| Bene ha fatto Elèuthera a ristampare il libro di Giorgio 
                  Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, e a pubblicare in contemporanea 
                  quello di Paolo Algranati, Voci dal silenzio. Rappresentano 
                  infatti due esperienze parallele, che invogliano a una lettura 
                  sinottica per capire che cosa le rende apparentemente così 
                  vicine e tuttavia non coincidenti. Sono parallele nell'evidenza 
                  di un risultato comune - lo smantellamento delle strutture manicomiali 
                  con l'apertura dei reparti "chiusi" - ma non si incontrano 
                  nelle premesse, soprattutto su un punto: il giudizio sulla malattia 
                  mentale. In realtà Algranati e Antonucci ripropongono 
                  i due filoni interpretativi del cambiamento sociale, presenti 
                  - non a caso - anche nell'approccio alla psichiatria: il riformismo 
                  e la rivoluzione. Anticipando il contenuto dei due libri, diciamo 
                  che Algranati vuole riformare l'istituzione psichiatrica liberandone 
                  le vittime per curarle meglio mentre per Antonucci l'unica alternativa 
                  alla psichiatria è la soppressione della psichiatria 
                  (anche quella "democratica").Paolo Algranati: il riformismo. "A tre anni di distanza 
                  dall'approvazione nel 1978 della "180", la legge Basaglia, 
                  iniziavo a lavorare nel manicomio di Roma con l'incarico di 
                  assistente psichiatra. Assegnato al padiglione 22, il più 
                  grande dei reparti 'chiusi' dell'ospedale, mi accingevo, con 
                  l'animo combattivo ed entusiasta del ventiseienne, a verificare, 
                  nell'impatto concreto con l'istituzione manicomiale, i miei 
                  anni precedenti di formazione teorica".
 Comincia così il libro di Algranati, un rapporto dall'interno 
                  del manicomio Santa Maria della Pietà, scritto con l'immediatezza 
                  di un diario di bordo. Algranati, che si definisce "psichiatra 
                  anomalo" descrive, anno per anno, il lungo cammino dallo 
                  smantellamento del padiglione 22, definito la "fossa dei 
                  serpenti" (1981) al lavoro di riabilitazione in un "zona 
                  autogestita" (1983) al passaggio nel padiglione 8, completamente 
                  aperto (1987), che prefigura il concetto di Comunità 
                  Terapeutica come "un continuo training tra gli operatori 
                  e poi tra questi e i pazienti, e infine tra tutti noi e il mondo 
                  esterno".
 Ecco alcune tappe di questo cammino: l'incontro con la caposala 
                  "una suora bassa e corpulenta, vestita di bianco" 
                  che gli apre il cancello di ferro e lo immette nelle corsie 
                  del padiglione 22 come nei gironi dell'inferno dantesco (i dannati 
                  sono i pazienti con le loro storie di segregazione); lo scontro 
                  immediato con la suora sulla cosiddetta "ergoterapia": 
                  un sistema di lavoro per cui 60 pazienti, con ruoli e mansioni 
                  tutt'altro che trasparenti "tenevano in piedi, o comunque 
                  contribuivano in maniera decisiva al funzionamento della struttura 
                  che li segregava"; la conoscenza, uno per uno, di tutti 
                  i 114 pazienti, il 70% dei quali - attraverso un sistema di 
                  sfruttamento capillare, basato su ricatti, favori, intimidazioni 
                  - era adibito "senza alcun compenso ai lavori più 
                  umili, di pertinenza, teoricamente, di infermieri e ausiliari 
                  di pulizia"; la messa in discussione dei mezzi di contenzione 
                  (camicie di forza, sbarre alle finestre, porte chiuse a chiave) 
                  e dell'abuso degli psicofarmaci; l'analisi del comportamento 
                  degli infermieri in base alla loro appartenenza alle tre categorie 
                  dei "sottomessi", dei "ribelli" e dei "neutrali 
                  ricattati" (senza contare "i cani sciolti"); 
                  l'inizio della collaborazione con alcuni infermieri che porta 
                  alla prima timida uscita dalle mura del manicomio (un soggiorno 
                  di 15 giorni per 12 pazienti in una località di montagna 
                  del Lazio); la formazione di una "zona autogestita", 
                  due corsie, con 14 pazienti e 6 infermieri (la cronaca di questa 
                  "zona liberata" è ricostruita in "un poderoso 
                  quaderno utilizzato indifferentemente dai pazienti e dagli operatori", 
                  di cui sono pubblicati ampi stralci); la guerra aperta con la 
                  suora caposala fino al suo trasferimento nel 1984 ad un altro 
                  reparto ("finiva al 22 l'epoca arcaica del potere religioso 
                  sulla pazzia").
