| Se essere anarchico significa spogliarsi dogni reticolato 
                  indotto, disfarsi dei ruoli imposti, rifiutare le identità 
                  obbligate, allora oggi per ricordare Fabrizio, a così 
                  pochi giorni dalla sua scomparsa, mi sradico da ogni attesa, 
                  respingo la parte di critico, di chi tenta con troppa sollecitudine 
                  di abbozzare un ritratto già storicizzante dellartista 
                  con quel senso odioso di postumo cui oppongo invece il senso 
                  del presente e del futuro e, come in una nicchia, torno a impadronirmi 
                  della dimensione pura e selvatica dellamico che pur compenetrato 
                  nellinfinita stima e nellutopia struggente che ci ha accomunati 
                  (in un rapporto purtroppo non di lunga data) preferisce calarsi 
                  nella voragine della sua assenza, uno scavo affettivo, esistenziale 
                  e generazionale, che è difficile culturalizzare in un 
                  gergo precotto da intellettuale di regime o da anticonformista 
                  euclideo.Nel 1967 quando Tenco si suicidò avevo ventanni. 
                  Fui attraversato da uno stato danimo che definirei "sentimento 
                  dellorfano". Però quel colpo di pistola risuonò 
                  in me come il colpo dello starter alla partenza: la mia corsa 
                  verso i poeti in musica e sulla mia strada incontrai De André, 
                  una presenza centrale e parallela per tutta la vita. Dimpulso 
                  telefonai a Fabrizio che non conoscevo personalmente ma che 
                  già amavo e gli chiesi di incontrarlo, forse per riacquistare 
                  parentela elettiva con "la famiglia dei poeti". Senza 
                  esitare mi invitò nella sua casa di Genova e mi fece 
                  ascoltare, ancora prima di averla incisa, "Preghiera in 
                  gennaio" la canzone dedicata a Luigi. Prima di congedarmi, 
                  emozionato e in soggezione, gli dissi che stavo per partire 
                  per fare il servizio militare. Si voltò, mi guardò 
                  di sbieco e così proruppe: "Belin, ma cosa vai a 
                  fare il militare, sono tutte cazzate, diserta!" e concluse 
                  affermando che, a causa del panico, non avrebbe mai cantato 
                  in pubblico.
 	  Emozione 	latitante
  	Io non disertai e per fortuna lui, dopo qualche anno, 
                  prese a cantare in pubblico e per la gioventù musicale, 
                  poetica e utopica cominciò unera: il poeta dopo epoche 
                  arcaiche tornava tra la gente con la musica, lasciando la poesia 
                  délite nei salotti transilvanici. Linvocazione di Leo 
                  Ferré si avverava: "La musica, la poesia nelle strade... 
                  e ci verrà!" E nel caso di Fabrizio, una poesia 
                  che coniuga la tenerezza con lindignazione, il sarcasmo con 
                  linvettiva, la pietà con lamore, il sogno con lanarchia. 
                  Il poeta in musica, sebbene raro (ne nasce uno ogni cento anni) 
                  rappresenta nella contemporaneità la forma più 
                  alta e toccante di poesia anche se gli accademici, quelli del 
                  verso cattedratico, non digeriscono questa metamorfosi assumendo 
                  un atteggiamento sprezzante verso chi, ad un linguaggio ermetico, 
                  enigmistico e glaciale, sceglie invece la grande comunicazione, 
                  quella viva, palpitante, diretta, condotta sul filo di unemozione 
                  sempre più latitante in unepoca disidratata da sistemi 
                  sociali inumani, demenziali e distruttivi.Nel 94, ventisette anni dopo il primo incontro, rividi 
                  Fabrizio a un concerto milanese e la fraternità spontanea 
                  che è un fenomeno inspiegabile rifiorì in un attimo 
                  facendomi oggi rimpiangere di non averlo frequentato in tutti 
                  gli anni precedenti. Durante un pomeriggio trascorso a casa 
                  sua, a Milano, mi disse, anche sapendo della mia amicizia con 
                  Leo Ferré, che gli sarebbe piaciuto cantare "Gli 
                  anarchici" e una volta al telefono me la accennò. 
                  E fu per me un onore indimenticabile averlo tra il pubblico 
                  a "Genovantasette", un festival internazionale di 
                  poesia che ogni anno si tiene a Genova e dove in quelloccasione 
                  davo un recital su Ferré assieme a Enrico Medail.
 Anche questanno ci siamo visti a Genova, ma per il suo 
                  ultimo ritorno. Cerano tutti: giovani musicisti di strada che 
                  cantavano, compagni con le bandiere nere e la A cerchiata in 
                  rosso, cantanti famosi, gente del popolo, borghesi pentiti. 
                  E una Nannini rigorosamente fuori dalla chiesa. E io ero in 
                  chiesa, un luogo non adatto a Fabrizio né a me.
    Tre gonne 	indossate
  	Tra la gente "normale" stazionava funambolica 
                  e assente una barbona con tre gonne indossate una sopra laltra 
                  per il freddo e un sacchetto di plastica con la sua casa incorporata: 
                  un personaggio "reale" del mondo poetico di Fabrizio 
                  era lì, per lui. Per lui cerano anche le autorità; 
                  quelle autorità che Fabrizio aveva sempre detestato e 
                  che lo avevano sempre guardato con sospetto e timore adesso 
                  lo omaggiavano, compreso il prete che gli ha riconosciuto di 
                  aver inventato un nuovo alfabeto dellamore per gli umili e 
                  i diseredati. Solo che Fabrizio voleva che gli ultimi fossero 
                  i primi qui, sulla terra, e non in paradiso. La chiesa metabolizza 
                  anche chi la avversa. Ma quelle bandiere nere che sventolavano 
                  meste alla brezza gelata, quelle sì erano lunico sudario 
                  che avvolgeva Fabrizio e i suoi sogni, i sogni di noi tutti. 
                  E solo un concerto sospeso.  Mauro Macario
 
 
 
 
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