|  Perché 
                  odiate i comunisti?
  Spett. le Editrice Asono un iscritto a Rif. Comunista di Torino, ma ho dei dubbi, 
                  ora che la sto frequentando di più, circa la sua ideologia 
                  e le persone che la frequentano. Insomma, mi sembrano dei piccolo-borghesi. 
                  Vorrei ricevere, se possibile, una copia, anche vecchia, della 
                  vostra rivista, per capire meglio cos'è l'anarchia, dato 
                  che ognuno (sia anarchici che non) mi dà la sua informazione, 
                  che spesso è opposta a quella dell'altro, etc.
 Aggiungendo che ho visto la vostra "pubblicità" 
                  sul Manifesto, che sono anticapitalista e che cerco di 
                  non diventare piccolo-borghese, anche se è molto dura, 
                  vorrei capire meglio alcune cose, e cioè:
 - come mai, dato che siete in pratica le due uniche forme anticapitaliste 
                  rimaste, voi e i comunisti vi odiate così tanto?
 - quali sono le editrici che pubblicano vostri libri, cioè 
                  di scritti anarchici o filo-comunisti. Io, se ho capito bene, 
                  penso che adesso la CLUP o la Bertani lo possono essere.
 - ho letto un libro di un certo Manlio Cancogni sulla storia 
                  degli anarchici Gli angeli neri, ma penso che sia però 
                  un libro per "sputtanarli" che altro.
 - i libri che preferisco sono in genere quelli della Scuola 
                  di Francoforte (Marcuse, Frann, etc;) e di Pasolini, specie 
                  Scritti Corsari.
 Insomma, secondo me, per sconfiggere il dominio culturale borghese 
                  bisogna (ri)partire dal popolo, nel senso di gente a cui il 
                  messaggio borghese non è arrivato, o comunque non lo 
                  adotta anche se penso che bisogna cercarli lontano dall'Europa 
                  (c'è ancora il "popolo" in Europa?).
 Spero, quando potrete, di ricevere una risposta sugli argomenti 
                  che ho trattato qui molto in breve, per capire se c'è 
                  un'organizzazione che la pensa più o meno come me, o 
                  se invece devo fare da solo.
 Grazie dell'attenzione e saluti
  Salvatore B.(Torino)
  Risponde 
                  Massimo Ortalli
 Caro Stefano B.,ti sono grato per la tua lettera. Lo sono perché, essendomi 
                  stato chiesto di rispondere alle tue domande semplici e dirette, 
                  mi fornisci l'occasione per tornare a riflettere e a ragionare 
                  su alcune delle questioni fondamentali che riguardano l'identità 
                  anarchica.
 Vedi, a noi che abbiamo da tempo sedimentato le tematiche dell'anarchismo, 
                  capita raramente di domandarci come ci differenziamo rispetto 
                  ai principi socialisti di matrice marxista. Infatti fa ormai 
                  parte del nostro "codice genetico" considerare in 
                  termini di radicale separatezza le due scuole di pensiero socialiste, 
                  quella cosiddetta autoritaria e quella cosiddetta antiautoritaria 
                  o libertaria.
 Eppure, non è sempre stato così, anzi: in Italia 
                  e in molti altri paesi anarchismo e socialismo sono nati da 
                  un ceppo comune e, a lungo, hanno marciato insieme senza drammatici 
                  contrasti, sulla strada dell'emancipazione del proletariato. 
                  Nel nostro paese, in particolare, il socialismo è nato 
                  anarchico, vuoi per la diretta influenza di Michele Bakunin, 
                  avversario di Marx e tenace assertore dei principi antiautoritari, 
                  vuoi per le particolari condizioni sociali dell'Italia, in cui 
                  il senso dello Stato e dell'appartenenza ai suoi valori da parte 
                  dei ceti più deboli non era affatto un sentimento diffuso 
                  come, al contrario, avveniva in Germania o in Inghilterra.
 Penso che questa origine comune sia ciò che ha permesso 
                  ad anarchici e socialisti di percorrere lunghi tratti di strada 
                  affratellati da una ipotesi di società futura tutto sommato 
                  coincidente: i primi confidando nei metodi rivoluzionari dell'azione 
                  diretta e del rifiuto della delega, i secondi convinti della 
                  possibilità di impadronirsi degli strumenti istituzionali 
                  coi quali sovvertire le regole e i capisaldi della società 
                  capitalista. A lungo i socialisti hanno sostenuto che, così 
                  come per gli anarchici, il loro fine ultimo era l'edificazione 
                  di una società senza stato e senza apparati di governo, 
                  contando però di perseguire tale scopo utilizzando anche 
                  quelle pratiche riformiste che il sistema capitalista concedeva 
                  ai sovversivi.
 Indubbiamente tale posizione, contraddittoria ma convincente, 
                  fu oggetto di strumentalizzazioni e mistificazioni da parte 
                  dei suoi assertori, eppure il vecchio partito socialista continuava 
                  a propagandare e diffondere questi principi. Principi che nel 
                  tempo risultavano sempre più annacquati e secondari, 
                  ma che sostanzialmente non furono mai rinnegati in modo definitivo. 
                  Appare chiaro che questa contraddizione era avvertita da tutti, 
                  né si tacevano le inevitabili conseguenze che avrebbero 
                  portato le due anime del socialismo su strade sempre più 
                  lontane. Eppure, soprattutto fra i militanti di base, fra coloro 
                  cioè che quotidianamente misuravano le loro aspirazioni, 
                  i loro mezzi e le loro energie nella lotta comune contro il 
                  padronato e contro uno stato opprimente e autoritario, permaneva 
                  questo "comune sentire" che faceva emergere più 
                  ciò che univa che non ciò che separava.
 Questa situazione, fatta di rapporti spesso conflittuali ma 
                  mai permeata di astio o addirittura - come dici - di odio, perdurò 
                  fino a quando la rivoluzione bolscevica del 1917 non spazzò 
                  definitivamente ogni possibilità di collaborazione paritaria 
                  fra le diverse scuole del socialismo. Fra i tanti danni che 
                  le concezioni autoritarie ed assolutiste dei comunisti russi 
                  apportarono all'idea stessa di socialismo (nonostante l'apparente 
                  edificazione di una società "socialista") vi 
                  fu anche quello che determinò l'impossibilità 
                  sostanziale di trovare una qualsiasi forma di accordo fra anarchici 
                  e libertari da una parte e comunisti autoritari dall'altra.
