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 Oltre la storia dellanarchismo di Massimo La Torre Rispetto ad un libro di più di 
                  mille pagine comè quello di Nico Berti la reazione non 
                  può che essere dammirazione: ammirazione per la vastità 
                  del campo di ricerca e del sapere snocciolato in una prosa dagevole 
                  lettura, per la enorme capacità di lavoro, per lo sforzo 
                  di completezza. In effetti, non era stata finora tentata, almeno 
                  nellambito culturale di lingua italiana, unopera di questa 
                  mole interamente centrata sul pensiero libertario. Linformazione 
                  di Berti al riguardo è enciclopedica, la sua prospettiva 
                  di studio articolata, il suo interesse oltreché storico 
                  genuinamente teorico. Detto ciò, in queste poche righe 
                  non mi soffermerò sui meriti (indiscutibili) della sua 
                  interpretazione dei "classici" dellanarchismo (da 
                  Godwin a Malatesta) e degli "irregolari" che possono 
                  ascriversi a questo (Merlino, Caffi, Rizzi), anche se forte 
                  è la tentazione di dire qualcosa per esempio sulla configurazione 
                  teorica attribuita a Merlino. Ma mi trattengo, in considerazione 
                  non solo dello spazio che posso utilizzare qui ma anche del 
                  fatto che tale configurazione dipende dalla più generale 
                  concettualizzazione dellanarchismo difesa da Berti e presentata 
                  nel primo capitolo del volume.La tesi di Berti è che lanarchismo sia un pensiero 
                  ossessionato dalla storia. Però a contrario, per così 
                  dire. "Pur opposti, socialismo e anarchismo - scrive - 
                  partecipano della stessa credenza e vivono dello stesso mito: 
                  la supremazia della storia rispetto alla politica"(p. 23). 
                  E quanto afferma qui Berti è certo, anche se tra il socialismo 
                  (inteso come marxismo) e lanarchismo vè unimportante 
                  differenza rispetto al loro atteggiamento rispetto alla storia: 
                  il primo (il socialismo) vuole sempre farsi portare - per così 
                  dire - dalla storia, essere in sintonia con questa, mentre lanarchismo 
                  di sintonia non vuol proprio saperne ed invece è ostinatamente 
                  proteso ad opporsi alla storia. In questo - e ciò è 
                  ben sottolineato da Berti - entrambi sono ossessive filosofie 
                  della storia e dunque risultano disattenti verso la politica 
                  come presente né causato da un passato né condizione 
                  già sufficiente del futuro. Per il socialismo il presente 
                  ha significato e rilevanza in quanto pegno di futuro, causa 
                  di un effetto che è un tempo successivo. Per lanarchismo 
                  invece il presente è marchiato sempre e comunque dal 
                  fatto di provenire da un passato, davere avuto una causa che 
                  lo ha prodotto. Il socialista può così in parte 
                  riconciliarsi col presente ma solo come attesa di un evento 
                  che verrà. Lanarchico è in perenne lotta col 
                  presente perché questo è figlio del passato. Assistiamo 
                  dunque a ciò che Berti chiama "la supremazia della 
                  storia rispetto alla politica". Nellanarchico tutto ciò 
                  ha come conseguenza - oggigiorno divenuta tragica - del suo 
                  compiacersi della propria marginalità rispetto al suo 
                  tempo, nel crogiolarsi nello spazio dellesclusione e dellinsignificanza 
                  politica. Ché - si badi - essere rilevante politicamente 
                  è esserlo nel presente.
