Piazza Fontana 1969/ 
				Capire la genesi e la storia di quella bomba 
                Enrico Deaglio, giornalista e scrittore, in questo libro ripercorre, 
                  con gli occhi dell'acuto osservatore, gli anni della sua giovinezza 
                  quando, studente universitario, partecipò con convinzione 
                  ai movimenti di protesta nati nelle scuole e nelle università, 
                  e che attraversarono l'intero paese per approdare alle fabbriche. 
                  Ma va detto subito che questo non è un libro “autobiografico”, 
                  tutt'altro: la presenza dell'autore si dissolve dalla scena 
                  dopo poche battute sparse nel testo. 
                   Il 
                  libro di Deaglio, La bomba. Cinquant'anni di piazza Fontana, 
                  edito da Feltrinelli (Milano 2019, pp. 295, € 18,00), non 
                  è un semplice racconto storico, che si aggiunge all'ormai 
                  vastissima biblioteca sull'argomento, ma un vero e proprio j'accuse 
                  contro le istituzioni, i servizi segreti “non deviati” 
                  (quella dei “servizi deviati” è una leggenda 
                  che questo libro dissolve), i neofascisti, i politici, cioè 
                  lo Stato, perché quella storia è ancora viva e 
                  continua a fermentare i suoi nefasti influssi nel nostro Paese. 
                  Un libro composto non solo da parole ma anche da molte fotografie 
                  dell'epoca che illustrano, in modo preciso, l'intera narrazione 
                  della storia di quella maledetta bomba di Piazza Fontana del 
                  12 dicembre 1969 e le perduranti menzogne del potere che l'hanno 
                  accompagnata. 
                  È importante capire la genesi e la storia di quella bomba 
                  esplosa alla Banca dell'Agricoltura a Milano, che causò 
                  la morte di diciassette persone e novanta feriti più 
                  la morte nella Questura di Milano, tra la notte del 15 e 16 
                  dicembre, dell'anarchico Giuseppe (Pino) Pinelli. Questo tragico 
                  evento – con tutte le stragi che seguiranno e con quelle 
                  che l'avevano preceduto – può aiutarci a comprendere 
                  i mali di mezzo secolo del nostro Paese e di questa democrazia 
                  che, ancora oggi, è messa in discussione da “strani” 
                  personaggi che auspicano i “pieni poteri” e che 
                  trovano ispirazione per la propria azione politica nel nazionalismo, 
                  nel sovranismo e nel razzismo, alimentando un acceso odio xenofobo. 
                  Una storia, dunque, che non passa e che ritorna con un vulnus 
                  “oscuro” nella coscienza di tutti, e che ha segnato 
                  profondamente la generazione di quegli anni. 
                  Va detto per inciso che il libro di Deaglio si legge come un 
                  thriller storico, avvincente, emozionante, con tutti i protagonisti, 
                  vittime e carnefici, che emergono dalla narrazione a tutto tondo, 
                  intorno al “mistero/giallo” da risolvere: chi ha 
                  messo la bomba nel salone della Banca dell'Agricoltura quel 
                  pomeriggio del 12 dicembre 1969? Chi ha pensato e voluto quella 
                  stagione di stragi che è poi passata alla storia come 
                  “strategia della tensione”?1 
                  Chi era veramente presente nella stanza della Questura durante 
                  l'interrogatorio di Pinelli? La tragicità del racconto 
                  è che è tutto vero, nomi e cognomi come le responsabilità 
                  materiali e politiche, e la lettura del libro non lascia nell'indifferenza 
                  il lettore. È un'analisi amara, che lacera la coscienza 
                  di ognuno, capace di travolgere il lettore assillandolo con 
                  domande come: ma in quale paese viviamo? La democrazia italiana 
                  è mai esistita veramente? Cosa sono stati la società 
                  o lo Stato italiano nati dalla Resistenza? 
