| L'insieme di brevi saggi e articoli 
                  qui presentati dà forma a un libro veramente impegnato, 
                  forse quello che, fra tutti i miei (e mi si potrà accusare 
                  di quello che si vuole, salvo di essermi sottratto alle mie 
                  responsabilità di fronte alle questioni contemporanee), 
                  più enfaticamente merita questa qualifica esistenzialista. 
                  E qui mi impegno nel doppio senso della parola, cioè 
                  prendo partito e mi pongo con le spalle al muro. L'argomento 
                  che ho la pretesa di abbordare è talmente scabroso che 
                  a suo proposito di solito sono in disaccordo anche con chi mi 
                  dà occasionalmente ragione sulle questioni sociali e 
                  politiche. D'altra parte, si tratta della questione più 
                  perniciosamente propensa al malinteso che conosco, e anche solo 
                  osare occuparsene è un invito ad essere immediatamente 
                  equivocati. Pertanto, credo opportuno far precedere queste riflessioni 
                  da un discreto e spero sincero strip-tease ideologico 
                  e biografico. Cosa che probabilmente non servirà ad altro 
                  che a moltiplicare gli equivoci che già prevedo, ma che 
                  almeno rimarranno così meglio documentati...Le pagine che seguono studiano da diverse angolature la condizione 
                  (sociale, politica, psicologica, simbolica...) delle identità 
                  collettive e la loro relazione con il perpetuarsi e il legittimarsi 
                  della violenza. Non si tratta di un'indagine erudita, impeccabilmente 
                  scientifica, né naturalmente in alcun modo neutrale. 
                  Il mio proposito è di combattere certe idee consolidate 
                  che considero letali, e di propugnare altri approcci o anche 
                  solo avanzare alcuni dubbi che mi paiono molto più salutari. 
                  Non sono uno specialista del tema, né possiedo a questo 
                  proposito una bibliografia più esaustiva di quella che 
                  potrebbe avere qualsiasi "dilettante" attento, ma 
                  incurabilmente disordinato e pigro. La maggior parte dei lavori 
                  qui riprodotti sono articoli contingenti, scritti sotto la spinta 
                  di qualche avvenimento politico e culturale e marchiati a fuoco 
                  dall'appassionata fugacità della notizia. Questo sì: 
                  sono tutti pensati in diretta. E non da qualunque parte 
                  o per chiunque, ma in Euskadi e per i miei concittadini che 
                  qui, e nel resto della Spagna, sono come me più o meno 
                  vittime del patriottismo. Ho scritto queste cose nella prima 
                  metà degli anni Ottanta, ma tenendo ben presente ciò 
                  che è avvenuto nel decennio precedente, nonché 
                  temendo o difendendo quello che ancora può succedere.
 Uno dei temi che mi hanno tenuto occupato più a lungo 
                  durante tutto il mio lavoro intellettuale è stato quello 
                  della istituzionalizzazione di un potere separato - lo Stato 
                  - in una collettività umana, e le rinunce e le sottomissioni 
                  che questo impone a chi ne fa parte. Lo Stato pretende di monopolizzare 
                  la violenza intrasociale, obbligando ciascuno degli "associati" 
                  a rinunciare alla propria forza e tendendo a eguagliarli, in 
                  negativo, in un Tutto omogeneo, nel quale non rimangano più 
                  associazioni intermedie, caste privilegiate, né alcun'altra 
                  fonte di energia politica che possa resistere o minacciare il 
                  monopolio del potere statale. Di fronte agli altri Stati, tuttavia, 
                  ciascuno Stato si pone come un individuo, ossia come affermazione 
                  e conservazione prima di tutto di se stesso per mezzo della 
                  negazione aggressiva degli altri, non sottomettendosi ad alcuna 
                  considerazione superiore al proprio interesse immediato. Chiunque 