 Il racconto fin troppo minuzioso, scritto con amore e un grado 
                  di partecipazione e di simpatia umana eccezionali, interrotto 
                  dalle bellissime (e illuminanti) "storie di vita" 
                  degli internati, ha il merito di portare il lettore dentro la 
                  realtà manicomiale. Paolo Algranati, con l'attenzione 
                  costante ai concreti problemi di gestione, dimostra di avere 
                  la stoffa del riformatore e registra con la pignoleria del cronista 
                  tutti i cambiamenti: l'apertura del manicomio ai parenti dei 
                  ricoverati "reclusi"; l'importanza del lavoro in una 
                  cooperativa; la logistica dei reparti dopo i vari traslochi; 
                  le sorti dei pazienti dimessi con tutti i problemi di inserimento 
                  sociale al di fuori del manicomio; la vita quotidiana nel padiglione 
                  8 aperto senza "nessuna sbarra, nessun cancello, nessuna 
                  chiave"; l'iniziativa di un laboratorio di pittura.
 Tutto preso dalla passione anti-istituzionale, dal fervore organizzativo 
                  per rendere più umana e vivibile la condizione dei segregati 
                  nel manicomio, Algranati si abbandona, forse con eccessiva frequenza, 
                  a riflessioni teoriche sulla malattia mentale che rivelano le 
                  contraddizioni e la debolezza della posizione riformista in 
                  campo psichiatrico. Da un lato infatti, onesto fino in fondo, 
                  Algranati vede (e denuncia, nel lavoro con gli operatori) gli 
                  effetti devastanti degli "stereotipi universali" sulla 
                  pazzia (pericolosità, incomprensibilità, inguaribilità); 
                  dall'altro non rinuncia all'approccio clinico, al giudizio psichiatrico 
                  e alle classificazioni diagnostiche dei comportamenti (psicosi 
                  maniaco-depressiva, eccitazione submaniacale ecc) e al recupero 
                  terapeutico con interventi psicofarmacologici. In fondo ripropone, 
                  in modo meno schematico e più contradditorio, il vecchio 
                  errore di ritenere che i ricoverati siano diversi non perché 
                  segregati ma perché "malati", non perché 
                  privati della libertà personale ma perché hanno 
                  nel cervello qualcosa che non va.
 Il discorso "basato sull'impalpabilità del confine 
                  normali-folli e sul profondo radicamento dei pregiudizi sulla 
                  follia" è ritenuto "indispensabile per prendere 
                  le distanze dalla propria 'follia' personale e per controllare 
                  con continuità e consapevolezza la propria paura di impazzire", 
                  che percorre come un leit-motiv tutto il libro (pagg. 14, 43-44, 
                  156-57, 162-63). Rimane cioè a livello strumentale. E 
                  annota come un vittoria il fatto che "i pazienti miglioravano 
                  in modo evidente senza che, al di là di crisi evolutive, 
                  impazzissero gli operatori" (sic).
 Algranati è sicuramente uno "psichiatra anomalo" 
                  nel senso che non fa ricorso soltanto al criterio patologico 
                  (diagnosi/terapia) per giudicare uomini e comportamenti (di 
                  questi tempi è già molto!) e arriva a porsi (e 
                  a porre alla sua équipe) le domande giuste: "L'intervento 
                  migliore per la pazzia è forse quello di lasciarla vivere? 
                  Di osservarla da lontano con discreta protezione, senza interferire 
                  pesantemente in un suo qualche sviluppo 'fisiologico'? E ancora: 
                  come definire la 'normalità'? Possiede nuclei pazzi, 
                  psicotici? Non è forse ora che la psichiatria punti maggiormente 
                  la sua attenzione sulla normalità piuttosto che sulla 
                  pazzia? Infine, come definire la 'sanità'?"
 Ma queste domande rimangono senza risposta.