                  Come scrive Deaglio: «Raccontare la Storia di Piazza Fontana 
                  è anche raccontare la bomba, i suoi complici – 
                  quelli che con felice intuizione gli anarchici del Ponte della 
                  Ghisolfa definirono “lo stato” – e la tenace 
                  lotta che, con pochi mezzi, molto coraggio e molto romanticismo, 
                  gruppi di persone intrapresero per ristabilire la Verità, 
                  molto spesso contro lo spirito dei tempi». Una verità 
                  che nonostante i depistaggi (il depistaggio è stato introdotto 
                  nel Codice penale solo nel 2016, art. 375 bis) e le “amnesie” 
                  degli uomini dello Stato è emersa negli anni, ma che 
                  è necessario ribadire non tanto per cercare una “verità 
                  giuridica”, che dopo anni di inchieste e processi è 
                  ben lungi dal manifestarsi, ma per riconfermare una “verità 
                  storica”: quel massacro fu una «strage di Stato». 
                  Gli italiani in fondo sanno e possono sapere la “Verità” 
                  su Piazza Fontana: parafrasando Pasolini – che il 14 novembre 
                  1974 dalle pagine del «Corriere della sera» lanciò 
                  il suo j'accuse contro i mandanti e gli esecutori delle 
                  stragi – si può affermare che “noi sappiano” 
                  bene chi sono i responsabili di quella strage. Ma all'epoca 
                  dei fatti, come scrive con amarezza l'autore, la «menzogna 
                  era più forte – molto più forte – 
                  della verità». 
                   
                  Il ruolo dei fascisti 
                  La descrizione, ad esempio, di Mariano Rumor nel libro, uno 
                  dei politici e presidente del consiglio dell'epoca, è 
                  esemplare. Uomo della DC, appartenente alla corrente dorotea, 
                  durante l'interrogatorio del noto processo presso il Tribunale 
                  di Catanzaro a proposito della strage di Milano ebbe a rispondere 
                  a «diciotto domande» «con “diciotto 
                  non ricordo”, che rimasero un celebre momento dell'Italia 
                  intesa come repubblica dell'amnesia». Nessuna autorità 
                  politica all'epoca fece bella figura a principiare da Giuseppe 
                  Saragat, presidente della Repubblica, assente ai funerali. 
                  In mezzo a questa palude di “non ricordo”, nella 
                  memoria di milioni di italiani rimase impressa la fotografia, 
                  pubblicata dai quotidiani dell'epoca, della voragine provocata 
                  dalla potentissima esplosione – l'attentato era stato 
                  progettato per causare il maggior numero possibile di vittime 
                  – formatasi nel salone della Banca dell'Agricoltura. Eppoi, 
                  come non ricordare le vittime, e tra queste il bambino che perse 
                  una gamba per fare un favore al papà che non se la sentiva 
                  di andare in banca? 
                  E i fascisti cosa c'entrano in tutto questo? Deaglio ricorda 
                  che proprio uno di loro, Giovanni Ventura – piccolo imprenditore 
                  veneto che come seconda attività faceva il terrorista 
                  –, confidò il giorno seguente al suo amico Guido 
                  Lorenzon – testimone “scomodo” lasciato solo 
                  dalla magistratura e dalla polizia – «che la bomba 
                  l'avevano messa loro». L'attentato venne preparato «dal 
                  gruppo veneto di Ordine Nuovo, un'organizzazione nazista con 
                  forti agganci e protezioni ai vertici dello Stato italiano, 
                  che non fece nulla per impedirlo». E aggiunge lo scrittore: 
                  «Quando leggerete quanta protervia, quanta “organizzazione 
                  industriale”, quanta volgarità venne usata per 
                  costruire il falso su piazza Fontana, probabilmente penserete 
                  che gli attuali demagoghi non hanno inventato niente». 
                  «I dirigenti della sezione veneta di Ordine Nuovo erano 
                  Franco Freda, procuratore legale a Padova; Giovanni Ventura, 
                  libraio e editore di Castelfranco (Treviso), che con Freda aveva 
                  commesso tutti gli attentati del 1969 attribuiti agli anarchici; 
                  e Carlo Maria Maggi, “medico dei poveri” in un ambulatorio 
                  all'isola della Giudecca di Venezia». Inoltre, un altro 
                  veneziano, Delfo Zorzi, è stato identificato tra coloro 
                  che attuarono questo piano mortale. 
