                  albanesi a opera dell'esercito serbo a Pristina, aggiungendo 
                  "Non posso essere d'accordo con i governi della Nato che stanno 
                  solo cercando di nascondere le loro responsabilità per l'esodo 
                  dei profughi dal Kosovo.
 È molto improbabile che un esodo di tale entità sarebbe avvenuto 
                  se non fosse stato per i bombardamenti". E il 20 giugno scrive: 
                  "Come unico corrispondente statunitense in Kosovo per buona 
                  parte dei 78 giorni di bombardamenti della Nato sono passato 
                  attraverso una guerra di cui la prima vittima è stata, come 
                  nella maggioranza dei conflitti, la verità. La Nato ha chiamato 
                  la sua devastante guerra aerea un "intervento umanitario", una 
                  battaglia tra il bene e il male per fermare la pulizia etnica 
                  e far ritornare i kosovari albanesi alle loro case.
 Ma vista dall'interno del Kosovo, questa guerra non è mai apparsa 
                  così semplice e pura. È sembrato piuttosto come aver chiamato 
                  un idraulico per riparare una perdita ed averlo osservato allagare 
                  completamente la casa".
 È anche a causa della presenza di Watson (e di un fotoreporter 
                  della Reuters) se la Nato ha dovuto ammettere il massacro del 
                  14 aprile, quando oltre 80 profughi kosovari albanesi rimangono 
                  uccisi in ripetuti attacchi aerei (ben quattro, a distanza di 
                  tempo uno dall'altro, e non l'errore di un singolo pilota). 
                  Nelle ore successive, i telegiornali mostrano servizi nei quali 
                  diversi presunti "profughi scampati al bombardamento" giurano 
                  di aver riconosciuto le insegne di Belgrado sui velivoli responsabili 
                  della carneficina.
 Ma in seguito alle immagini diffuse dall'inviato della Reuters 
                  e alle descrizioni inviate da Watson, la Nato ammetterà "il 
                  tragico errore". Resta solo da chiarire un punto: i testimoni 
                  erano vittime di psicosi collettiva o avevano ricevuto l'ordine 
                  di dichiarare il falso? È assolutamente impossibile confondere 
                  i colori yugoslavi dalle insegne statunitensi che spiccano su 
                  ali e timoni di coda. Comunque fosse, rappresentano un esempio 
                  da tenere sempre bene in mente, quando assistiamo a certe "accuse 
                  irrefutabili di testimoni oculari".
    Nessun problema
 Qualche mese dopo la fine dell'intervento "umanitario", persino 
                  le tanto sbandierate fosse comuni hanno subìto un drastico ridimensionamento. 
                  Nessuno potrebbe mai negare la ferocia dei paramilitari serbi 
                  - fermo restando, come ha affermato persino una funzionaria 
                  dell'Osce, che questi si sono scatenati dopo l'inizio degli 
                  attacchi Nato, e non prima, a riprova che l'incolumità dei kosovari 
                  albanesi è stata solo un pretesto per altri scopi - ma le famose 
                  foto satellitari di presunte sepolture di massa, sono risultate 
                  altrettante bufale a uso e consumo della propaganda. Durante 
                  il conflitto la Nato ha diffuso la spaventosa cifra di 10.000 
                  civili uccisi dai serbi: calata l'attenzione dei media, risulteranno 
                  essere circa duemila, dei quali la maggior parte combattenti 
                  dell'Uck, mandati allo sbaraglio dai loro comandi per ottenere 
                  maggiori riconoscimenti sul campo, e resta inoltre impossibile 
                  quantificare quanti civili albanesi siano stati uccisi dall'Uck 
                  perché considerati "collaborazionisti". Il 17 ottobre 1999 la 
                  Fondazione Stratford, un centro di studi strategici di Austin, 
                  Texas, ha emesso un approfondito rapporto in cui tra l'altro 
                  si legge: "Nel caso che gli Stati Uniti e la Nato si fossero 
                  sbagliati (sulla cifra di 10.000 vittime) i governi dell'Alleanza 
                  che, come quello italiano e quello tedesco, hanno dovuto a suo 
                  tempo fronteggiare pesanti critiche, potrebbero venirsi a trovare 
                  in difficoltà. Ci saranno molte conseguenze qualora risultasse 
                  che le dichiarazioni della Nato riguardo le atrocità commesse 
                  dai serbi erano largamente false". Sembra che il problema non 
                  sussista: è trascorso un anno senza la benché minima "difficoltà" 
                  nel digerire e dimenticare qualsiasi falsità ingoiata.   Sarajevo, ragazzi giocano a basket tra i resti di un edificio.