 Ora, questa interpretazione, insieme a quellaltra per cui 
                  lanarchismo è ad un tempo momento estremo del processo 
                  di secolarizzazione e nondimeno reazione a questo e così 
                  fusione di etica e politica, questo prisma interpretativo è 
                  acuto, equilibrato, corretto. Esso però vale solo - e 
                  qui, io credo, Berti è meno sorretto dalla sua abituale 
                  sensibilità storico-teorica - per una parte dellanarchismo, 
                  quella romantica, quella che muove da Bakunin e si afferma con 
                  la vulgata di Kropotkin e Malatesta. Ma - checché ne 
                  dica Berti - questo non è tutto lanarchismo, ne è 
                  lanarchismo "paradigmatico". Il mito insurrezionale 
                  è estraneo ai più raffinati teorici del pensiero 
                  libertario: Godwin, Stirner e Proudhon. Bakunin vi aggiunge 
                  certo la potenza della sua personalità e del suo carisma, 
                  oltreché una buona dose di idealismo fichteano, e ne 
                  fa un programma di "partito". Ma il Russo non dimentica 
                  il suo punto di partenza, e il mito, la storia e la volontà 
                  romantica non oscurano in lui le ragioni - più asciutte 
                  - della politica. Le quali in questa linea di pensiero - con 
                  tutte le loro differenze - vanno rinvenute nellidea di una 
                  democrazia intesa in senso radicale e portata alle sue estreme 
                  conseguenze. Vè dunque - oltre il romanticismo - unaltra 
                  radice dellanarchismo ( ripresa poi tra gli altri e in maniera 
                  particolarmente pregnante da Merlino): io la chiamerei - rifacendomi 
                  ad un recente dibattito filosofico-politico - la radice del 
                  repubblicanismo. Quando Bakunin, contrapponendo la nozione comunitaria 
                  di libertà dellanarchico a quella insolidale del liberale, 
                  afferma che la libertà di ciascuno non è limitata 
                  bensì potenziata e garantita dalla libertà di 
                  tutti non sta che riprendendo un vecchio motivo conduttore del 
                  pensiero "repubblicano": dellidea di democrazia deliberativa 
                  in cui la libertà non è mera assenza di costrizione 
                  ma indipendenza rispetto allintera sfera della buona vita , 
                  non sicurezza sotto lo scudo di una legge bensì capacità 
                  effettiva di intervenire e produrre la legge. Si ricordi a questo 
                  proposito che in Théorie de la propriété 
                  - uno degli ultimi libri di Proudhon - la nozione di proprietà 
                  accettata dal Francese è molto simile a questa nozione 
                  di "indipendenza", un àmbito di autonomia autogenerato 
                  dal soggetto mediante la produzione di titoli giuridici ed il 
                  controllo su di essi.
 Oltre al rifiuto della politica (che nel "repubblicanismo" 
                  ovviamente non si ritrova) un altro punto che merita dessere 
                  sottolineato come chiave di lettura della storia dellanarchismo, 
                  e anche come altra ragione della sua progressiva ed apparentemente 
                  irrimediabile marginalizzazione, è la strettissima connessione 
                  stabilita da questo tra etica e politica. La separazione di 
                  queste due sfere non va letta unicamente come machiavellica 
                  autonomizzazione della politica e legittimazione della Ragion 
                  di Stato, come trionfo dei mezzi (la razionalità strumentale) 
                  sui fini (la razionalità secondo il valore). La separazione 
                  di etica e politica, che - come dice acutamente Berti- rappresenta 
                  una mutazione epocale la quale è condizione necessaria 
                  della stessa "concepibilità" dellanarchismo 
                  (ponendo allordine del giorno il problema della giustificazione 
                  del potere politico in epoca pre-moderna data in buona sostanza 
                  per scontata), tale separazione è anche una mossa che 
                  permette la pluralità degli stili di vita allinterno 
                  di una medesima comunità politica. Ora, questo problema 
                  non sembra essere chiaramente avvertito dallanarchico per il 
                  quale infatti la società anarchica è una società 
                  di anarchici, non avvertendo tra laltro che una società 
                  anarchica come società di anarchici è una nozione 
                  per un verso politicamente irrilevante - giacché dà 
                  per risolti in via di principio i problemi della coordinazione 
                  politica delle condotte spostando la questione sul piano etico 
                  - e per altro verso è contraddittoria - giacché 
                  presuppone che non vi siano contrasti reali sulla conformazione 
                  dello stile di vita dominante dando per definita una volta per 
                  tutte i contenuti dellautonomia dei soggetti -. Ma per lanarchismo 
                  movimento romantico la virtù come intenzione pura è 
                  più importante della condotta esterna. Non lintero lanarchismo 
                  tuttavia passa attraverso la cruna dellago di una siffatta 
                  riduzione delletica alla politica. Non tutto lanarchismo è 
                  in questo senso "religioso".