                  Come ricorda l'autore del libro, questa ricostruzione dei fatti 
                  avvenuta durante l'inchiesta del giudice Guido Salvini, «sancita 
                  in due gradi di giudizio e infine vidimata dalla Cassazione», 
                  non ha mai trovato esecuzione perché nel frattempo Freda 
                  e Ventura vennero assolti per lo stesso reato nel 2005 mentre 
                  Zorzi fu precedentemente assolto dall'accusa di essere l'esecutore 
                  materiale dell'attentato. «Dopo quarantatré anni 
                  di processi, la mortificazione della giustizia era totale. Una 
                  beffa postuma». 
                  Il libro affronta, inoltre, la complessa ricostruzione dell'attentato, 
                  e non c'è commento che non sia proceduto dalla descrizione 
                  particolareggiata dei fatti e soprattutto la montagna di bugie 
                  che furono sparse al tempo per nascondere le responsabilità 
                  degli esecutori e dei mandanti. Per esempio l'impiegato della 
                  Banca nazionale dell'agricoltura e vittima dell'esplosione, 
                  Fortunato Zinni, scrive così in un memoriale: «La 
                  vergognosa e irridente tela di Penelope ordita per fare e disfare 
                  sentenze, in una allucinante e incredibile parodia della giustizia, 
                  ha di volta in volta messo a nudo: la certezza di impunità 
                  dei burattinai del massacro, il cinismo di una classe politica 
                  imbelle e complice, la disponibilità di una parte della 
                  Magistratura ad assecondare il potere, il servilismo di una 
                  stampa pronta a credere alle verità ufficiali». 
                  Proprio la stampa e la televisione, allora con unico canale 
                  televisivo, in prima battuta avvallarono senza spirito critico 
                  le tesi della Questura di Milano sulla responsabilità 
                  “anarchica” dell'attentato. Per tutti il “Mostro” 
                  fu Pietro Valpreda- “ballerino-anarchico”, con la 
                  complicità del suicida-confesso Giuseppe Pinelli – 
                  «elemento di speciale pericolosità e come tale 
                  da sottoporre a sorveglianza» per le autorità di 
                  polizia – così come dichiararono più volte 
                  Marcello Guida questore di Milano, Antonino Allegra capo dell'ufficio 
                  politico della Questura di Milano e infine il commissario Luigi 
                  Calabresi. Coloro che in quel coacervo di notizie false e tendenziose 
                  credettero invece all'innocenza degli anarchici furono pochissimi. 
                  Tra i primi a schierarsi dalla parte di Pinelli e degli anarchici 
                  milanesi, il giornalista Piero Scaramucci, recentemente scomparso, 
                  che all'inizio degli anni Ottanta darà alle stampe un 
                  bel libro-intervista con Licia Pinelli: Una storia quasi 
                  soltanto mia. Un'altra giornalista, Camilla Cederna, si 
                  distinse per il suo impegno controcorrente e la sua passione 
                  civile. All'epoca chi dissentiva veniva perseguitato e in molti 
                  sono stati perseguitati e condannati dalla magistratura, e questo 
                  per aver detto soltanto in parte la verità, non potendo 
                  conoscere altri inquietanti dettagli. Ma a loro, giustamente, 
                  Deaglio offre un tributo di ringraziamento per non aver ceduto 
                  e aver continuamente sostenuto la battaglia civile per la ricerca 
                  della verità. 
                   
                  Un tributo a Licia Rognini 
                  Altro tributo il giornalista lo dedica a Licia Rognini, vedova 
                  di Giuseppe (Pino) Pinelli; grazie a lei alla sua determinazione 
                  e al suo coraggio si deve la costruzione di quell'argine che 
                  non ha permesso al fiume Lete, quello della mitologia greca, 
                  di affogare questa tragica storia nell'oblio. A lei e alle sue 
                  adorate figlie si è aggiunto poi un manipolo di intellettuali 
                  che il giorno 19 dicembre 1969 riuscirono a far pubblicare un 
                  appello dal quotidiano «Il Giorno», dopo che l'organo 
                  del PCI «L'Unità» l'aveva rifiutato, nel 
                  quale affiancandosi a Licia rivendicavano il diritto di difendere 
                  Pinelli sostenendo la sua innocenza. 