 Partendo da una concezione basata sul primato assoluto del partito 
                  rispetto ad ogni altra istanza, sulla impossibilità di 
                  un confronto con altre linee politiche ritenute "oggettivamente" 
                  controrivoluzionarie, sulla necessità di costruire a 
                  qualsiasi costo uno stato forte per far fronte all'accerchiamento 
                  capitalista, sulla inopportunità dell'opposizione da 
                  sinistra perché solo il partito deteneva il monopolio 
                  della "linea", il partito bolscevico, basato sulla 
                  ortodossia marxista irrigidita dal leninismo, diede vita a un 
                  mostro: un mostro che costruì uno stato-caserma oppressore 
                  ed autoritario come il regime zarista che aveva distrutto, un 
                  mostro sociale che divorò i suoi stessi figli, i suoi 
                  figli migliori, immolandoli sull'altare della ragion di stato. 
                  E a mio parere lo stalinismo non fu la degenerazione imprevedibile 
                  dell'altrimenti corretta linea marxista leninista, ma fu la 
                  logica conseguenza del percorso brutalmente autoritario intrapreso 
                  già da Lenin e da Trotzky. Un percorso che tollerava 
                  l'esistenza di altre forze di sinistra quando motivi tattici 
                  ne richiedevano l'alleanza, ma che le combatteva fino alla definitiva 
                  soppressione fisica qualora le "circostanze" lo richiedessero 
                  e i rapporti di forza lo permettessero. Mentre sul piano economico 
                  il regime comunista si sostituiva al capitalismo nella proprietà 
                  dei mezzi di produzione, impedendo al proletariato ogni ipotesi 
                  autogestionaria, sul piano politico si eliminava qualsiasi espressione 
                  di dissenso. E, dato che "le disgrazie non vengono mai 
                  sole", tutto il movimento comunista internazionale, Pci 
                  in testa, si adeguò a questa metodologia e prese a combattere, 
                  con la ferocia del servo, chi si sottraeva alla tutela dell'URSS.
 All'interno di questo scontro, come comprenderai, non poteva 
                  non nascere un forte sentimento di disprezzo e di distacco da 
                  parte anarchica e libertaria. Disprezzo e distacco che nasceva 
                  dai massacri degli anarchici (sbrigativamente giudicati controrivoluzionari 
                  perché contrari alla soffocante autorità dei comunisti) 
                  compiuti prima in Russia e poi, massicciamente, in Spagna, e 
                  che continuarono con la calunnia e la menzogna sistematica, 
                  nel tentativo di cancellare anche dalla storia la presenza dell'anarchismo. 
                  Del resto, questa durissima repressione era, dal punto di vista 
                  dei comunisti, una ineludibile necessità. Avvolti nella 
                  contraddizione di continuare a parlare di emancipazione del 
                  proletariato e di protagonismo della classe operaia, mentre 
                  dovevano sostenere (vedi il Lenin di Stato e Rivoluzione) l'ipotesi 
                  dell'estinzione dello stato grazie alla graduale realizzazione 
                  della società socialista, i partiti comunisti non potevano 
                  accettare la costante presenza della coscienza critica dell'anarchismo. 
                  Man mano che lo stato sovietico si andava ingigantendo soffocando 
                  ogni prospettiva di autonomia, man mano che il regime andava 
                  accentuando le proprie caratteristiche poliziesche e burocratiche, 
                  i postulati anarchici basati sulla rinunzia alla delega, sull'autonomia 
                  della classe lavoratrice all'interno del ciclo produttivo, sul 
                  rifiuto di ogni costrizione delle potenzialità creative 
                  del proletariato, apparivano chiaramente nella loro potenziale 
                  pericolosità per la stabilità del regime. E che 
                  non sia sbagliato quello che ti sto dicendo, lo dimostra il 
                  fatto che gli storici di matrice marxista, di fronte al rovinoso 
                  e indecoroso fallimento dell'esperienza sovietica, sono costretti 
                  ad ammettere oggi quello che noi andiamo sostenendo dall'ormai 
                  lontano 1918.
 Tu parli di odio, e come vedi motivi per odiare chi ha inteso 
                  il socialismo come l'imposizione forzata delle proprie teorie, 
                  senza badare alla qualità etica dei mezzi impiegati e 
                  ai danni che andavano producendo all'interno del socialismo 
                  internazionale con l'imposizione violenta e forzata di metodi 
                  autoritari, i motivi, dicevo, non mancherebbero. Eppure penso 
                  che sia sbagliato parlare di odio. Per prima cosa non possiamo 
                  dimenticare che le degenerazioni del comunismo autoritario, 
                  nonostante tutto, erano rese possibili dalla convinzione di 
                  agire negli interessi del proletariato, e come tali trovavano 
                  la loro ragion d'essere in un "interesse superiore" 
                  che poteva giustificare ogni barbarie; se a parer nostro questo 
                  discorso è inaccettabile, non possiamo comunque ignorare 
                  come, fra i militanti di base dei partiti comunisti, imbottiti 
                  da una propaganda enfatica e soffocante, fosse comune questo 
                  modo di ragionare. Del resto, ancora oggi, in parecchie occasioni 
                  noi e i militanti del tuo partito ci veniamo a trovare dalla 
                  stessa parte dello schieramento, di quello schieramento anticapitalista 
                  che citi nella tua lettera. Naturalmente, beninteso, non si 
                  tratta di schieramento politico, bensì di schieramento 
                  sociale. Sui posti di lavoro, nelle scuole e all'università, 
                  all'interno delle organizzazioni del sindacalismo di base, negli 
                  scioperi, nelle manifestazioni pacifiste, anarchici, rifondatori 
                  e libertari si ritrovano fianco a fianco a partecipare a una 
                  lotta per tanti aspetti comune. Se davvero fosse l'odio il sentimento 
                  dominante, tutto questo non potrebbe certo succedere. Piuttosto, 
                  come dicevo più sopra, credo si debba parlare di distacco, 
                  di un profondo e incolmabile distacco. Del distacco che non 
                  può non esserci fra chi aspira ad un mondo migliore senza 
                  pretese egemoniche e chi, al contrario, nonostante tutto e nonostante 
                  tutti, è ancora profondamente convinto di possedere la 
                  verità rivelata.