 Bene, è da qui (repubblicanismo più separazione 
                  di etica e politica) che si può riscrivere in parte la 
                  storia del pensiero anarchico ed anche ravvivarne il significato 
                  "pubblico". Infine, sia detto en passant, con il libro 
                  di Berti si conclude in certa misura una linea assai proficua 
                  di studi storici. Dopo questa summa è un altro il còmpito 
                  che ci si può aspettare dallintellettuale libertario: 
                  quello di darci risposte normative, di offrirci un modello teorico 
                  dellanarchismo allaltezza della sua fama storica. Elogia Berti 
                  "la libertà anarchica che fa coincidere la libertà 
                  delluno con la libertà di tutti" (p. 19). Benissimo, 
                  ma che vuol dire? Come si fa operativamente a conciliare la 
                  libertà di ciascuno con quella di tutti gli altri? Con 
                  che princìpi? Quali sono i criteri normativi che rendono 
                  possibile quella conciliazione o - usando la formula forte di 
                  Berti - coincidenza? Non basta certo affermarla a parole la 
                  coincidenza, non basta il gesto romantico, per renderla possibile. 
                  Ma qui non è più alla storia ma alla filosofia 
                  che dovrà farsi ricorso.
  Massimo La Torre
 
 Anarchia, no grazie di Salvo Vaccaro Il libro di Nico Berti, nella sua vastità 
                  faticosa di riflessione (e ciò vale tanto per lautore 
                  che per il lettore), si presenta apparentemente come un testo 
                  di storia del pensiero anarchico. E come tale già meriterebbe 
                  una serie di considerazioni sia sulle interpretazioni dei singoli 
                  "classici" (aspetto ancora una serrata critica della 
                  natura proprietaria dellio stirneriano), sia sulla rilettura 
                  politica dello scontro allinterno della I Internazionale o 
                  dellanarcosindacalismo, sia sulla scelta finale di concludere 
                  il novecento con tre autori libertari non-anarchici.Questo è il compito, almeno credo, di una critica 
                  che si muova sul terreno della storia del pensiero. Ma i pilastri 
                  su cui si regge (è proprio il caso di dirlo) lintera 
                  architettura del testo di Berti, con tutte le sue tensioni, 
                  sono a mio parere apparentemente di ordine storico, laddove 
                  io scorgo una fortissima opzione teorica, quasi filosofica oserei 
                  affermare. Ed è su questa scelta di campo, esplicitata 
                  interamente solo nellintroduzione - ma di cui è possibile 
                  intravedere alcuni rilievi nel corso dopera, che acquistano 
                  più chiarezza proprio per via del taglio introduttivo 
                  - che intendo soffermarmi.
 La storia è un destino? In tedesco cè un bel 
                  gioco di parole tra storia (Geschichte) e destino (Geschick) 
                  che adombra una affinità. Sarà poi vero? E letimologia 
                  in negativo dellan-archismo è un destino ineluttabile? 
                  Già, perché il negativo non denoterebbe altro 
                  che un rovesciamento: ma un guanto rovesciato sempre guanto 
                  rimane... Conosciamo bene il terreno principale su cui si attua 
                  il rovesciamento anarchico: la critica della politica - intendendo 
                  per essa listituzionalizzazione di uno solo degli ordini possibili, 
                  quello statuale (non statale, ma autoritario al di qua e al 
                  di là delle forme storiche contingenti). Lantipolitica 
                  anarchica è il più alto esempio di coerenza ideologica. 
                  Tuttavia essa non ripudia un piano coevo ad ogni politica: lidea 
                  di organizzare una società in maniera globale, esaustiva, 
                  compiuta, perfetta (non sempre armonica, ma quasi angelica); 
                  è la pretesa anche dellideologia anarchica, la ubris 
                  dellappartenenza aggettivata: una società anarchica, 
                  e quella sola. Altri direbbero, una ennesima forma di teologia 
                  politica, insufficentemente secolarizzata. Come del resto ogni 
                  forma moderna di teoria politica, che ha rovesciato la società 
                  religiosa in società laica mutandone i fattori in gioco, 
                  ma non lo stile. Curiosa forma di dialettica antipolitica, che 
                  ancora necessita di una ulteriore spinta secolarizzatrice che 
                  la proietti oltre la circolarità di una società 
                  chiusa e conchiusa allinterno del perimetro identitario dellaggettivazione: 
                  una società anarchica, solo così, e a chi non 
                  garba, in esilio! Già, ma dove, se lideale è 
                  una società anarchica universale?...Proviamo ora ad affrontare questo nodo aporetico da un altro 
                  lato. Intento in ultima analisi dellanarchismo è quello 
                  di ripiegare la forza. Suona quasi come un titanismo antropologico, 
                  ma in effetti lanarchismo nella sua ferrea critica dellautorità, 
                  e la società anarchica senza autorità né 
                  dominanti, ossia con autorevolezze che non esercitino dominio, 
                  ossia con poteri circoscritti, revocabili, equilibrati reciprocamente, 
                  autocontrollati nel loro esercizio, in fin dei conti intende 
                  soggiogare un elemento vitale presente nella specie umana, forse 
                  ineliminabile, comunque riconducibile a più miti pretese 
                  se incastonato - ingabbiato - in un sistema che ne limiti la 
                  potenza invasiva e distruttiva, soggiogante cioè. Bene, 
                  la risposta anarchica è differente da quella statuale, 
                  che intende neutralizzare la forza accentrandola e capitalizzandola 
                  come risorsa virtuale e simbolica, ossia dandole una verticalità 
                  gerarchica che si replica indefinitamente anche quando, materialmente, 
                  lo stato non ne ha lesclusivo monopolio, come pure pretende. 