                  fra di noi si senta in qualche modo legato ad una tradizione 
                  politica libertaria, che ebbe il suo momento più alto 
                  di espressione collettiva recente nella protesta studentesca 
                  (Maggio '68, per semplificare), e per tanto accetti come effettivi 
                  ideali a medio o lungo raggio l'autogestione sociale generalizzata, 
                  l'intervento decisorio di ciascun cittadino nell'amministrazione 
                  della cosa pubblica, nella maniera più diretta e permanente 
                  possibile, l'abolizione della distinzione permanente fra governanti 
                  e governati, la diversificazione sperimentale del "normale" 
                  nella collettività, la reinvenzione delle strutture della 
                  vita quotidiana, e così via, inciampa in questo caso 
                  su un nodo complesso che nessuna spada alessandrina né 
                  alcuna soluzione volontarista può sciogliere senza che 
                  qualcosa vada perso. Da una parte, risulta perfettamente evidente 
                  l'esigenza di appoggiare i gruppi minoritari, gli emarginati, 
                  gli esclusi, chiunque resista alla omogeneizzazione coattiva 
                  dell'astrazione statale per sesso, lingua, tradizioni nazionali 
                  non rispettate, costumi, colore della pelle, facoltà 
                  psichiche, e altro ancora..., in una parola, tutti quelli che 
                  rappresentano la differenza socialmente e politicamente 
                  rivendicata, opponendosi in questa maniera al Tutto vorace e 
                  unanime. D'altra parte, ciascuno di questi gruppi o minoranze, 
                  identificandosi come tale, adotta immediatamente tutte 
                  le rigidità belliche di autoglorificazione e di denigrazione 
                  polemica del contrario o del diverso, riproducendo così 
                  in miniatura la totalizzazione statale. Da un lato, la differenza 
                  è schiacciata dalla coazione statale; dall'altro, diventa 
                  una fonte di violenza irrazionale che finisce per riaffermare 
                  la struttura militare dello Stato.
     Il 
                  problema basco
 Per me, tutte queste astrazioni sommariamente riassunte nel 
                  paragrafo precedente possiedono una loro concretizzazione biografica 
                  e sentimentale: l'Euskadi. Nell'amore verso la mia terra natale, 
                  nel rispetto verso le sue energiche e care virtù, e nel 
                  riconoscimento della sua lotta per recuperare una dignità 
                  perseguitata, ho visto la via, qualunque sia il nome che ciascuno 
                  voglia attribuirle, per collaborare alla interminabile trasformazione 
                  emancipatrice dell'ordine sociale. Ma, seguendo questa via, 
                  sono venuto a cozzare contro i paradossi e le schiavitù 
                  proprie alla lotta per la libertà. Hölderlin cantò, 
                  con una bella immagine, che là dove si trova il maggiore 
                  pericolo, cresce anche ciò che ci potrà salvare 
                  da esso; ma la mia esperienza a questo proposito mi ha dolorosamente 
                  convinto che laddove pare a portata di mano la salvezza, lì, 
                  si trova anche l'abisso più pericoloso. Sono una persona 
                  tanto appassionata e ostinata nella parzialità delle 
                  mie idee quanto forse nessun'altra. Tuttavia, sempre, anche 
                  nei miei maggiori impeti di fanatismo, conservo la capacità 
                  di comprendere e di valorizzare le due o più opinioni 
                  in conflitto. Forse da qui deriva la mia propensione finale 
                  verso uno scetticismo di fondo: credo nell'azione e nella 
                  necessità appassionata dell'azione, però quasi 
                  in null'altro... In qualsiasi caso, non posso mai essere del 
                  tutto "uno dei miei", e finisco sempre col rendermi 
                  sospetto di fronte agli occhi dei miei eventuali correligionari 
                  e irrimediabilmente contraddittorio con i miei stessi convincimenti. 