 Mi rendo conto di essermi molto dilungato su una parte della 
                  tua lettera, quella che, a mio parere, richiedeva una risposta 
                  più esauriente, e questo ha inevitabilmente tolto spazio 
                  ad altre riflessioni che pure andrebbero fatte. Comunque voglio 
                  almeno accennare ad altre tue osservazioni.
 Come osservi giustamente, il libro di Cancogni, un giornalista 
                  e scrittore che ha goduto di una certa fama, è sicuramente 
                  un libro mediocre, spesso impreciso e superficiale, attento 
                  più agli aspetti folcloristici e di costume che non ai 
                  criteri della ricerca storica. Se sei interessato a capire meglio 
                  la natura e la storia del movimento anarchico, i buoni libri 
                  e le buone case editrici non mancano, e qui voglio segnalarti 
                  qualche titolo e qualche indirizzo: Masini e Antonioli, Il 
                  sol dell'avvenire; Masini, Storia degli anarchici in 
                  due volumi; Berti, Un'idea esagerata di libertà; 
                  Luce Fabbri, Luigi Fabbri storia di un uomo libero, Le 
                  Edizioni Zero in Condotta (viale Monza, 255 - 20126 Milano), 
                  Elèuthera (C.P. 17005 - 20170 Milano), Biblioteca Franco 
                  Serantini (C.P. 247 - 56100 Pisa), Samizdat (c/o Paolo Natarfranchi, 
                  via Milite Ignoto, 72 - 65100 Pescara), La Fiaccola (c/o Elisabetta 
                  Medda, via Nicotera, 9 - 96017 Noto - Sr). Nelle pagine di questi 
                  libri e nei cataloghi di questi editori potrai trovare la vita 
                  di militanti straordinari e la storia di un movimento di emancipazione 
                  sociale che ancora oggi riesce a contrapporre le proprie istanze 
                  di liberazione ed emancipazione, basate sulla solidarietà 
                  e la libera associazione, a quello che definisci il dominio 
                  culturale borghese. Dominio che purtroppo non è solo 
                  culturale, ma anche economico e politico. Fortunatamente, anche 
                  in questa epoca di pensiero unico, la partita non si è 
                  ancora chiusa, ma permangono gli spazi per far sentire, insieme, 
                  la nostra irriducibile opposizione.
 Un saluto fraterno
  Massimo Ortalli  Sulla 
                  critica letteraria
  Caro Felice Accame,salve! Mi presento. Mi chiamo Paolo Chiocchetti, ho 17 anni, 
                  sono studente (al liceo classico, ahinoi) ed abito a Trento. 
                  Tra le altre cose sono molto interessato al pensiero anarchico, 
                  da un anno lettore di A-Rivista anarchica e, seppur senza 
                  avere idee definite su tutti gli aspetti del problema, politicamente 
                  socialista libertario.
 Ti scrivo per chiederti chiarimenti su una questione che mi 
                  ha molto incuriosito, da te affrontata sul n. 255 (Giugno) di 
                  A.
 Nel tuo articolo "Cavalli di Troia massmediatici" 
                  polemizzi con l'accettazione culturale da parte delle riviste 
                  "di opposizione" delle forme e degli schemi artistici 
                  ed ideologici propri della cultura del sistema, borghese. Questa 
                  tua riflessione mi ha molto colpito: quando noi cerchiamo di 
                  sviluppare un discorso "alternativo", solitamente 
                  compiamo l'errore di scendere sullo stesso piano dei nostri 
                  avversari, implicitamente accettando la loro autorità 
                  ed interiorizzando le loro categorie. "All'orizzonte c'è 
                  il successo di intellettuali che replicheranno il mondo al quale 
                  dicono di volersi ribellare". Sai, non ci avevo mai pensato 
                  in termini così estesi. Ma mi rendo conto del carattere 
                  apertamente anarchico di quello che dici: è la trasposizione 
                  sul piano artistico-letterario della classica polemica contro 
                  l'idea della "presa del potere" marxista.
 Però mi sorgono alcuni dubbi. O meglio, mi piacerebbe 
                  che tu approfondissi la tua analisi ed esponessi le tue opinioni 
                  riguardo alla "funzione storica e sociale della critica 
                  letteraria" e più in generale a come possano gli 
                  scrittori ispirarsi (e "venir fuori") alla "cultura 
                  proletaria".
 Quest'ultimo aspetto colpisce particolarmente la mia attenzione, 
                  perché nel tempo libero spesso scrivo articoli o racconti 
                  (sono anche un redattore del giornalino scolastico del nostro 
                  maligno istituto). E parecchie volte mi sono fermato a riflettere 
                  sul tipo di linguaggio da utilizzare (preciso ma elitario o 
                  popolare da povero), sul pubblico (l'utilità di uno scritto 
                  di critica sociale, se poi i lettori non sono quasi mai "veri" 
                  proletari, quelli che dovrebbero essere i soggetti principali 
                  del cambiamento), su certi caratteri alienati e patriarcali 
                  della lingua (vedi Avere o essere? di Fromm o il plurale 
                  al maschile...), sulla figura dell'autore (i letterati sono 
                  sempre borghesi...).
 Mi pare ovvio che la cultura dovrà risultare vivificata 
                  dall'apporto del popolo, e non impoverita... Ma non sono mai 
                  riuscito a risolvere i miei dubbi, continuando a scrivere "normalmente", 
                  secondo i canoni usuali.
 Perciò, ti sarei grato (se ne hai il tempo, ovviamente) 
                  se mi esponessi le tue riflessioni su queste tematiche (a me 
                  direttamente su A, rimandandomi ad eventuali tuoi scritti pubblicati...)
 Grazie mille!