                  La risposta anarchica, contraria tutto sommato a una neutralizzazione 
                  sublimante che sposta lesercizio della forza a livello microfisico, 
                  nel quotidiano, senza che ciò porti alla guerra permanente 
                  (la lunga storia della stuatualità da Platone ad oggi, 
                  via Hobbes e Weber), ma con ciò stesso interiorizzandone 
                  il modulo di formazione e funzionamento, ha il suo lato debole 
                  nella misura in cui esalta lelemento sociale in contrapposizione 
                  alla forza politica. Se la politica mira costitutivamente a 
                  neutralizzarla, la socialità, lungi dal ridurla, mira 
                  a dispiegarla, a diffonderla più o meno "egualitariamente" 
                  in dosi non pericolose per lintero sistema: tipici sono i ricorrenti 
                  scoppi di violenza, non meno feroci e autoritari, seppure non 
                  istituzionalizzati. Su questo lato, la risposta anarchica è 
                  insufficente perché il dispiegamento della forza, o presuppone 
                  una autoregolazione non micidiale - come se ci fosse una mano 
                  invisibile di mercato - oppure viene ri-piegata dallaggettivazione 
                  che riconosce e legittima solo quella riconducibile (per funzionalità 
                  od altro) allistanza che identifica la società compiuta, 
                  finale: il regno dellanarchia sulla terra, unico criterio - 
                  spesso anticipato - da cui ammettere lesercizio della forza, 
                  anche come arma dellantipolitica per liberarsi della (forza 
                  istituzionalizzata della) politica.
 In altri termini, ritengo insufficente questo taglio che 
                  la teoria ha tramandato perché non indaga a fondo (e 
                  in largo) le dinamiche dei legami sociali sui quali ipotizzare 
                  (e praticare) ripiegamenti della forza in modo che rimangano 
                  passioni e affezioni non micidiali, non assoggettanti: il problema 
                  impolitico che da de La Boétie a Reich si è posto 
                  nei secoli passando per Spinoza e Nietzsche sino a Deleuze e 
                  Foucault (nella mia nominazione ideale che svela il versante 
                  filosofico prescelto).
    Per un ulteriore disincanto
 	Come aggredire, allora, quellaporia? Contrariamente, 
                  forse, a quel che pensa Nico Berti, che separa nettamente lelemento 
                  negativo della teoria an-archica dallaspetto affermativo praticato 
                  dal movimento anarchico militante (con tutti i limiti storici 
                  e strategici, beninteso), io sarei del parere che, nel negativo, 
                  viene introiettato lelemento utopico che, paradossalmente, 
                  finirebbe col proiettare una ipotesi affermativa di anarchismo. 
                  E mi spiego.Perché, discutendo di anarchia e anarchismo, tra/da 
                  anarchici, su una rivista anarchica, correrei il folle rischio 
                  di farmi "linciare" affermando la mia contrarietà 
                  a una società anarchica? La risposta sta nellunità 
                  singolare a cui lo spazio sociale verrebbe ri(con)dotto, ossia 
                  nella pretesa (inconsapevole, peraltro) di totalità autoreferente, 
                  chiusa in se stessa, da ultimo stadio dellesistenza, che il 
                  pensiero anarchico ("illuminato" anche da Hegel...) 
                  dà della società anarchica. La medesima arroganza 
                  che colpisce ogni ideologia (liberalismo, capitalismo, comunismo 
                  marxiano, islamismo, cristianesimo, ecc.) quando intende ordinare 
                  la pluralità eccedente di ogni legame associativo possibile 
                  tra individui in uno schema (regime) gioco forza binario: inclusivo-esclusivo, 
                  integrante-espulsivo.