                  La «verità è figlia del tempo» e non 
                  dell'autorità, scrive Deaglio e ha ragione, tanto che 
                  a distanza di anni piano piano sono emersi dettagli che gettano 
                  una nuova luce sulla dinamica degli eventi e sullo stesso “suicidio” 
                  di Pinelli. In particolare sul ruolo svolto dalla «Squadra 
                  54 dell'Ufficio Affari Riservati» i cui uomini arrivano 
                  a Milano a poche ore di distanza dall'esplosione “espropriando” 
                  le autorità locali di polizia e della magistratura di 
                  ogni “autorità”, che gestirono direttamente 
                  il tassista Rolandi, quello che “identificò” 
                  Valpreda, e furono presenti nelle fasi finali della vita di 
                  Giuseppe Pinelli. È lo stesso Silvano Russomanno, ex 
                  “filo-nazista” dell'epoca della RSI e numero due 
                  dei servizi segreti, a confessarlo candidamente nel 2009 alla 
                  giovane magistrata Grazia Pradella: «Io c'ero la notte 
                  che è morto Pinelli». 
                  Questa giovane magistrata, che recuperò in extremis dall'anziano 
                  agente segreto questa dichiarazione, dopo qualche anno in un'intervista 
                  ebbe a dichiarare al settimanale «Famiglia Cristiana»: 
                  «Piazza Fontana fu sicuramente una strage di Stato, perché 
                  si volevano eliminare i cardini fondamentali della democrazia 
                  e perché erano coinvolti elementi che a questo Stato 
                  appartenevano e che lo hanno tradito». A queste considerazioni 
                  manca soltanto l'epilogo logico: del resto è difficile 
                  che un'intera macchina statale recepisca oggi la consapevolezza 
                  di essere stata allora uno dei principali problemi del Paese. 
                  Sfogliando le pagine di questo libro ci si forma un'immagine 
                  chiara di questa “misteriosa” struttura legata a 
                  una continuità “istituzionale” di uomini 
                  e strutture con il suo passato fascista, insieme burocratica, 
                  parassitaria e golpista, sorniona ma immodificabile, impermeabile 
                  a chiunque, compresi i neofascisti che con i loro “deliri” 
                  teorici e terroristici immaginavano una “seconda rinascenza”. 
                  Il libro di Deaglio è da leggere con attenzione e anche 
                  con “passione civile”, ed è rivolto soprattutto 
                  a quelle generazioni che – nate dopo Piazza Fontana – 
                  hanno un bisogno impellente di conoscere tutta la dinamica storica 
                  che ha attraversato il nostro Paese nei decenni immediatamente 
                  successivi alla fine del Secondo conflitto mondiale, per comprenderne 
                  lo stato attuale. 
Franco Bertolucci 
                 1. Il termine “strategia della tensione” (“strategy 
                  of tension”) venne coniato dal quotidiano inglese «The 
                  Guardian» nell'editoriale del 17 dicembre 1969. 
                 
                        
                
                   
                     Una bomba che riecheggia nelle coscienze 
                         
                        In occasione della presentazione del libro di Enrico Deaglio a Pisa, lo scorso 20 novembre 2019, al Polo Carmignani - Università di Pisa, promossa congiuntamente da Biblioteca Franco Serantini e ANPI provinciale Pisa, Claudia Pinelli ha fatto pervenire agli organizzatori il seguente messaggio: 
                      C'è 
                        una dedica importante nel libro di Enrico Deaglio, una 
                        dedica che fa bene al cuore di chi in tutti questi anni 
                        ha cercato che la storia di una persona, Giuseppe Pinelli, 
                        e la storia di quella bomba deflagrata in una nebbiosa 
                        e invernale Milano, continuasse a riecheggiare nella coscienza 
                        distratta di un paese. 
                        Non è un libro di inchiesta come altri che stanno 
                        uscendo in questo periodo, ma una potente opera letteraria 
                        che ricompone l'insieme, che restituisce senso e memoria, 
                        che non si abbandona alla rassegnazione e all'omologazione, 
                        nel coraggio della coerenza e dell'onestà intellettuale 
                        di chi non si è permesso l'indifferenza. 