 Saluti libertari
  Paolo Chiocchetti(Trento)
  Risponde 
                  Felice Accame
 Ringrazio Chiocchetti per essersi soffermato su quanto scrivevo: 
                  nel fare checchessia, foss'anche con le più rivoluzionarie 
                  intenzioni, troppo spesso ci modelliamo sull'esistente. E l'esistente 
                  è l'esito di idee, interessi e pratiche di chi comanda 
                  ferma restando la sua volontà di continuare a comandare.Non è questione limitabile di ambito, perché l'artistico-letterario 
                  attiene al politico tanto quanto una legge, un consiglio per 
                  gli acquisti del mentecatto televisivo di turno e l'unghia laccata 
                  di verde dell'ultima pornostar (o della nostra mamma). Montalban 
                  fa dire al suo detective Pepe Carvalho (in Storie di fantasmi, 
                  Feltrinelli, Milano 1999) che la critica letteraria è 
                  un fenomeno parassitario. Lo fa dire ad un personaggio, perché 
                  lui direttamente, come persona, non può dirlo, visto 
                  che del sistema editoriale - che include chi scrive, chi pubblica, 
                  chi legge, chi vive del plus valore artificioso fatto scaturire 
                  dal rapporto fra costoro - fa parte. Non volendo rimanere al 
                  livello della mera arguzia intellettuale, della critica letteraria 
                  e attività similari sarebbe opportuno segnalare altresì 
                  la mancanza di metodo - di un metodo esplicitato, ripetibile 
                  - non disgiunta dall'ineliminabile protervia di istituire gerarchie 
                  di valori i cui criteri, per la maggior parte, rimangono impudicamente 
                  inespressi. E occorrerebbe chiedersi pure il perché di 
                  tutto ciò: come mai un'istituzione così conciata, 
                  al mondo - a questo mondo - , vada bene lo stesso. Perché 
                  se della medesima attrezzatura si dovessero servire l'idraulico 
                  o il falegname, per fare soltanto due esempi di sapere, è 
                  certo che il loro successo sociale tenderebbe allo zero, mettendone 
                  presto in forse la riproduzione.
 È grazie a queste considerazioni, dunque, che mi guardo 
                  bene, a mia volta, dall'assumere atteggiamenti normativi - e 
                  nei confronti del bello estetico, e nei confronti dei linguaggi 
                  che dovrebbero veicolarlo. Il linguaggio designa pensiero. La 
                  comunicazione umana è tale allorché si mette qualcosa 
                  "in comune", ovvero quando si riesce a far condividere 
                  all'altro almeno qualcosa del proprio operare mentale. Di questo 
                  - innanzitutto di questo - mi sembra opportuno preoccuparsi.
  Felice Accame  No 
                  Muccioli
  Al sindaco del Comune di Rimini dott. Alberto Ravaioli  La proposta del Comune di Rimini di dedicare una via a Vincenzo 
                  Muccioli ci trova del tutto in disaccordo. Muccioli con la sua 
                  morte ha portato via con se tutta una serie di misteri sui danni 
                  provocati dai suoi "metodi di recupero" adottati nella 
                  comunità terapeutica di S. Patrignano sui tossicodipendenti. 
                  Metodi basati fortemente sulla coercizione, non sottoposti a 
                  nessun tipo di controllo, non supportati da statistiche sulla 
                  loro effettiva efficacia, ma soprattutto causa di numerosi soprusi, 
                  su tutti quelli che hanno portato alla morte di Roberto Maranzano 
                  ucciso a calci e pugni all'interno di quel luogo verso il quale 
                  nutriva forti speranze di ricostruirsi una vita.Crediamo che dedicargli una via sia un atto fortemente lesivo 
                  nei confronti di Roberto e delle altre persone vittime delle 
                  stesse violenze, nonché nei confronti di chi si occupa 
                  di determinate problematiche nel pieno rispetto della dignità 
                  umana e delle comuni regole di convivenza.
 Per questo chiediamo che quella via venga dedicata alla memoria 
                  di Roberto Maranzano.
  Luca Santarelli(Rimini)
  Noi 
                  e gli animali
  Rispondo a Luca Bini, che sullo scorso numero si è 
                  arrabbiato perché ho definito (su "A" 255, 
                  giugno '99) "sciocchezza piccolo borghese" e "perdita 
                  di tempo" l'animalismo (e anche il liberalismo, per completezza 
                  di cronaca). Vorrei ricordare che questo è avvenuto all'interno 
                  di una mia lettera sulla guerra in Jugoslavia (o meglio in ciò 
                  che rimaneva) che era più che altro uno sfogo, e che, 
                  tra l'altro, non pensavo neanche venisse pubblicato.Questo non per "scaricare il barile" sulla gentile 
                  redazione di "A" ma per onor del vero. Mi rendo conto 
                  che quanto da me scritto poteva suonare offensivo, e se qualcuno 
                  si è offeso mi scuso, ma credo anche che estrapolare 
                  frasi dal contesto (e dallo stato d'animo) sia un'operazione 
                  non del tutto corretta.
 Questo per la precisione, come direbbe un noto personaggio televisivo. 
                  Dopodiché, visto che mi si chiede di motivare la mia 
                  frase, confermo nella sostanza quello che ho scritto. Per quanto 
                  mi riguarda non riesco a vedere nell'animalismo alcunché 
                  di filosoficamente interessante, di scientificamente valido, 
                  e di ideologicamente rivoluzionario. E neanche di eticamente 
                  condivisibile.
 Purtroppo mettere sullo stesso piano un cavallo, una zecca e 
                  un essere umano, non mi sembra motivato né giusto, sia 
                  per la zecca, sia per il cavallo, sia per l'essere umano. Le 
                  differenze ci sono, e risalgono ad alcune decine di migliaia 
                  d'anni fa, quando un nostro progenitore è sceso dall'albero 
                  e ha iniziato a manipolare l'ambiente. A costruire villaggi, 
                  ponti città castelli fabbriche ferrovie. Cose che un 
                  cavallo non mi risulta sappia fare. Anche se può aiutare 
                  a fare. Ma perché è diretto dall'uomo. Il contrario 
                  non mi risulta, ahimè.