 Tutto ciò è teologia politica, che nel pensiero 
                  anarchico, oltre che dai Lumi della modernità, proviene 
                  anche da quel messianesimo chiliastico che "sogna" 
                  di abolire il dominio per sempre, estirpandone la radice antropica, 
                  essendo cioè sicuro sia di individuare il vizio antropocentrico, 
                  sia di eliminarlo alla radice, per sempre. Come se si potesse 
                  porre un fine alla casualità caotica dellesperienza 
                  umana nei tempi, asserendo la possibilità non di una 
                  utopia (la negazione indeterminata è appunto transitoria 
                  e immanente), ma della sua risoluzione (Aufhebung hegeliana, 
                  appunto) nel capolinea finale della storia dellumanità. 
                  E dopo?
 	Eppure lutopia anarchica ci serve come sprone per un ulteriore 
                  disincanto, anche delle nostre stesse favole, pardon, racconti, 
                  narrazioni, argomentazioni fondate su un terreno che crediamo 
                  ben saldo (la negazione infinita) ma che si rivela, colto da 
                  questo lato, precario e forse un po pericoloso. Se sono contrario 
                  allidea di una società anarchica - proprio perché 
                  contrario alle aggettivazioni che riducono allunità 
                  dellappartenenza esclusiva - mi dichiaro favorevole a legami 
                  sociali libertari, ossia a società libertarie.Non credo che sia il caso di dichiarare quanto la socializzazione 
                  tra individui sia costitutiva degli individui stessi, come i 
                  legami sociali siano di ordine culturale, giammai naturali o 
                  spontanei, come sia inverosimile parlare di stipulabilità 
                  o contrattazione riguardo a essi, semmai di processi di associazione 
                  societaria che danno corpo a immaginari e progettualità 
                  collettive. Puntare lenfasi su legami sociali liberi e libertari 
                  significa rompere lunità non solo statuale, ma anche 
                  sociale, cioè di una unica società, in cui lelemento 
                  di pluralità e indeterminatezza infinita sarebbe contenuta 
                  e possibile solo allinterno di un contesto unitario che legittima 
                  alcuni legami sociali e non altri (non sempre è la legge 
                  di stato a dettare norme: pregiudizi, stereotipi, convenzioni 
                  sono eredità sociali difficili da estirpare sia che vengano 
                  rafforzate da leggi statali, sia che vengano ridimensionate 
                  da leggi progressiste).
 Rompere lunità della società significa propugnare 
                  una pluralità di stili di vita la cui infinità 
                  storica (asintotica, mai perfettamete compiuta) si caratterizzerebbe, 
                  in unottica libertaria (ahimè! non sempre si sfugge 
                  allaggettivazione! ma quanto meno non è indice di appartenenza), 
                  da alcuni minimi comuni denominatori, tra i quali, tanto per 
                  dare un esempio grezzo, il controllo a rete che i conflitti 
                  emergenti tra i differenti stili e opzioni di vita - non solo 
                  individuali - siano risolubili in modo non autoritario, ossia 
                  per conciliazione, per argomentazione dialogica, per secessione 
                  consensuale. Si verrebbe così a esautorare ogni unità 
                  delle differenze, sia che tale unità venga catturata 
                  dalla forza statuale, sia che venga diffusa come virus nelle 
                  pieghe della società, che ne replicherebbe la verticalità 
                  gerarchica, come del resto è visibile in istituzioni 
                  non statali, bensì sociali.
 Si verrebbero così a eliminare le istituzioni statuali, 
                  politiche, che rafforzano le aspettative nel gioco di domanda-risposta 
                  in cui viene incanalato il pluralismo delle istanze sociali 
                  una volta superato il filtro del riconoscimento in quanto tali: 
                  la fedeltà, la coerenza, la permanenza, contro la libertà, 
                  la responsabilità, la fantasia, la precarietà. 