                  Non appena adotto un punto di vista con una certa determinazione, 
                  comincia a tentarmi con forza l'opzione opposta, e divento più 
                  sensibile che mai ai suoi incantesimi persuasivi. Questa propensione 
                  a incarnare la quinta colonna di me stesso non mi evita i furori 
                  della presa di partito, ma in cambio mi priva del dolce nirvana 
                  della affiliazione... È stata la questione dell'Euskadi, 
                  il "problema basco", la maggior fonte di perplessità 
                  immaginabile per la mia anima, eccessivamente polemica e incurabilmente 
                  discordante.Ha detto Rainer Maria Rilke che "l'unica e autentica patria 
                  dell'uomo è la sua infanzia". Questo libro va contro 
                  tutte le patrie, ma rimane fedele a quest'unica patria che ci 
                  rivelò il poeta. E la mia infanzia è San Sebastián, 
                  Fuenterrabía, Pasajes, Lezo, la bella Guipúzcoa 
                  oppressa dal franchismo negli anni Cinquanta. Non ho sangue 
                  basco, salvo quello che mi può arrivare per trasfusione 
                  da un cognome Ecenarro piuttosto remoto. Mia madre è 
                  di Madrid, mio padre di Granada; fu però notaio a San 
                  Sebastián per quasi trenta anni: ambedue si considerarono 
                  sempre e gioiosamente donostiarras [cittadini di San 
                  Sebastián, dal nome basco della città: Donostia, 
                  N.d.T.]. Da piccolo ebbi a sperimentare i paradossi persecutori 
                  della differenza: nel collegio di San Sebastián ero solito 
                  essere oggetto di benevole burle per la mia dizione eccessivamente 
                  castigliana (difetto aggravato dalla mia pedante inclinazione, 
                  da lettore precoce, verso le parole ricercate), mentre invece, 
                  quando a tredici anni mi trasferii a Madrid, ebbi a soffrire 
                  fra i miei compagni di un'autentica emarginazione, e di veniali 
                  linciaggi per il mio accento eccessivamente basco. Nulla educa 
                  tanto come la frontiera e l'esilio... sebbene siano state da 
                  me sofferte su modestissima scala. Il grado di repressione che 
                  dovette a quei tempi soffrire tutto ciò che era basco 
                  potrebbe ora apparire umoristico tant'era esagerato, se non 
                  fosse stato anche drammatico: era separatista il txistu 
                  [strumento musicale basco simile al flauto, N.d.T.], la Real 
                  Sociedad [la squadra di calcio di San Sebastián, 
                  N.d.T.], lo sferisterio dove si gioca la pelota basca, l'euskera 
                  [la lingua basca, N.d.T.], la boina [il berretto tipico 
                  del luogo, in italiano il classico basco, N.d.T.]...
 Posso raccontare un aneddoto personale che conferma una volta 
                  di più l'irrazionalità di tale persecuzione: quando 
                  si avvicinava il mese di agosto, numerosi clienti di mio padre 
                  - membri di quella borghesia industriale (industriali della 
                  carta, della plastica...) discretamente nazionalista - si presentavano 
                  nel suo ufficio per sveltire il più possibile i loro 
                  affari pendenti, dal momento che dovevano "partire per 
                  le vacanze"; questo eufemismo mascherava il fatto che venivano 
                  deportati, o condotti nel carcere di Martutene, per il periodo 
                  in cui durava la visita estiva di Franco e l'Azor, il panfilo 
                  di Hitler, rimaneva ancorato nella baia di La Concha. Non è 
                  strano se i figli di quei pacifici borghesi maltrattati formarono 
                  poi i quadri dell'ETA... Da quando ebbi la capacità di 
                  ragionare da me - cosa che, secondo quanto credo di ricordare, 
                  non avvenne troppo tardi, viste le circostanze - non ho mai 
                  dubitato del diritto dei baschi al pieno riconoscimento della 
                  loro lingua, dei loro costumi, delle loro particolarità 
                  e della loro autodeterminazione politica pluralista e democratica. 