 Questo non vuol dire che non bisogna rispettare gli animali, 
                  ma da qui a metterli sullo stesso piano con gli uomini, ce ne 
                  passa. E poi scusa perché bisogna rispettare gli animali 
                  e le piante no? Non ho mai capito perché i vegetariani, 
                  contrari a nutrirsi di esseri viventi (animali) si nutrano di 
                  altri esseri viventi (vegetali) che nascono e muoiono. Magari 
                  nella pancia di un animalista convinto. E sì perché 
                  una necessità biologica, non ha nulla a che vedere con 
                  un dominio sociale. Mi sembra cosa assolutamente ovvia. Fa parte 
                  della natura di una zanzara suggermi il sangue e lasciarmi dei 
                  fastidiosi bozzi per dei giorni, e fa parte della mia natura 
                  schiacciarla con uno di quei periodici che sono pieni di cazzate 
                  ma sono utili alla bisogna. Né più né meno.
 Purtroppo fa parte della natura che ci siano i carnivori e gli 
                  erbivori. Si chiama equilibrio naturale. Se ci fossero solo 
                  gli uni o gli altri ci sarebbe un bel disastro ecologico. E 
                  poi, anche se diventassimo tutti vegetariani, e nessuno cacciasse 
                  più, per ciò solo elimineremmo il dominio tra 
                  gli uomini? Non credo proprio, d'altro canto Hitler era vegetariano 
                  e in America si sono commossi tutti per due balenotteri che 
                  rischiavano di morire. I condannati a morte non commuovono invece 
                  nessuno, pare.
 Naturalmente anch'io non comprerei pellicce vere (finte si può, 
                  vero?) e sono contrario alla vivisezione, però. Però 
                  non posso che allibire di fronte a concetti come quelli che 
                  ho trovato proprio su "A" un paio di anni fa , in 
                  cui, un compagno di cui, per sua fortuna, non ricordo il nome 
                  scrisse una frase del genere " preferisco morire che essere 
                  curato da una cura trovata grazie al sacrificio anche di un 
                  singolo animale". Ora, per me uno può pure buttarsi 
                  al fiume, come suol dirsi, se crede, e se lo trova eticamente 
                  giusto, ma perché condannare alla morte anche milioni 
                  di persone che non condividono tali discutibilissime concezioni 
                  etiche? Come si fa a mettere sullo stesso piano vite di esseri 
                  umani e di animali? Se quel compagno avesse una persona cara 
                  gravemente malata, penso proprio che non direbbe simili, e stavolta 
                  ci sta tutto, sciocchezze. Sulla caccia poi, vi dico, ero contrarissimo, 
                  poi ho parlato con un cacciatore, una persona seria e intelligente 
                  (e sì ne esistono) e mi fece notare che è molto 
                  più dannoso per la natura e la salute l'inquinamento 
                  che causa tumori e malattie che non la caccia. Purché 
                  venga fatta nel rispetto delle norme e della natura. Infine, 
                  per chiudere, io sono francamente spaventato dal dogmatismo 
                  e fanatismo che spesso ho potuto vedere in certi settori dell'Animalismo.
 A me va bene tutto, mangiate quel che vi pare mettetevi le scarpe 
                  di gomma e tutto quanto, basta che non si spacci una moda per 
                  una rivoluzione e che non si avveleni qualcuno per una causa 
                  che forse non è la più importante del mondo. E 
                  a proposito della tua ultima notazione sull'uso dell'epiteto" 
                  "piccolo borghese" mi rendo conto che ciò che 
                  ho scritto fa molto "marxista-leninista" ma mi rendo 
                  anche conto che, come si dice a Roma, non me ne può fregà 
                  de meno. Anche perché 1) l'uso della parola da parte 
                  mia si riferisce all'aspetto culturale, cioè è 
                  piccolo borghese dare importanza spropositata a cose relativamente 
                  importanti.
 2) Mi sembra proprio che questo tipo di problematiche riguardano 
                  i paesi ricchi e straricchi del capitalismo avanzato, non certo 
                  dove hanno altri tipi di problemi più "terra terra". 
                  Dove sono meno borghesi appunto.
 E d'altro canto mi sembra che l'animalismo abbia notevoli seguaci 
                  fra i rappresentanti del jet-set internazionale (vedi modelle, 
                  Duchesse ecc,ecc).
 So anche che scrivere tutto ciò mi renderà antipatico 
                  a molti lettori, ma come diceva G. Orwell "la libertà 
                  è dire quello che la gente non vuole sentire"
  Paolo Scarioni(Milano)
  Noi 
                  anarchici di Belgrado
  I problemi nei Balcani sono sempre stati provocati dall'esterno, 
                  nella gran parte dei casi dalle cosiddette grandi potenze o 
                  da un intervento straniero. Hanno raggiunto i limiti estremi 
                  nelle invasioni, per esempio in quelle dell'impero ottomano, 
                  dell'impero austro-ungarico, degli eserciti nazista e fascista 
                  tedesco e italiano e, come succede oggi, con l'aggressione della 
                  NATO contro la Jugoslavia. La disintegrazione della cosiddetta 
                  seconda Jugoslavia (1945-1992) è venuta anche in seguito 
                  alle pressioni esterne coniugate a un occulto o palese sostegno 
                  diplomatico, economico e militare a vari movimenti nazionalisti 
                  e secessionisti. La crisi attuale nel Kosmet (Kosovo e Metohija) 
                  o Kosovo è il frutto di una insistita strumentalizzazione 
                  della minoranza etnica albanese presente in Jugoslavia. Dal 
                  tardo medioevo all'inizio del XX secolo, gli albanesi sono stati 
                  spinti, dalla pressione del governo turco, a popolare la regione 
                  del Kosmet, per sbarazzarsi o sradicare i serbi che vivevano 
                  lì da secoli. Il Kosmet è sempre stato un territorio 
                  sacro per i serbi, la sede dei loro regni medioevali e, fino 
                  ai nostri giorni, del patriarcato ortodosso. Per questo tutte 
                  le forze di occupazione in Serbia hanno cercato di cancellare 
                  la presenza serba e l'eredità culturale serba nella regione. 