  La cacciata degli ebrei
 Poi, avremmo assistito a una capillare pulizia etnica, stavolta 
                  davvero totale: a parte i serbi, anche turchi, montenegrini, 
                  croati, goran, rom ed ebrei hanno dovuto lasciare il Kosovo, 
                  cacciati a forza di stragi e distruzioni sistematiche. Una pagina 
                  del tutto taciuta dall'informazione globale è quella che riguarda 
                  il dramma della comunità ebraica di Pristina. Jared Israel, 
                  del Brecht Forum di New York, ha intervistato Cedda Prlincevic, 
                  presidente della comunità, scampato al pogrom scatenatosi con 
                  l'ingresso della Kfor - cioè dei "liberatori" - e rifugiatosi 
                  prima in Macedonia e quindi a Belgrado grazie all'aiuto di un 
                  amico israeliano, Eliz Viza, e del presidente della comunità 
                  ebraica di Skopje. Riportiamo alcuni stralci delle sue dichiarazioni. 
                  "Sono successe cose orribili. Ma i serbi come popolo, come nazione 
                  dall'inizio della loro storia fino a oggi non hanno commesso 
                  atrocità né genocidi. Ci sono stati individui che hanno compiuto atti che non avrebbero 
                  dovuto compiere. Ma qualcuno sta sfruttando questo, lo sta esagerando: 
                  il popolo serbo non aveva problemi con gli albanesi del Kosovo. 
                  Si sono aiutati a vicenda, specialmente nell'ultimo periodo. 
                  Ma appena sono entrate le truppe Kfor e il confine è stato aperto 
                  alla Macedonia e all'Albania, sono arrivati moltissimi albanesi 
                  da fuori e si è creata un'enorme confusione, con molte uccisioni. 
                  Durante i bombardamenti nei luoghi dove viveva la gente comune 
                  non si sono verificati massacri commessi dalla popolazione locale. 
                  Anzi, spesso erano gli stessi serbi a difendere gli albanesi 
                  dalle milizie paramilitari. (...) Poi, con la ritirata dell'esercito, 
                  c'erano gruppi paramilitari da entrambe le parti, allora la 
                  situazione è diventata sporca. Prima, non si verificavano eccidi. 
                  A Pristina ci rifugiavamo in cantina insieme con gli albanesi. 
                  Tutti insieme, rom, serbi, turchi, albanesi, ebrei, tutti inquilini 
                  dello stesso condominio. Stavamo tutti insieme. (...) Il pogrom 
                  è stato messo in atto dagli albanesi stranieri. Loro parlano 
                  una lingua diversa. Un altro dialetto. Non posso garantire al 
                  cento per cento che siano soltanto gli albanesi d'Albania a 
                  farlo, ma non ho visto neppure un albanese di Pristina compiere 
                  una vendetta contro un vicino di casa. (...)
 Noi non siamo stati cacciati dagli albanesi di Pristina, ma 
                  da quelli venuti dall'Albania. È la stessa gente che alcuni 
                  anni fa dimostrava in Albania e che stava demolendo l'intero 
                  paese. Adesso, sono venuti in Kosovo. Nessuno li sta fermando. 
                  La Kfor è lì, vede tutto e permette di fare ciò che hanno fatto. 
                  La popolazione si aspettava davvero protezione dalle truppe 
                  Kfor. Ma invece di difendere la popolazione, sono rimasti a 
                  guardare, e tra giugno e luglio almeno trecentomila abitanti 
                  non albanesi hanno dovuto lasciare il Kosovo.
 Persino molti kosovari albanesi hanno avuto grossi problemi, 
                  non solo chi era contrario al separatismo, ma persino chi si 
                  è limitato a non sostenerlo". C'è una domanda su cui Cedda Prlincevic 
                  sembra reticente, quasi imbarazzato, tanto che Jared Israel 
                  gliela pone più volte: riguarda le notizie della stampa sulle 
                  atrocità compiute dall'esercito yugoslavo contro gli albanesi 
                  durante i bombardamenti. Infine, il presidente della comunità 
                  ebraica dice: "Anche se ne parlassi, nessuno ormai si fida più 
                  dei serbi. Persino se affermassi che non è accaduto, nessuno 
                  crederebbe ai serbi. E se un ebreo di Pristina dicesse che questa 
                  accusa è falsa, sarebbe molto difficile per lui essere creduto."