                  Continuo senz'altro a pensare esattamente la stessa cosa. Però 
                  non ho neppure pensato che ci sia una sola ed autentica immagine 
                  del basco (io sono una prova vivente del contrario), né 
                  che la protezione e il rafforzamento della lingua basca debbano 
                  passare attraverso l'avversione al castigliano, e neppure che 
                  l'aver sofferto un'iniqua repressione autorizzi a qualsiasi 
                  vendicativa violenza, e altre cose del genere. Se a questo si 
                  unisce la mia mania di parlare e scrivere nella maniera più 
                  chiara e diretta possibile, si può ben capire l'origine 
                  della mia eretica impopolarità fra i "puri e duri" 
                  delle due patrie in conflitto.
    Una 
                  cagnara provinciale
 Tutte le anime possiedono uno o più punti ciechi, zone 
                  dello spirito che non rispondono agli stimoli simbolici abituali. 
                  Il patriottismo è il più notevole degli angoli 
                  renitenti della mia. Ciò non vuole dire che io sia insensibile 
                  allo spettacolo della lealtà, delle bandiere o della 
                  gloria. Tutt'altro: qualsiasi cosa che esalti e tonifichi l'uomo 
                  mi pare immediatamente degna di commozione. Facilmente vengo 
                  toccato da un sentimento di simpatia collettiva, soprattutto 
                  quando è rivestita da un'aura eroica. Posso versare lacrime 
                  ascoltando una marcia di cornamuse scozzesi o la Marsigliese, 
                  vedendo in un film intonare l'Internazionale o contemplando 
                  la sconfitta di Rommel nel deserto africano; a Venezia, mi entusiasmo 
                  per gli orgogliosi trionfi del Leone di San Marco, e sono capace 
                  tanto di commuovermi di fronte all'estasi dei grattacieli di 
                  New York quanto di ammirare la tenacia dei guerriglieri centroamericani. 
                  In una parola, parteggio per tutti i patriottismi, non per uno 
                  solo, non per uno che possa chiamare mio. Sento le peculiarità 
                  della mia terra, ma amo anche con versatile ingenuità 
                  quelle di qualsiasi altra. E, senza ombra di dubbio, detesto 
                  i patrioti d'ufficio e per convenienza, i maniaci dell'unilateralità, 
                  i professionisti della glorificazione di ciò che è 
                  "della casa", coloro che si pavoneggiano vantando 
                  il vino del loro paese natale o il nome celebre di un concittadino 
                  come si trattasse di una medaglia vinta per merito proprio. 
                  Solo chi non vale nulla per se stesso può credere di 
                  aver qualche merito per l'esser nato in un determinato posto 
                  o sotto una determinata bandiera.
 D'altro canto, sin da molto giovane considerai i nazionalismi 
                  come una grave disgrazia collettiva, come la principale nemica 
                  della pace fra i Paesi e dell'emancipazione degli individui. 
                  L'unica tessera di un'associazione politica che abbia mai posseduto 
                  in vita mia è stata quella di mondialista, un 
                  gruppo cosmopolita che aveva la pretesa di abolire gli Stati 
                  nazionali per formare un'universale "assemblea dei popoli". 
                  I suoi promotori erano, fra gli altri, Bertrand Russell, lord 
                  Boyd Orr, Alfred Kastler e il sindaco di Hiroshima; in Spagna 
                  credo che il suo principale rappresentante a quell'epoca (fine 
                  anni Sessanta) fosse il padre gesuita José María 
                  Llanos. Più tardi, confesso di aver sviluppato un certo 
                  sciovinismo europeista, che col tempo è finito per affinarsi 
                  dentro di me in un'opzione politica razionale: provo un'emozione 
                  verso l'Europa, e vedo nell'unione continentale la migliore 
                  alternativa ai due grandi imperi che ci schiacciano. All'infuori 
                  di questa ampia federazione tutto mi sembra solo una provinciale 
                  cagnara...¹
 
  Nella foto: Bayanne, le lapidi ai caduti dell'ETA
     Delirio 
                  patriottico-criminale
 Se dall'inizio della transizione democratica ho appoggiato 
                  con decisione le autonomie storiche in Spagna, non è 
                  stato certamente per il più remoto sentimento di nazionalismo 
                  basco o catalano, ma per una profonda nausea verso il patriottismo 
                  nazionalista spagnolo. Come dicevo nel mio saggio El nacionalismo 
                  performativo, pubblicato nel 1977, c'è un uso antistatale 
                  del nazionalismo, proprio della seconda metà di questo 
                  secolo, per mezzo del quale i membri delle collettività 
                  istituite cercano una partecipazione più diretta e "sentita" 
                  nella gestione dei loro affari che quella propinata dall'astrazione 
                  uniformatrice dello Stato centralizzatore. Ma, già allora, 
                  insistetti abbondantemente sul fatto che "non è 
                  la stessa cosa rendersi indipendenti dallo Stato e fondare uno 
                  Stato indipendente"; non si curano i mali dello Stato facendone 
                  uno più piccolino e poi mettendogli sopra il cappello... 