                  E si verrebbe così a indebolire, oltre alla statualità, 
                  anche il concetto e la pratica di unità sociale, che 
                  nomina i legami sociali eleggibili, sceglibili in patti o contratti 
                  da rispettare pena la messa fuori campo, lespulsione dal sacro 
                  recinto quale è la società, al singolare appunto.
 A che servirebbe allora lanarchismo e lutopia dellanarchia? 
                  Ma proprio come riserva di tensione collettiva e individuale! 
                  Io non so se con ciò si traduce lidea di Nico Berti 
                  di considerare fondamentalmente etico, perché antipolitico, 
                  lopzione anarchica. Ho profonda allergia per linterscambiabilità 
                  tra etica e morale, la quale ha una accezione prescrittiva per 
                  me inaccettabile, laddove ethos rimanda a ciò che ho 
                  definito stile di vita, singolare e collettivo insieme, non 
                  a caso un termine preso a prestito da un vocabolario estetico, 
                  quasi a significarne la gratuità intrinseca, la capacità 
                  di avere a che fare con facoltà non prettamente politiche 
                  quali la passione, laffezione, la sensibilità (notoriamente 
                  bandite dalla politica) che usano la propria forza in modo non 
                  invasivo, non assoggettante, ma ripiegandosi nella pluralità 
                  degli stili, gli uni accanto agli altri.Se così è, la tensione etica dellanarchismo 
                  indica il senso di responsabilizzazione e del limite alla pretesa 
                  affermativa dellutopia fondatrice di una società anarchica. 
                  Così si risolve grossomodo quel paradosso di una utopia 
                  affermativa, declinando la tensione in negativo dellan-archismo 
                  con la progettualità sperimentale di legami sociali liberi 
                  e libertari. E qua muta radicalmente anche il concetto di tempo 
                  rivoluzionario, che Berti fa coincidere con il tempo storico 
                  ("nella storia ma contro la storia", secondo una felicissima 
                  formulazione), a differenza di tutta una tradizione di filosofia 
                  politica, in ultima analisi erede della teologia politica. La 
                  politica dei due tempi, infatti, tipica di ogni concezione rivoluzionaria, 
                  compresa quella anarchica (tranne lultimo, grandioso, Malatesta), 
                  perpetua infatti letimo originario di "rivoluzione", 
                  ritorno ciclico (la re-volutio della volta celeste con pianeti 
                  e stelle e il loro moto ellittico circolare), secondo cui la 
                  rottura è distinta dal momento ricostruttore, che fatalmente 
                  coincide, mutatis mutandis, con ciò che si è distrutto 
                  sotto altre forme. E ormai è risaputo che la rottura 
                  è un processo fisiologico di un divenire sociale catturato 
                  dal capitale, per il quale distruggere è sopravvivere, 
                  autoreplicarsi, rinascere sotto mutate costellazioni.
 Ecco perché la progettualità sperimentale 
                  della teoria (strategica) anarchica non può assumere 
                  come elemento cardinale la rottura rivoluzionaria, bensì 
                  la distruzione del tempo rivoluzionario (a due fasi) assumendo 
                  il presente come transizione permanente, come affermazione altra 
                  che distrugge mentre costruisce, come divenire-rivoluzionario, 
                  in una parola, come gradualità malatestiana.
 Divenire oggi: questa è la sfida distruttiva-costruttiva 
                  insieme, e non tanto il problema della rivoluzione di massa 
                  (o, ridicolmente, della insurrezione di massa legata a quella 
                  politica dei due tempi). Divenire-altro come indice di una utopia 
                  che esperisce legami sociali in tutte le dimensioni dellesistenza, 
                  stilizzando la propria vita insieme a quella altrui e sperimentando 
                  altro - da ciò che si chiama famiglia a ciò che 
                  si chiama scuola, da ciò che si chiama relazione ecologica 
                  a ciò che si chiama spazio pubblico. Divenire-minore 
                  come indice di una radicale sottrazione agli input dialettici 
                  cui veniamo bombardati, inducendoci a ingolfarci in conflitti 
                  istruiti senza soluzione di continuità (i falsi dilemmi: 
                  scuola statale o scuola privata, stato sociale o stato neoliberale, 
                  ecc.). Divenire-rivoluzionario come indice della declinazione 
                  congiunta di pratiche stilizzate di legami sociali che erodono 
                  il terreno su cui si fonda la statualità per dinamicizzare 
                  la pluralità, la revocabilità, lallacciabilità 
                  dei legami sociali, evadendo le forme del controllo sociale 
                  che ci inchiodano al conformismo consumistico (ad esempio) e 
                  sfuggendo alle trappole illibertarie della conflittualità 
                  fisiologica dei sistemi capitalistici (ad esempio) che ci fissano 
                  su terreni di esercizio segnati dalla processualità dialettica, 
                  tipica per autoreplicare il gioco di sempre e non presentando, 
                  se non sotto forma sottraente, una fuga che non sia quella di 
                  partecipare al gioco nel ruolo preassegnatodi antagonista (sia 
                  esso riformatore o rivoluzionario).