                  Durante la Seconda Guerra mondiale, il governo di occupazione 
                  italiano aveva portato una nuova ondata di albanesi a insediarsi 
                  nel Kosmet e aveva fatto di tutto per creare un movimento nazionalista 
                  albanese antiserbo e filofascista, il Balli Kombetër.Per parte sua Hitler aveva formato la divisione Skender Bey 
                  formata da albanesi del Kosmet, che fu mandata a combattere 
                  i russi a Stalingrado nel 1942. La politica di espulsione dei 
                  serbi autoctoni dal Kosmet era proseguita anche dopo la guerra 
                  quando Josip Broz Tito (un croato) salì al potere in 
                  Jugoslavia come capo del Partito Comunista, con l'ambizione 
                  di formare una federazione balcanica che doveva comprendere 
                  anche l'Albania. Sotto il regime di Tito la Serbia era stata 
                  divisa in tre unità amministrative (la Vojvodina, la 
                  Serbia vera e propria e il Kosmet) e, in seguito alla costituzione 
                  federale del 1974, il Kosmet e la Vojvodina avevano ottenuto 
                  prerogative in pratica di stati indipendenti all'interno della 
                  Serbia stessa. Il piano di Tito prevedeva fra l'altro di mantenere 
                  la Serbia e il popolo serbo (in quanto principale gruppo etnico 
                  della Jugoslavia) sotto stretto controllo e privato del diritto 
                  di un proprio stato nazionale. Ai serbi era consentito vivere 
                  in Croazia, Bosnia Erzegovina, Macedonia e Montenegro.
 Gli albanesi del Kosmet non si lasciarono sfuggire l'occasione 
                  e sotto il regime di Tito svilupparono un movimento nazionalista 
                  e separatista molto forte che in seguito (dopo la morte di Tito, 
                  nei primi anni ottanta) fece proprio il programma della cosiddetta 
                  Grande Albania.
 La verità è che la minoranza albanese in Serbia 
                  ha goduto di tutti i diritti politici, civili e culturali e 
                  non è mai stata discriminata in alcun modo. Le storie 
                  della discriminazione e delle minacce all'identità culturale 
                  e la leggenda della supposta pulizia etnica degli albanesi in 
                  Serbia sono pura propaganda di chi voleva destabilizzare la 
                  Jugoslavia, creare una Grande Albania o semplicemente avere 
                  un pretesto per mettere piede nei Balcani, soggiogarne la popolazione, 
                  approfittare della situazione geopolitica ed economica e delle 
                  risorse naturali. I separatisti albanesi nella provincia del 
                  Kosmet hanno creato proprie istituzioni parallele (sistema scolastico, 
                  parlamento, governo, sindacati ecc.) rifiutandosi accettare 
                  le leggi e le istituzioni jugoslave di autogoverno, che offrivano 
                  loro criteri di totale autonomia molto più ampi di quelli 
                  ammessi dalla legislazione dell'Unione Europea.
 I loro amici della NATO li hanno spinti a formare l'Esercito 
                  di Liberazione del Kosovo (KLA) per attuare il piano di creazione 
                  della Grande Albania. Non dimentichiamoci che il KLA è 
                  stato finanziato da fondamentalisti islamici come Osama bin 
                  Ladan, e dalla narcomafia albanese, che partecipano in modo 
                  non marginale al gioco di potere e di denaro che ruota intorno 
                  al Kosovo. Per favorire l'opera del KLA, i capi e i padroni 
                  della NATO hanno inventato la "pulizia etnica" in 
                  Serbia e hanno cominciato a bombardare i serbi e le altre popolazioni 
                  jugoslave. Perché non hanno bombardato la Turchia, che 
                  esercita una purga sistematica del popolo curdo da decenni e 
                  che è intervenuta militarmente a Cipro? Perché 
                  la Turchia è una di loro, uno stato membro della NATO, 
                  con compiti precisi rispetto alle nazioni confinanti, e uno 
                  dei migliori clienti dell'industria bellica degli Stati Uniti.
 Quello della produzione bellica è il principale settore 
                  industriale degli USA e la spesa militare del Presidente Clinton 
                  ha dimensioni sterminate. La NATO è qualche cosa di più 
                  di questo bilancio: è il braccio destro degli Stati Uniti 
                  in Europa, lo strumento dell'egemonia di Washington dall'Oceano 
                  Pacifico al Kazakistan. Per conservare la sua egemonia a Clinton 
                  servono più soldi e più risorse naturali, più 
                  potere e il monopolio nella gestione delle faccende mondiali. 
                  Delle Nazioni Unite e del diritto internazionale non gl'importa 
                  un bel niente. La sola politica del governo americano consiste 
                  nel fare i propri interessi. Qualcun altro pagherà.
 La guerra in corso contro la Jugoslavia non è intrapresa 
                  dai paesi della nato a scopi difensivi né è autorizzata 
                  dalle Nazioni Unite. Non è affatto una "guerra umanitaria" 
                  e le motivazioni vanno ricercate in tutt'altra direzione. Siamo 
                  certi che si tratti esclusivamente di un'aggressione degli USA, 
                  per i propri interessi, nei confronti dell'Europa, contro la 
                  forte e prospera Unione Europea, contro tutti quelli che credono 
                  di poter essere liberi e indipendenti. Noi ci opponiamo all'aggressione 
                  della NATO contro la Jugoslavia in quanto è un crimine 
                  contro l'umanità, contro il diritto internazionale , 
                  contro la carta dell'ONU. L'aggressione della NATO ha provocato 
                  l'esodo dei rifugiati albanesi e le sofferenze, le morti e la 
                  devastazione del Kosmet. Ci sono centomila albanesi del Kosmet 
                  che hanno cercato scampo a Belgrado e noi li accogliamo come 
                  fratelli e sorelle. Migliaia di civili sono stati uccisi, centinaia 
                  di scuole e di asili sono distrutti, ponti e chiese bombardati. 
                  L'economia è allo sfascio ed è in corso una gigantesca 
                  catastrofe ecologica. Non vediamo come la giudice Louise Arbour 
                  all'Aia possa inquisire Milosevic e Karadzic e non Bill Clinton, 
                  Solana, Tony Blair, Chirac, Chretien, Schröder, Josef Fischer, 
                  Aznar, D'Alema e gli altri della tribù NATO.