                  Certamente, il movimento autonomista ridestò immediatamente 
                  le meschinità burocratiche del centralismo, le ire dei 
                  paladini della "sacra unità della Spagna" e 
                  le sospettose proteste di coloro che vedono sempre nell'altrui 
                  particolarità - rispettata soltanto a parole - voglie 
                  più o meno dichiarate di dar fastidio a qualcuno. Abbondano 
                  gli esempi a questo proposito, incluso il famoso e penoso manifesto 
                  degli intellettuali anticatalanisti, le cui esagerazioni inopportune 
                  non riuscirono a raggiungere altro risultato che impedire una 
                  discussione serena su quelle due o tre denuncie di veri e propri 
                  abusi che riportava il loro testo. Non ho mai appoggiato alcuna di queste posizioni restrittive 
                  e neo-spagnoliste, né mai le appoggerò in futuro. 
                  Ma nemmeno starò mai al fianco di coloro che concepiscono 
                  la rivendicazione delle culture emarginate come folclorismo 
                  a buon mercato e come negazione risentita della funzione cosmopolita 
                  dell'arte, della letteratura e della scienza. Né mi pare 
                  più difendibile il delirio patriottico-criminale di coloro 
                  che fanno del nazionalismo radicale la bandiera di una lotta 
                  armata che può rovinare non solo il popolo che si dichiara 
                  di voler difendere, ma perfino la democrazia in tutto lo Stato. 
                  Rispetto a ciò, ho sempre difeso i medesimi punti di 
                  vista: chi lo dubita può consultare, se lo desidera, 
                  il mio sopraccitato El nacionalismo performativo e Nacionalismo 
                  y violencia en Euskadi (ambedue inclusi nel mio libro Impertinencias 
                  y desafíos, Legasa, 1979) e ancora Del terror 
                  y la violencia (in Para la anarquía, Tusquets, 
                  1977). Al proposito, quando presentai questo ultimo testo ad 
                  una tavola rotonda sullo Stato, condotta dal cordiale e saggio 
                  François Châtelet all'Università di Vincennes, 
                  ebbi un piccolo scontro dialettico con J. F. Lyotard riguardo 
                  all'attentato nel quale perse la vita Carrero Blanco: allora, 
                  come sempre, mi mostrai contrario - per ragioni non solo etiche 
                  ma anche politiche - alla pedagogia della violenza e all'utilità 
                  del sic semper tyrannis.