                        Il libro di Enrico Deaglio è l'impegno di persone 
                        tra cui giornalisti, e vorrei ricordare Camilla Cederna, 
                        Corrado Stajano, Marco Nozza, Piero Scaramucci, che in 
                        questi anni hanno fatto propria una storia permettendo 
                        che non venisse dimenticata ed entrasse nella Storia e 
                        lo hanno fatto con altruismo, senza egocentrismi e autocentrature, 
                        restituendo dignità dove altri avrebbero voluto 
                        calasse l'oblio. 
                        L'arte, come i libri, le poesie, le installazioni artistiche, 
                        è uno strumento che va oltre le omertà e 
                        quel filo che tiene insieme quello che è stato 
                        con una visione più ampia e necessaria. 
                        Questa è la giustizia che ha avuto Pino Pinelli 
                        e mi piace ricordare con una frase dell'ultima lettera 
                        che scrisse a un giovane ingiustamente carcerato: “Anarchia 
                        non è violenza la rigettiamo ma non vogliamo neanche 
                        subirla. Essa è ragionamento e responsabilità”. 
                        Grazie, 
                      Claudia Pinelli  | 
                   
                 
                
  
                      
                Droga, mafia, Stato/ 
				Il Sistema è uno solo 				
				«Chetati, grillaccio del mal'augurio!» 
                  – gridò Pinocchio – ma il grillo, che era 
                  paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, 
                  continuò con lo stesso tono di voce... 
                Dopo gli anni della speranza e quelli della disillusione e 
                  della normalizzazione giunsero infine tempi confusi. Appassionanti 
                  e spesso terribili per chi li ha vissuti in paesi in cui regimi 
                  – che parevano eterni – si disfecero come neve al 
                  sole; caotici e quasi incomprensibili nei luoghi in cui la democrazia 
                  (post)industriale ha continuato implacabile la sua marcia. Ed 
                  è in fondo di tale impetuoso incedere di cui qui si parla, 
                  ma da un particolarissimo punto di vista: quello degli anarcopunx 
                  di strada. 
                    
                  L'arte della scrittura può far miracoli e la vita più 
                  piatta e banale, se narrata in modo da suscitare immedesimazione, 
                  risulterà avvincente ed emozionante. Non è questo 
                  il caso. 
                  In primo luogo perché lo Shamano (Gennaro Shamano, L'asfalto 
                  sulla pelle – Storie dal sottosuolo, Edizioni Monte 
                  Bove, Spoleto – Pg 2019, pp. 352, € 10,00) scrive 
                  con un piglio rocchenroll grezzo e veemente, che ai cultori 
                  della scrittura in punta di fioretto suonerà qual unghia 
                  sulla lavagna ('o Shama', ma quanta sfaccimm' 'e punt' esclamativ' 
                  c'ej mis' dint' a 'stu libbr'?); e in secondo luogo perché 
                  l'esistenza di Gennaro è tutto fuorché rifrittura 
                  impiegatizia. Spoileriamo: Gennaro è ancora vivo e pure 
                  in buona salute (poi non è che ho visto le sue analisi). 
                  Risultato sorprendente viste le sollecitazioni alle quali ha 
                  sottoposto il suo corpo. Questa è la buona notizia. 
                  La cattiva notizia è che abbiamo un'altra storia di sconfitta, 
                  più della mia generazione che della sua; o meglio: dell'incapacità 
                  di trasmettere l'esperienza di chi aveva visto con quanta perizia 
                  ed efficacia erano state usate le sostanze sintetizzate da Bayer 
                  e Sandoz per neutralizzare il movimento negli anni in cui un 
                  movimento c'era davvero. Andiamo con ordine, però. Ragazzini 
                  nati e cresciuti alle falde del Vesuvio, insofferenti alla famiglia, 
                  all'istituzione scolastica e in genere all'ordine costituito, 
                  o all'ordine e basta. Ribelli senza veri obiettivi, in un tessuto 
                  sociale polverizzato dalla modernità e mummificato dalla 
                  televisione; lì rock, punk e metal potevano essere la 
                  scintilla per innescare una fuga dalla condanna di vite monotone 
                  e grigie oppure incasinarsi in avventure senza capo né 
                  coda verso lo scontro frontale. Come quando – in seguito 
                  all'arresto per uno scippo – «fui legato [da mio 
                  padre] al tavolo con alcune corde e poi prese a frustarmi con 
                  la cinghia per ore. Mi lasciò in quello stato fino a 
                  tarda sera, senza acqua né cibo, poi ad intermittenza 
                  picchiava mia madre e mia sorella incolpandole per la mia cattiva 
                  educazione.» 