 Giorgio Antonucci: la rivoluzione. Il libro di Antonucci parte 
                  proprio dalla risposta a queste domande, cioè dalla critica 
                  alla psichiatria come scienza. La sua esperienza professionale 
                  a Cividale del Friuli (1968), a Gorizia (1969), a Reggio Emilia 
                  (1970-72) e dal 1973 a Imola per più di 20 anni (ora 
                  è in pensione), è una lunga battaglia all'interno 
                  dei reparti manicomiali per la liberazione delle vittime del 
                  pregiudizio psichiatrico. Solo in parte il libro riflette il 
                  significato fulminante della "lunga marcia" di Antonucci 
                  attraverso le istituzioni manicomiali, un'esperienza che non 
                  ha eguali al mondo (fra gli "addetti ai lavori" l'unico 
                  che la pensa come lui è il professore americano Thomas 
                  Szasz, che ha scritto la prefazione del libro).
 La tesi di fondo di Antonucci è dura e perentoria: i 
                  manicomi stanno alla psichiatria come nella conchiglia il guscio 
                  sta all'animale. Se elimini l'animale, il guscio inaridisce 
                  e muore. Per quanto possa sembrare paradossale, se non esistesse 
                  la psichiatria, non esisterebbe la cosiddetta malattia mentale. 
                  "Ritengo - scrive Antonucci - che a ben poco serve attaccare 
                  l'istituto del manicomio se non si porta un attacco radicale 
                  allo stesso giudizio psichiatrico che ne è alla base, 
                  mostrandone l'insussistenza scientifica. Finché non sarà 
                  abolito il giudizio psichiatrico, la realtà della segregazione 
                  continuerà a fiorire dentro e fuori le pareti del manicomio". 
                  E quindi - malgrado i lodevoli sforzi di Algranati per umanizzare 
                  l'intervento psichiatrico - la segregazione si riproduce in 
                  altre forme anche nelle varie Comunità terapeutiche, 
                  nei Centri di igiene mentale e così via.
 La "rivoluzione" di Antonucci non nasce da una teoria 
                  elaborata a tavolino ma dal contatto diretto con uomini e donne, 
                  vittime dei trattamenti psichiatrici. Storie e volti che ritroviamo 
                  nelle cartelle cliniche pubblicate nel libro: prove documentali, 
                  impressionanti e inconfutabili, della funzione repressiva della 
                  psichiatria. C'è un baratro tra le diagnosi (più 
                  fantasiose) di malattie mentali, che leggiamo nelle cartelle 
                  cliniche, e la realtà di sofferenza dei cosiddetti pazienti. 
                  Nel ripercorrere tutta la sua esperienza, Antonucci ci offre 
                  anche preziosi documenti sulle lotte popolari contro il manicomio 
                  S. Lazzaro di Reggio Emilia all'inizio degli anni '70, sulle 
                  difficoltà da lui incontrate nell'apertura dei reparti 
                  chiusi e nella liberazione dei "segregati" a vita, 
                  sull'esperimento di Rosenham che introdusse degli pseudopazienti 
                  in alcuni ospedali psichiatrici americani (nessuno fu identificato 
                  come sano di mente!).
 Antonucci rifiuta il cosiddetto Trattamento sanitario obbligatorio 
                  (TSO), slega i matti, abolisce le terapie psichiatriche (strumenti 
                  di contenzione e psicofarmaci) e li lascia liberi di uscire 
                  dal manicomio, di disporre dei propri soldi, li porta in giro 
                  per il mondo, al mare e in montagna, a Venezia e a Parigi, al 
                  parlamento europeo di Strasburgo e dal Papa in Vaticano. Per 
                  la sua attività è stato perseguitato dall'autorità 
                  giudiziaria subendo diversi processi che meriterebbero una trattazione 
                  a parte.
 Antonucci ha tenuto conferenze in diverse città d'Italia 
                  accompagnato spesso dai suoi "matti", ha diffuso le 
                  sue idee soprattutto fra i giovani sensibili al pericolo rappresentato 
                  dalla psichiatria. Solo ma non isolato è stato invece 
                  emarginato dall'establishment psichiatrico malgrado le numerose 
                  interviste alla stampa e alla radio e le sue apparizioni in 
                  TV.
 Un pensiero come quello di Antonucci, molto critico anche nei 
                  confronti dell'impostazione autoritaria della medicina, implica 
                  una rivoluzione culturale che chiama in causa scienza e politica, 
                  religione e filosofia. Tanto più che oggi - ma questa 
                  è una mia opinione - l'intensificarsi dei fenomeni di 
                  emarginazione accresce nei non-emarginati il bisogno di difesa 
                  e protezione estendendo a tutti i livelli il ricorso a quella 
                  che io ormai chiamo la psichica - comprendendo la psichiatria, 
                  la psicanalisi, la psicologia (e annesse pseudoscienze) - per 
                  oscurare e manipolare le coscienze, attutire e fuorviare i conflitti 
                  personali e sociali.