     Mafia 
                  terrorista
 Quattro anni fa ho avuto la cattedra nella Facoltà di 
                  Filosofia di Zorroaga, a San Sebastián, che fa parte 
                  dell'Università dei Paesi Baschi. Mi è parsa una 
                  posizione più onorevole e stimolante che non continuare 
                  ad essere un "abertzale da salotto" a Madrid 
                  [abertzale nell'ambito dell'indipendentismo basco significa 
                  patriota, N.d.T.], come tanti altri che per nostra disgrazia 
                  conosciamo. Inoltre, spiegare che l'etica è la ricerca 
                  della comunicazione razionale e il rifiuto della violenza mi 
                  pareva un lavoro più necessario e pressante nella mia 
                  terra piuttosto che altrove, poiché la perdizione o la 
                  rigenerazione dell'Euskadi dipende proprio da questa gioventù 
                  sempre più desiderosa di sapere e sempre più stufa 
                  di parole d'ordine. Questa permanenza in terra basca mi ha permesso 
                  di provare sulla mia pelle alcune cose. In primo luogo, ho visto 
                  come la vitalità comunitaria, ludica, e il desiderio 
                  di cambiare le tante cattive abitudini quotidiane che caratterizzano 
                  il popolo basco dagli inizi degli anni Settanta hanno sofferto 
                  in certa misura di un corto circuito per la polarizzazione del 
                  "violenza sì/violenza no" che oggi predomina 
                  in Euskadi. Rispetto a ciò, credo più che mai 
                  nell'assioma di Bart de Ligt, esposto nel suo The Conquest 
                  of Violence (1937): "Quanta più violenza, tanto 
                  meno rivoluzione". Quanta ragione ha avuto, ha ed avrà 
                  questo detto! In secondo luogo, ho provato sul terreno che la 
                  semplice e stupida repressione, il mantenimento vergognoso o 
                  spudorato della tortura, la guerra sporca (ossia l'assassinio 
                  eseguito in nome di una difesa illegale della legalità) 
                  non servono ad altro che a generare e poi rafforzare la mafia 
                  terrorista e quel confuso accecamento patriottico che le fornisce 
                  un alibi. Ho constatato inoltre le grottesche limitazioni dell'idea 
                  nazionalista nella cultura universitaria. Il dipartimento di 
                  Filosofia di Zorroaga è stato ed è ancora mentre 
                  sto scrivendo queste righe - ma non so purtroppo per quanto 
                  tempo ancora - uno degli esperimenti di docenza e di intellettualità 
                  più stimolanti all'interno dell'intera università 
                  spagnola negli ultimi anni: fra le sue fila si contano professori 
                  del calibro di Jacques Derrida e Félix de Azúa, 
                  Rafael Sánchez Ferlosio e Pierre Aubenque, Víctor 
                  Gómez Pin, Miguel Sánchez Mazas, Tomás 
                  Pollán, Victor Sánchez de Zabala, Javier Fernández 
                  de Castro, Javier Echeverría, Vicente Molina Foix, poeti, 
                  biologi, fisici, romanzieri, critici d'arte, eccetera. Abbiamo 
                  avuto fra i nostri professori catalani, leonesi, valenziani, 
                  castigliani, andalusi e naturalmente baschi. Siamo stati dei 
                  pionieri nello sforzo di convertire la lingua basca in un linguaggio 
                  filosofico di uso universitario. Però non siamo stati 
                  né partigiani né folclorici, e non abbiamo fomentato 
                  a nessun livello la mitologia del kaiku [tipico indumento 
                  basco: una giacchetta di panno per le cerimonie, N.d.T.]. Per 
                  questo siamo risultati "sospetti", ci siamo trovati 
                  di fronte a mille difficoltà burocratiche risibili o 
                  irritanti, e soprattutto non abbiamo ricevuto un solo gesto 
                  positivo di riconoscimento e di incoraggiamento da parte 
                  delle autorità accademiche o dal ministero della Cultura 
                  del governo basco. È penoso constatare come quest'ultimo 
                  abbia continuato a dar più ascolto ai gesuiti dell'Università 
                  di Deusto che a noi. Recentemente con il motivo di omaggiare 
                  l'appena scomparso Xavier Zubiri - convertito nell'Aristotele 
                  del xx secolo da una sempre ben informata autorità locale 
                  - in una commemorazione cui il nostro dipartimento non è 
                  stato nemmeno invitato, si è parlato della "scarso 
                  radicamento della Facoltà di Filosofia nella realtà 
                  dei Paesi Baschi". Fare settimane di studi su Goethe, Marx, 
                  Gerarchia, Potere e così via, che hanno attirato un numerosissimo 
                  pubblico, è pertanto una cosa senza interesse, a quanto 
                  pare, soprattutto se paragonata ad una qualsiasi sessione beatificatrice 
                  di catecumeni aranisti [seguaci di Sabino Arana Goiri, fondatore 
                  nel 1894 del pnv, il Partido Nacionalista Vasco, N.d.T.]. E 
                  allora, porca miseria... [in italiano nel testo, N.d.T.].    Nella foto: la moglie di un militante dell'ETA ucciso 
                  in un attentato
    Esplicita 
                  testimonianza
 Infine, la più dolorosa e allarmante delle mie constatazioni 
                  è stata quella della paura imperante in Euskadi 
                  di dire chiaramente quello che si pensa quando si pensa veramente. 