  Salvo Vaccaro
 
                    
                     
                      |  I 
                          nostri fondi neri 
                            |   
                      |  
                          Sottoscrizioni: Renato Girometta (Roma), 
                            100.000; Valerio Pignatta (Varzi), 36.000; Cesare 
                            Fuochi (Imola), 50.000; Marco Buraschi (Roma), 50.000; 
                            Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla 
                            nel 13° anniversario della morte (26.1.1986), 1.000.000; 
                            Angelo Tantaro (Roma), 2.550; Rino Fiorin (Marghera), 
                            10.000; Guido Barroero (Genova-Pegli), 10.000; Kiki 
                            Franceschi (Firenze), 10.000; Giuseppe Sette (Genova), 
                            10.000; Cariddi Di Domenico (Livorno), 50.000; Giacomo 
                            Prigigallo (Genova-Sestri Ponente), 100.000; Renato 
                            Girometta (Roma), 100.000; Lorenzo e Rosetta (Milano), 
                            200.000; Salvatore Esposito (Francoforte sul Meno 
                            - Germania), 100.000; Claudio Neri e Gabriella Gianfelici 
                            (Roma), 25.000 ; Alfredo Gagliardi (Ferrara), 
                            80.000; Carolina Tobia (Rensselaer - USA) 235.569; 
                            Stefano Quinto (Maserada), 50.000; Luca Todini (Torgiano), 
                            50.000; Gianni Corini (Toronto - Canada) 201.159; 
                            L.D. (Ancona), 300.000; Alfredo Gagliardi (Ferrara), 
                            300.000; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto e 
                            Maria Gori, 100.000; Luigi Simonetti (Pordenone) ricordando 
                            Marina, Donatella e Gigi, 58.000; Enzo Francia (Imola), 
                            50.000; Fabrizio Tognetti (Larderello), 50.000; a/m 
                            Fabio Santin, parte ricavato della mostra di opere 
                            darte, ricordando Marina Padovese, tenutasi a Venezia 
                            in dicembre, 1.070.000; Patrizio Biagi (Milano), 500.000. 
                            Gabriele Marzari (Genova), 20.000; Cosimo Valente 
                            (Torino), 100.000; Alfio Nassaro (Pieve Emanuele), 
                            5.000; Pino Cavagnaro (Genova), 50.000; David Koven 
                            (Vallejo - USA), 160.000; Tiziano Viganò (Casatenovo), 
                            50.000; Liuba e Franco (Ancona), 50.000; Francesco 
                            Trovato (Siracusa), 20.000 ricordando Alfonso Failla; 
                            Marco Tomassini (Roma), ricordando Marco Sanna, 20.000; 
                            Angelo Zanni (Sovere), 20.000;Totale lire 5.443.278.
 Abbonamenti Sostenitori: Aimone 
                            Fornaciari (Liutuntie - Finlandia), 150.000; Mario 
                            Perego (Carnate), 200.000; Nicola Casciano (Novara), 
                            150. 000; L.D. (Ancona), 200.000; Massimo Ortalli 
                            (Imola), 150.000; Antonio Ruju (Torino), 200.000; 
                            Giovani Bava (Mondovì), 150.000; Piero Cagnotti 
                            (Dogliani), 200.000; Giordana Garavini (Castel Bolognese), 
                            150.000; a/m Giordana Garavini, Aurelio Lolli (Castel 
                            Bolognese), 150.000; Giorgio Nanni (Lodi) 200.000; 
                            Filippo Trasatti (Cesate), 150.000; Stefano Cempini 
                            (Ancona), 150.000; Zelinda Carloni (Roma), 250.000; 
                            Fabio Palombo (Chieti), 150.000; Franco Leggio (Ragusa), 
                            300.000.Totale lire 2.900.000.
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