 Alla psichica come instrumentum regni, penetrata ormai 
                  in tutte le strutture sociali: nella scuola e nella famiglia, 
                  nelle aziende e nei media, nei tribunali e nelle carceri; alla 
                  psichica utilizzata di volta in volta per il dominio culturale, 
                  come supporto dei modelli omologanti o in funzione repressiva 
                  per la difesa dello stato di cose presente; alla psichica si 
                  addice quello che scriveva Bakunin nel Narodnoe delo 
                  (1866): "Partigiani della rivoluzione noi siamo nemici 
                  non solo di tutti i preti religiosi ma anche dei preti della 
                  scienza". Bakunin alludeva alla scienza positivista, quella 
                  "specie di chiesa privilegiata della mente e della conoscenza 
                  superiore" che allora schiacciava i fermenti di rivolta 
                  del "popolo stupido e ignorante" ostacolando "la 
                  liberazione mentale" e che ora continua "in versione 
                  psichica" come ideologia della conservazione e dell'oppressione 
                  sociale.
  Giuseppe Gozzini
   
 Tutti quei blues. Alberto 
                  Lecca, poeta  "A rigore non c'è per me che una sola vera consolazione, 
                  e questa mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, 
                  una persona sovrana entro i miei limiti" (Stig Dagerman) Esistono sonni senza sogni? A guardare questo fine secolo, 
                  questo paradossale paesaggio desertico pavesato a fiera, il 
                  capitalismo monopolitisco imperante, il controllo e lo sfruttamento 
                  telematico e militare sempre più profondo d'ogni risorsa, 
                  dalle stelle alle cellule, c'è da credere di sì. 
                  Ad una povertà utopica e spirituale che ormai sperimento 
                  da anni, si è contrapposta, come un fiume in moto contrario, 
                  una grande escavazione nella parola, una pioggia di suoni, una 
                  vorace e costante lettura di Poeti, noti e non. La poesia mi 
                  ha restituito il suono degli uomini e il desiderio a mia volta 
                  di raggiungerli con la parola, con/dividere vita con chi è 
                  attorno e con coloro che verranno. La Poesia e il Teatro restano, 
                  per il sottoscritto, un luogo, l'isolato baluardo di una irriducibile 
                  testimonianza umana: l'individuo, la sua traettoria, possibilmente 
                  la speranza solidaristica, di lotta e di com/passione. Non tutta 
                  la Poesia, va da sè. Alberto Lecca abita a Cagliari. Scrive poesia, legge i suoi 
                  testi in reading, collabora/organizza una rivista (splendida) 
                  dal nome Erbafoglio e il Festival "Lingue di Nuvole". 
                  Il suo nuovo libro, pubblicato dalla CUEC (Cooperativa Universitaria 
                  Editrice Cagliari) si intitola Blue Blues-lacrime profonde 
                  di un malinconico cormorano pazzo.
 La sua poesia è una pioggia benedetta, il suono fraterno 
                  d'un grande orgoglio: la solidarietà di fronte a onde 
                  della realtà indecifrabili, a notturni esistenziali ai 
                  quali siamo spesso assuefatti. Farò uso abbondantemente 
                  di citazioni dal bellissimo saggio critico di Antonello Zanda, 
                  poeta, pubblicato in coda nel volume: "Il viaggio di A.L. 
                  procede... sulle ali di altre parole, ricorrrenti come colori 
                  fondamentali nel suo quadro: la morte, il mare, il profondo, 
                  l'uomo, la solitudine, l'ombra, le lacrime, il silenzio, la 
                  pioggia. Ognuna di questa parole... è un'immagine che 
                  si impone allo sguardo, diventa dominio dell'occhio, ambiente 
                  dei sensi"
 Io ascolto in questi versi il fiato roco e terribilmente dolce 
                  del blues, del jazz, figure iconiche (Il poeta, il Pazzo, la 
                  Puttana e altre) che tornano ad essere presenze, nuovamente. 
                  L'imbattersi nella giovinezza libertaria di parole usualmente 
                  incrostate di giustificazioni e compromessi mi riporta a quel 
                  "peggio di un bastardo" di Charlie Mingus, all'uomo 
                  "venuto da un'altra solitudine", Leo Ferré, 
                  due dei riferimenti certi di Alberto.