                  Non semplice paura che ti sparino addosso o che ti considerino 
                  un apologeta del terrorismo (non c'è nulla di più 
                  facile che correre ambedue i rischi simultaneamente), ma la 
                  paura che ci si faccia il vuoto attorno, che si perdano gli 
                  amici, che ci chiudano le loro pagine i giornali locali o che 
                  la gente si allontani dal nostro fianco all'ora del poteo [espressione 
                  basca che indica la consuetudine conviviale di passare di bar 
                  in bar, fermandosi in ognuno a bere almeno un bicchiere, N.d.T.]. 
                  Se qualcosa di elogiabile hanno le considerazioni che seguono 
                  - limitate per tante ragioni ma soprattutto per le evidenti 
                  insufficienze dell'autore - è che sono state scritte 
                  con rispetto e con appassionata onestà, ma senza paura. 
                  A tutti quelli che in Euskadi pensano ma ancora tacciono, "perché 
                  siamo fra due fuochi e non vogliamo fare il gioco di nessuno", 
                  io ricordo questo passo del maestro messicano Alfonso Reyes: 
                  "E, tuttavia, diciamo ancora con Saint-Beuve che ci sono 
                  momenti in cui tutti i cittadini devono leggere, notte dopo 
                  notte, una pagina di Montaigne. Nell'atteg-giamento di Montaigne 
                  di fronte al suo secolo non scopriremo alcuna debolezza, né 
                  alcunché che ce ne dia il diritto: rimanere sereni di 
                  fronte alle follie popolari è infatti il più grande 
                  eroismo. I capi della politica sono generalmente uomini sciocchi 
                  e letterati falliti. Nobiltà d'animo è non darsi 
                  a loro, anche quando i ghibellini ci prendono per guelfi, e 
                  i guelfi per ghibellini". E non si dimentichi nemmeno che 
                  a volte, fra gli impegni di un lucido e sereno scetticismo, 
                  vi è anche quello, sempre delicato, di convertirsi in 
                  un'esplicita testimonianza.  Fernando Savater (Traduzione dal castigliano
 di Nicola Del Corno)
 
   
                   
                    | 
                         
                          |  | Nato 
                              San Sebastian (Paesi Baschi), Fernando Savater è 
                              attualmente docente di Filosofia nell'Università 
                              di Madrid. Autore di numerosi libri (non solo saggi 
                              ma anche romanzi ed opere teatrali), ricordiamo 
                              tra le sue opere più recenti apparse in edizione 
                              italiana: Politica per un figlio (Laterza, 
                              1995), Dizionario filosofico (Laterza, 1995), 
                              A mia madre, mia prima maestra (Laterza, 
                              1997), Etica per un figlio (Laterza, 1997), 
                              Etica come amor proprio (Laterza, 1998). 
                              Savater ha partecipato più volte ad iniziative 
                              culturali promosse dal movimento libertario spagnolo, 
                              a volte in occasione dei congressi della CNT - il 
                              sindacato di ispirazione anarcosindacalista.  
                              Il volume ora pubblicato da Eleuthera (pagg. 180, 
                              lire 25.000) è originariamente apparso in 
                              Spagna nel 1984 e ripubblicato, con una nuova introduzione, 
                              nel '96. Questa prima edizione italiana si apre 
                              con una prefazione di José Angel Gonzàlez 
                              Sainz, docente di Letteratura spagnola nel Dipartimento 
                              di Iberistica dell'Università di Venezia. |  |    |