    L'uranio negato
 La guerra in Kosovo ha colpito quasi esclusivamente i civili 
                  - si calcola che siano soltanto 13 (tredici!) i carri armati 
                  serbi distrutti dalla Nato, mentre oltre duemila i civili uccisi 
                  dai bombardamenti. Ma questo bilancio, per quanto spaventoso, 
                  è poca cosa al confronto delle conseguenze terrificanti che 
                  si verificheranno negli anni a venire, e che colpiranno le future 
                  generazioni per decenni e forse per secoli. Perché la guerra 
                  "umanitaria" in Kosovo non è stata assolutamente di tipo "convenzionale", 
                  cioè con l'uso di armi "previste" dalla Convenzione di Ginevra, 
                  bensì chimico-nucleare. Infatti, come in Irak, anche contro 
                  la Serbia - e sul territorio kosovaro, cioè quello che si diceva 
                  di voler "liberare" - sono stati impiegati proiettili e missili 
                  con testate all'uranio cosiddetto "impoverito" (Depleted Uranium), 
                  ottenuti rifondendo le scorie delle centrali nucleari. Solo di recente, in seguito a una precisa richiesta dell'Onu, 
                  la Nato ha ammesso - il 7 febbraio 2000, in una breve lettera 
                  del segretario generale George Robertson a Kofi Annan - di aver 
                  lanciato durante il conflitto almeno 31.000 (trentunomila) proiettili 
                  all'uranio, senza però specificare che le ogive dei missili 
                  Tomahawk sono anch'esse a base di Depleted Uranium. Soltanto 
                  lungo la strada che collega Pec a Prizren, dove attualmente 
                  sono dislocati i militari italiani della Kfor, si calcola in 
                  oltre dieci tonnellate il quantitativo di uranio lanciato sul 
                  terreno.
 Per gli Stati Uniti, che si ritrovano con almeno 500.000 tonnellate 
                  di scorie radioattive da smaltire dalle proprie centrali nucleari, 
                  il riciclaggio sotto forma di proiettili e testate di missili 
                  è un doppio business: si "distribuiscono" all'estero rifiuti 
                  altrimenti costosissimi da stoccare e isolare, e si ottiene 
                  un'arma letale, infinitamente più efficace delle munizioni convenzionali. 
                  Infatti, un proiettile all'uranio, che pesa il doppio del piombo 
                  ma è estremamente più denso e duro, all'impatto con la corazza 
                  di un mezzo blindato brucia ad altissima temperatura fondendo 
                  qualsiasi metallo, e incenerisce all'istante gli occupanti chiusi 
                  all'interno.
 Bruciando, l'uranio si trasforma in finissime particelle di 
                  ossido radioattivo, che si spargono nell'atmosfera e quindi 
                  ricadono al suolo. Ogni particella inalata crea cellule cancerogene 
                  nei polmoni e nel sangue, successivamente, sotto forma di polvere 
                  impalpabile, penetra nelle falde acquifere ed entra nel ciclo 
                  alimentare. È' stato calcolato che ogni missile Tomahawk con 
                  testata all'uranio può causare in media 1620 casi di tumore 
                  nella popolazione che vive intorno al punto in cui è esploso.
 Un volontario di una ONG italiana ha prelevato nel gennaio di 
                  quest'anno un campione di terra nella città di Novi Sad e lo 
                  ha fatto analizzare al suo rientro in Italia: ne è risultata 
                  una radioattività da isotopo 238 - quello presente nel Depleted 
                  Uranium a uso bellico - addirittura 1000 (mille!) volte superiore 
                  al limite considerato accettabile per gli esseri umani. Oggi 
                  sono ormai novantamila i veterani della guerra contro l'Irak 
                  del 1991 che, per l'esposizione alle polveri di ossido di uranio 
                  provocate dal lancio di proiettili anticarro e missili antibunker, 
                  accusano sintomi riconducibili alla cosiddetta "Sindrome del 
                  Golfo": molti sono già deceduti per leucemia, tumori linfatici 
                  e polmonari, i loro figli sono nati con gravissime malformazioni, 
                  mentre un gran numero di sopravvissuti è costretto a un'esistenza 
                  enormemente pregiudicata, con costanti dolori alle ossa, nausea, 
                  vertigini e stanchezza spossante.