 Qui non c'è alcuna compiacenza verso la mistica del solitario 
                  incompreso. Tutto è a un livello, anzi ad uno strato 
                  più profondo, più evocativo. "Non c'è 
                  nulla di consolatorio nei versi di A.L., ma c'è una energia 
                  umana che nasce dalla vita stessa davanti allo specchio. La 
                  Malinconia del cormorano pazzo si propone come un momento 
                  di partenza e non come punto di arrivo, come il presupposto 
                  di quel continuare che è il riprendersi. Nella stessa 
                  posizione clandestina di un nativo americano alla ricerca di 
                  una fuga che non sia solo una scappatoia, bisogna ritrovarsi 
                  e riconoscersi nel disordine naturale delle cose". Ne rende 
                  testimonianza il poeta/musicista Roberto Belli che, in una sezione 
                  del libro, raccoglie scritti suoi e di altri, in un tessuto 
                  connettivo che amplifica il raggio di riferimenti e suggestioni.
 Le parole di Alberto Lecca, lasciate così quasi sole 
                  a scavare, come oggetti tolti dal quotidiano contesto mediatico, 
                  tornano "a cantare", hanno la forza di un urlo. Come 
                  il tuono segue il lampo, la lettura richiama la musica di Coltrane, 
                  Om, A love Supreme, l'ancestrale e intricato ritmare 
                  di Max Roach, la Donna Solitaria di Ornette Coleman e 
                  quell'altro Urlo, il Ginsberg che mai come oggi manca 
                  a noi tutti. "La denuncia dell'orrore della nostra condizione 
                  umana è sottesa ad ogni verso. Anche quando l'autore 
                  ricorre al registro più delicato e tenero, quando parla 
                  d'amore e di amicizia, anche in ciò c'è l'ombra 
                  della denuncia. Non bisogna pensare a quell'orrore come a qualcosa 
                  di titanico e oppressivo. L'orrore di cui parla Lecca è 
                  qualcosa che è entrato nel sangue, nel metabolismo del 
                  genere umano. È un orrore che, proprio perché 
                  immersi nella consuetudine, non riusciamo più a vedere".
  "Le Cose Non Annegano.Verdi Trasparenze Caduche.
 Implicano I Fondali Della Nostra
 Rovinosa Coscienza.
 Piccole Incomprensioni Nascoste.
 Seguono Lentamente Il Tramonto
 Dei Nostri Ideali"
  (Presumo che il volume si possa richiedere alla CUEC, via 
                  Is Mirrionis 1, 09123 Cagliari, tel/fax 070-291077 e-mail: info@cuec.it)  Stefano Giaccone
   
 Gli occhi del 
                  potere  Nessun altra espressione dello stato suscita curiosità, 
                  sgomento e, per quanto mi riguarda, inquietudine come gli apparati 
                  informativi polizieschi.Essi sono la quintessenza del potere: gli strumenti più 
                  raffinati, più intelligenti, più arbitrari a disposizione 
                  dell'autorità costituita. Non mi risulta che esista (o 
                  sia mai esistito) uno stato capace di fare a meno di questa 
                  risorsa, tanto meno le democrazie parlamentari come cupamente 
                  insegna la storia italiana degli ultimi cinquant'anni, costellata 
                  da incidenti strani, persone suicide o meglio fatte suicidare, 
                  stragi, nelle quali non manca mai lo zampino di servizi troppo 
                  generosamente definiti 'deviati'.
 Pochi anni fa gli adamantini svizzeri si scandalizzarono di 
                  scoprire che gli apparati della Confederazione avevano schedato 
                  900.000 connazionali, quasi un decimo della popolazione complessiva. 
                  Se questo è lo standard delle democrazie europee, fatte 
                  le dovute proporzioni, significa che in Italia - paese infinitamente 
                  meno attento ai diritti alla riservatezza dei propri cittadini 
                  - vi sono almeno cinque o sei milioni di persone che hanno il 
                  loro bel fascicolo aggiornato.
 Questa incredibile capacità informativa non si costruisce 
                  dall'oggi al domani, così come qualsiasi nuovo inquilino 
                  del potere politico si guarda bene da smantellarla, anzi, ne 
                  garantisce la continuità e l'efficacia. Giacché 
                  la forza di un regime sia esso autoritario o pseudo democratico, 
                  si misura nella capacità di controllo dei propri cittadini: 
                  ogni informazione di carattere politico, affettivo, finanziario, 
                  financo medico può sempre tornare utile per costruire, 
                  distruggere o manipolare.