 La guerra contro la Jugoslavia ha messo in piena luce il carattere 
                  aggressivo della NATO (già emerso in Croazia e in Bosnia 
                  nel 1994-95, nel corso dell'aggressione contro la comunità 
                  etnica serba in queste repubbliche ex-jugoslave). La NATO ha 
                  perso ogni credibilità come organizzazione difensiva 
                  e si dimostra incapace di rispettare regole e principi del diritto 
                  internazionale. Questo potere arrogante, bruto, ci riporta indietro, 
                  ai tempi della Guerra Fredda, provocando l'emarginazione della 
                  Russia dalla politica europea e una nuova corsa agli armamenti. 
                  La tesi della "tutela dei diritti umani" e dell'"intervento 
                  militare umanitario" serve solo a coprire gli interessi 
                  geopolitici degli Stati Uniti.
 Che Clinton e i falchi del Pentagono si occupino dei diritti 
                  umani e facciano interventi umanitari nel loro paese, dove milioni 
                  di Neri, d'Ispanici, di Indiani autoctoni, di Asiatici, sono 
                  privati dei più elementari diritti come cittadini e addirittura 
                  del diritto alla sopravvivenza! Quando verrà il giorno 
                  in cui la comunità ispanofona della California manifesterà 
                  la propria volontà di ricongiungersi al Messico, in nome 
                  del diritto di autodeterminazione, speriamo che il governo americano 
                  sia d'accordo.
 La politica mondiale della NATO e degli USA è fondata 
                  sul delitto contro la verità. I mezzi di comunicazione, 
                  le reti televisive e radiofoniche mondiali, come la CNN, la 
                  CBS, la BBC, SkyNews ecc. Sono in mano dei dirigenti e dei manipolatori 
                  della NATO e del Pentagono. La verità è la prima 
                  a cadere in guerra, e l'aggressione in corso contro la Jugoslavia 
                  ne è una prova in più. Siamo ben consapevoli del 
                  fatto che il regime di Milosevic è tutt'altro che angelico 
                  e democratico, ma volgiamo combatterlo in modo corretto, in 
                  tempo di pace, con tutti i mezzi democratici, e risolvere questo 
                  problema come un problema interno della Jugoslavia, a modo nostro, 
                  non con le bombe della NATO. Per questo ripetiamo: "NATO 
                  GO HOME": non ce ne facciamo niente di una democrazia che 
                  ci arriva con le bombe e le cannonate. Vogliamo lottare liberamente 
                  per la libertà, con la verità per una maggiore 
                  verità, con la dignità umana per la dignità. 
                  Le grandi potenze se ne devono andare dai Balcani e lasciar 
                  stare le popolazioni balcaniche, che sanno come comporre i propri 
                  dissidi attraverso il dialogo, la comprensione reciproca e la 
                  tolleranza.
  Comunità libertaria belgradese e Centro 
                  Studi Libertari(Belgrado)
  Risponde 
                  Claudio Venza
  Scrivo con un certo imbarazzo alla lettera della Comunità 
                  Libertaria Belgradese, anche se mi pare necessario rispondere. 
                  Penso infatti di conoscere uno dei componenti di questo circolo, 
                  un compagno verso il quale ho avuto stima e affetto anche per 
                  il legame personale che aveva con Umberto Tommasini. Ugualmente 
                  ho polemizzato con lui quando ha collaborato con il governo 
                  sedicente democratico di un certo Panic, un fugace rivale di 
                  Milosevic di qualche anno fa.Da Belgrado questo compagno e, mi pare, qualche altro, venne 
                  al convegno tenuto a Trieste nell'aprile del 1990 e intitolato 
                  ottimisticamente "Est, laboratorio di libertà". 
                  In quella occasione una quindicina di jugoslavi presenziarono 
                  ai lavori, intensi e promettenti, di varie centinaia di compagni, 
                  tra cui una settantina quasi tutti giovani, provenienti dai 
                  paesi dell'Est appena usciti dal socialismo da caserma.
 A dire il vero, si poteva notare che fra i numerosi compagni 
                  di Zagabria e quelli di Belgrado non vi era quella intesa e 
                  solidarietà che ci si poteva aspettare fra anarchici. 
                  In qualche modo le tensioni nazionali esistenti si ripercuotevano 
                  nelle discussioni sull'atteggiamento da assumere nel prossimo 
                  futuro e, cosa terribile ma reale, sembrava che alcuni fossero 
                  prima serbi o croati e poi libertari. In effetti, da lì 
                  a poco lo scoppio della guerra in Croazia pose questo problema 
                  in tutta la sua gravità. La drammaticità degli 
                  eventi spinse alcuni giovani compagni a vestire la divisa e 
                  a combattere per "difendere il proprio popolo dall'aggressione 
                  esterna". Con ciò si concludeva, come abbiamo dovuto 
                  rilevare sul "Germinal" nei primi anni '90, un'esperienza 
                  libertaria abbastanza diffusa negli ambienti universitari umanistici 
                  di Zagabria.
 L'imbarazzo personale, a cui accennavo, è dovuto anche 
                  al fatto che nel rivolgere delle critiche a dei compagni bisogna 
                  tener conto delle condizioni nelle quali vivono e operano. Ma 
                  l'essere stati vittime dei bombardamenti della NATO non spiega 
                  l'accettazione di posizioni che appaiono strettamente legate 
                  ad una visione nazionalistica della realtà.
 Ricordo, se ce ne fosse bisogno, che dalle nostre parti questa 
                  primavera si sono svolte numerose manifestazioni antimilitariste 
                  contro la base di Aviano dalla quale partivano buona parte dei 
                  bombardieri. Tra i promotori, vi sono stati (quasi sempre) gli 
                  anarchici della regione, sia come tali sia come partecipanti 
                  a movimenti locali di tipo antibellicista.
 Tra le affermazioni che intendo contestare ai compagni belgradesi 
                  vorrei distinguere quelle di impronta più storica e quelle 
                  piuttosto legate all'attualità politica. Sul piano del 
                  racconto del passato non mi pare fondato collegare la politica 
                  di Tito, che era comunque un comunista e con un progetto politico 
                  terzomondista, per lo meno sul piano ufficiale, con il fatto 
                  che egli fosse nato in Croazia. Dal luogo di nascita si vorrebbe 
                  dedurre che il titoismo avrebbe limitato le prerogative dei 
                  serbi, ma al contrario durante il suo regime settori importanti 
                  degli apparati amministrativi, e militari in particolare, erano 
                  occupati proprio da esponenti serbi.