 Dato che gli effetti per l'inalazione e l'ingestione di ossido 
                  di uranio si manifestano nel medio e lungo periodo, tra qualche 
                  anno avremo un lungo elenco di militari della Kfor che denunceranno 
                  i propri governi chiedendo un risarcimento (proprio in questi 
                  giorni si è diffusa la notizia dei primi due militari italiani 
                  morti di leucemia dopo essere stati inviati in Bosnia, tra il 
                  novembre del '98 e l'aprile del '99, in una zona contaminata 
                  da proiettili all'uranio). Ma la popolazione serba e kosovara, 
                  i bambini che nasceranno con gravissime malformazioni, le madri 
                  condannate al cancro, gli operai delle fabbriche distrutte che 
                  per primi hanno tentato di ricostruirle esponendosi alla contaminazione, 
                  i contadini kosovari "liberati" che avranno ingerito acqua e 
                  cibi tossici a loro insaputa, tutte le vittime innocenti di 
                  questa "guerra umanitaria", a chi chiederanno un risarcimento? 
                  E in quali ospedali potranno sperare di farsi curare, e con 
                  quali medicine, in un paese devastato dalle bombe prima e stremato 
                  poi dall'embargo, o in un Kosovo governato dalla mafia del narcotraffico?
   Mostar, il ponte ieri... prima della guerra.
  Mostar, il ponte oggi... dopo la guerra.
    Occhio alle cluster-bombs
 Tutto questo, per vedere il regime di Milosevic più forte di 
                  un anno fa, con le opposizioni progressiste delle città duramente 
                  colpite dai bombardamenti a risultare le vere forze sconfitte 
                  e ridotte al silenzio. Infine, l'Italia sopporterà il peso più 
                  oneroso tra i paesi che hanno partecipato a questa sciagurata 
                  alleanza. Oltre all'inquinamento ambientale che ci colpirà nel 
                  lungo periodo - prima toccherà agli altri paesi balcanici e 
                  alla Grecia, dove già si registrano impennate nei tassi di radioattività 
                  - l'Adriatico è infestato di ordigni pericolosissimi, le famigerate 
                  cluster-bombs a frammentazione, ufficialmente vietate dalla 
                  Convenzione di Ginevra e successivamente da quella di Ottawa. 
                  Le cluster-bombs sono micidiali ordigni che esplodono al contatto 
                  con il terreno solo parzialmente, infatti si calcola che circa 
                  il 30 per cento rimane inesploso ma attivo, pronto a deflagrare 
                  appena il singolo cilindro - poco più grande di due lattine 
                  di birra - viene rimosso. Decine di migliaia, forse centinaia 
                  di migliaia di cluster-bombs (ogni singolo contenitore a forma 
                  di serbatoio subalare ne racchiude circa duecento) sono state 
                  sganciate in mare dagli aerei della Nato al rientro dalle missioni, 
                  su preciso ordine dei comandi per "questioni di sicurezza" (evitando 
                  di atterrare negli aeroporti con quel carico potenzialmente 
                  devastante). Non passa giorno senza che i pescatori del Veneto, 
                  della Romagna, delle Marche, della Puglia, di tutte le regioni 
                  costiere, ne segnalino la presenza tra le reti tirate in secco, 
                  e sono già diversi i feriti gravi per le esplosioni avvenute 
                  a bordo o poco distante dai pescherecci. E la Nato continua 
                  a rifiutarsi di indicare con precisione i punti in cui sono 
                  state sganciate. In effetti, nelle migliaia di incursioni aeree 
                  effettuate, risulta ormai impossibile stabilire dove e quante 
                  siano, le cluster-bombs finite sul fondo del mare divenuto tra 
                  i più inquinati al mondo, nelle cui acque, tra l'altro, riposa 
                  ancora l'intero carico in bidoni di gas nervino di una nave 
                  statunitense affondata dai tedeschi nei pressi del porto di 
                  Bari (ufficialmente non dovrebbe esistere, perché "ufficialmente" 
                  gli Alleati non hanno usato gas nervino nella Seconda guerra 
                  mondiale...).
  Forse, un giorno, nelle università dei nostri paesi, facoltà 
                  di Scienze Politiche, si studierà l'inesplicabile, assurdo caso 
                  di un'Europa che contribuì, nel lontano 1999, a destabilizzare 
                  se stessa e a condannare intere generazioni ad affrontare la 
                  più subdola e pericolosa delle forme di inquinamento letale.  Pino Cacucci
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