 Non credo di essere un paranoico ad affermare queste semplici 
                  verità, agli scettici consiglio un giro presso il Casellario 
                  Politico Centrale dell'Archivio di Stato per verificare come 
                  già nell'Italia liberale e poi ancor più in epoca 
                  fascista, gli organi preposti avessero affinato le loro capacità 
                  spionistiche.
 Anzi, gli estimatori dell'efficienza fascista, più che 
                  i treni in orario, dovrebbero apprezzare il salto di qualità 
                  che il regime seppe dare agli organi di controllo e repressivi 
                  come si può evincere dalla monumentale opera di Mimmo 
                  Franzinelli I tentacoli dell'Ovra (Bollati Boringhieri, 
                  Torino, 1999. Pagg. 745, Lire 75.000), un lavoro di grande respiro 
                  storico che finalmente getta uno spiraglio di luce sul 'fiore 
                  all'occhiello' della dittatura, giustamente segnalato negli 
                  ultimi tempi dai maggiori quotidiani per la serietà della 
                  documentazione proposta, frutto di un certosino lavoro negli 
                  archivi di stato che impietosamente denuncia la vastità 
                  dell'infiltrazione in tutte le organizzazioni antifasciste.
 Questa organizzazione di polizia politica il cui nome Ovra oscilla 
                  tra Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell'Antifascismo 
                  e più probabili frutti della fervida fantasia mussoliniana 
                  capace di unire Ochrana (la terribile polizia segreta 
                  zarista) con piovra a voler incutere già nel nome 
                  un alone di mistero e di terrore, fu lo strumento più 
                  sensibile del regime che ebbe come capi figure di grandi capacità 
                  quali Arturo Bocchini e Guido Leto. I quali potenziarono a tal 
                  punto la rete informativa da obbligarci a considerare l'Ovra 
                  ed i suoi dirigenti non come dei meri esecutori di ordini politici, 
                  ma una struttura capace di acquisire una relativa autonomia 
                  nella gestione delle informazioni, divenendo potere nel potere. 
                  In fondo basta guardare la parabola professionale di Guido Leto 
                  per comprendere come 'servire lo stato' lo si possa fare a prescindere 
                  dai mutamenti politici. Egli infatti fu capo per lunghi anni 
                  dell'Ovra durante il regime per poi tornare ad esserlo nel servizio 
                  informazioni della RSI, infine terminando la carriera come direttore 
                  tecnico delle scuole di polizia nell'Italia repubblicana.
 Eppure l'aspetto a mio avviso più interessante dell'opera 
                  di Franzinelli è l'averci fornito una vasta casistica 
                  antropologica degli informatori.
 Questi personaggi non sono quasi mai esclusivamente dei prezzolati 
                  a tutto tondo, così come è ancor più raro 
                  il caso del poliziotto infiltrato: sono più comunemente 
                  degli antifascisti che entrano in collaborazione con i servizi 
                  attraverso percorsi molto personali. Se la leva economica ha 
                  la sua indubbia importanza, non bisogna sottovalutare gli aspetti 
                  psicologici: spesso i primi approcci partono da rancori personali, 
                  disillusione politica dopo anni di esilio o confino, goffi tentativi 
                  di doppiogiochismo. Insomma una vasta zona grigia nella quale 
                  convivono comportamenti che partono da chi in modo sprovveduto 
                  parla troppo, al vero e proprio agente provocatore.
 La capacità dell'Ovra è proprio quella di saper 
                  individuare il punto debole del potenziale informatore, attendere 
                  che le cose maturino da sé. Inoltre l'organizzazione 
                  si garantisce l'attendibilità delle notizie infiltrando 
                  più agenti nello stesso ambito senza che gli uni sappiano 
                  degli altri, in modo da avere un controllo incrociato: una tecnica 
                  che avrà dei risvolti paradossali in casi di informatori 
                  che spiano altri informatori.
 Raramente una ricerca delimitata da un preciso contesto storico 
                  suscita nel lettore continui rimandi al presente come il lavoro 
                  di Franzinelli, indubbiamente un'opera ineludibile per gli storici 
                  del periodo ma anche un testo fondamentale per chi vuole comprendere 
                  l'abilità persuasiva del potere, quasi sempre in grado 
                  di trovare la via giusta per condizionare gli eventi.
  Dino Taddei
 
 |