 Poi non mi risulta che il movimento di resistenza albanese degli 
                  anni '80 e '90 fosse favorevole alla strategia della Grande 
                  Albania. Quello che fu, almeno fino a un anno fa, l'esponente 
                  più importante degli albanesi, Ibrahim Rugova, aveva 
                  più volte rilasciato dichiarazioni contrarie a un progetto 
                  di espansione dello stato di Tirana, verso cui i kosovari esprimevano 
                  piuttosto diffidenza e addirittura un senso di superiorità.
 Non mi pare inoltre credibile, sul piano dei fatti nudi e crudi, 
                  sostenere che gli albanesi nel Kosovo non fossero mai stati 
                  discriminati in alcun modo. Vorrei solo ricordare la chiusura 
                  dell'Università a Pristina e la sostituzione di tutti 
                  i professori albanesi con docenti provenienti da Belgrado. Non 
                  va poi dimenticato che un'occupazione militare antialbanese, 
                  con tanto di schieramento di carri armati venne messa in atto 
                  già nel 1980. L'oppressione culturale e politica si trasformò 
                  in vera e propria repressione violenta quando giunsero le bande 
                  paramilitari serbe con licenza di uccidere, rubare, stuprare 
                  che scorrazzarono in lungo e in largo per la "terra dei 
                  merli" : l'esodo degli albanesi non si può far risalire 
                  solo ai bombardamenti NATO, che certamente lo hanno aggravato. 
                  Analogamente è da condannare l'attuale vendetta etnica 
                  di cui ora è vittima la scarsa popolazione serba rimasta 
                  nel Kosovo.
 Sul piano delle opzioni politiche, se tra queste possiamo considerare 
                  le posizioni di tipo antistatale e antiautoritarie tipiche dell'anarchismo, 
                  devo rilevare che il discorso dei compagni belgradesi presenta 
                  un'ottica fortemente influenzata da ragioni nazionali e assai 
                  poco da considerazioni anarchiche in senso stretto. Sembra quasi, 
                  e vorrei essere smentito, che ancora una volta gli scriventi 
                  si riconoscano prima nel dato etnico e dopo in quello di un 
                  movimento realmente indipendente dalla logica istituzionale. 
                  Anche i riferimenti espliciti al diritto internazionale e agli 
                  strumenti democratici nella lotta contro Milosevic si collocano 
                  piuttosto in una mentalità democratica ed elettorale 
                  che all'interno di un programma di azioni autogestite e autonome 
                  da tutti i partiti esistenti.
 Mentre esprimo questo tipo di critiche fraterne, ritengo sia 
                  importante fornire ai compagni di tutta la ex Jugoslavia quell'aiuto 
                  solidale che possa migliorare l'efficacia delle iniziative libertarie 
                  in questo territorio tormentato dai nazionalismi, dalle guerre 
                  e dalle politiche delle grandi potenze. Purtroppo mi pare difficile 
                  che dopo un conflitto feroce, che dura ormai da diversi anni, 
                  si possa prevedere la ricostruzione, in tempi brevi, di rapporti 
                  di collaborazione fra gruppi libertari e antiautoritari di varie 
                  etnie. L'unica via rimasta alquanto estranea all'etnocentrismo 
                  sembra quella avviata delle donne pacifiste che in questi mesi 
                  stanno tessendo nuovamente la rete dei contatti personali e 
                  collettivi.
 Non mi pare comunque convincente attribuire la causa di tutto 
                  l'odio e di tutte le violenze e distruzioni alle manovre internazionali 
                  di potenti gruppi economici e politici esterni ai Balcani. Sono 
                  convinto invece del fatto che queste potenze abbiano utilizzato 
                  rivendicazioni nazionaliste, già esistenti e, malgrado 
                  le apparenze, ben radicate anche ai tempi della Jugoslavia di 
                  Tito.
 Sul fronte delle mobilitazioni belliche hanno svolto un ruolo 
                  pesante pure gli apparati religiosi (cattolici, ortodossi, musulmani) 
                  secondo la logica del "Gott mit Uns" di nefasta memoria. 
                  Non mi è chiaro quindi il senso della rievocazione del 
                  carattere "sacro" per gli ortodossi del suolo del 
                  Kosovo. Da una prospettiva anarchica mi aspetterei la denuncia 
                  delle gravi responsabilità di tutte le istituzioni politiche, 
                  militari, culturali, ecclesiastiche che hanno incrementato il 
                  disprezzo per l'Altro al fine di disporre di un "nemico 
                  criminale" verso il quale dirigere frustrazioni e vendette 
                  del gregge militarizzato. Una simile cornice teorica (forse 
                  insufficiente e talvolta persino schematica) tipica delle analisi 
                  libertarie non compare nella lettera, nemmeno in modo implicito. 
                  In sostanza, a parte la firma, il contenuto di questa lettera 
                  potrebbe restare all'interno di ambienti poco sensibili ai valori 
                  antiautoritari.
  Claudio Venza   
                     
                      | 
                          I 
                          nostri fondi neri 
                           
                         |   
                      |  
                          Sottoscrizioni Marco Pandin e famiglia (Montegrotto 
                            Terme) ricordando Marina Padovese, 50.000; Giuseppe 
                            Lusciano (Castellammare di Stabia), 1.600; Franco 
                            Leggio (Ragusa), 200.000; Oscar Greco (Rende), 50.000; 
                            Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 
                            1.000.000; Antonio Cecchi (Pisa), 10.000; Ermanno 
                            Gaiardelli (Novara), 60.000; Maurizio Barsella (Firenze), 
                            10.000; Carolina Tobia (Rensselaer - USA), 250.000; 
                            Alberto Procaccini (Porto Sant'Elpidio), 30.000; a/m 
                            Aurora e Gemma, parte ricavato dalla vendita dei libri 
                            non/anarchici di Alfonso Failla (Carrara), 700.000; 
                            Marco breschi (Prato) ricordando Aurelio Chessa, 200.000.Totale lire 2.591.600.
 Abbonamenti sostenitori Arnaldo Panzeri (Lecco), 
                            150.000; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa), 
                            200.000; Laura Fossetti (Montemagno di Calci), 150.000.Totale lire 500.000.
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