                  Di studiare non se ne parla, si cerca invece di andare ai concerti, 
                  nelle occupazioni, usando alcool e erba, prima, poi chimica 
                  assortita; un vortice di viaggi per l'Italia e in Europa, fino 
                  ai rave, il lavoro in fabbrica e infine a Napoli: call center 
                  di pomeriggio e la sera eroina a Scampia. 
                  Su tutto, nella seconda parte del libro, dominano due nodi del 
                  nostro vivere e della nostra storia troppo spesso ignorati, 
                  occultati. Il primo è la visione chiara del fatto che 
                  non esiste alcuna separazione possibile tra le istituzioni e 
                  le organizzazioni mafiose. È sorprendente quanti pensatori 
                  illuminati e quanti sinceri antistatalisti credano ancora alle 
                  scemenze delle forze dell'ordine corrotte e dell'invincibile 
                  camorra con la quale scrittorucoli omertosi hanno venduto milioni 
                  di copie impestando le librerie e le menti. 
                  Poche pagine dello Shamano descrivono chiaramente come il Sistema 
                  sia uno solo, tossici a branchi che fanno file per ore in attesa 
                  della roba con la polizia che finge posti di blocco. E poi la 
                  parte più pesante, quella del capire di aver abboccato 
                  all'amo che il Sistema gli aveva messo davanti. 
                  A mio avviso, non solo l'eroina, ma tutto quel processo di estraniazione 
                  che arriva agli oppiacei dopo essere passati per anfetamine, 
                  cocaina, ketamina, lsd e le altre sfavillanti porcherie psicoattive 
                  di cui questo libro è pieno. E quindi? Siamo forse riusciti, 
                  noi che negli anni '80 ci facevamo largo nel fiume di eroina 
                  che l'Operazione Bluemoon ci aveva regalato – senza mai 
                  toccarla, e non per moralismo, ma perché vedevamo 
                  quali erano le strategie messe in campo – a mettere in 
                  guardia, a tutelare questi giovani compagni, palesemente indifesi? 
                  Ed ora, cosa ci può dare sollievo, forse berciare: Visto, 
                  ve lo avevamo detto... Così non si fa la rivoluzione! 
                  Perché, forse che noi – grillacci del mal'augurio 
                  – siamo stati capaci di farla? 
Giuseppe Aiello 
                 
                      
                Han Ryner/ 
				Anarchia fa rima con armonia 
                Quando si evocano i teorici dell'anarchismo, solitamente il pensiero non corre 
                  immediatamente a Han Ryner (1861-1938) nonostante la cospicua 
                  produzione di scritti filosofici e letterari, in particolare 
                  sotto la forma di racconti filosofici. Noto soprattutto in Francia 
                  come irriducibile pacifista e anticlericale, ebbe una certa 
                  influenza sulla giovane generazione in Spagna negli anni Venti 
                  e in particolare sui renitenti alla leva durante la dittatura 
                  di Primo de Rivera, grazie alle traduzioni degli scritti suoi 
                  e di E. Armand a cura degli anarchici individualisti M. Costa 
                  Iscar e J. Elizalde. 
                   Il 
                  mio primo incontro con lui risale alla lettura di un ormai ingiallito 
                  opuscolo pubblicato a Genova nel lontano 1965 dalla Libreria 
                  della FAI e intitolato “Storicità di Gesù”; 
                  quindi l'ho conosciuto soprattutto per la sua verve antidogmatica. 
                  In realtà, anche in Italia il suo breviario individualista, 
                  ora riproposto dalle edizioni Les Milieux Libres (Dell'anarchismo 
                  armonico, Les Milieux Libres Edizioni, Soazza - Svizzera 
                  2019, pp. 64, € 8,50) conobbe diverse edizioni. Di transenna: 
                  anarchismo armonico sembra una tautologia; l'anarchismo o è 
                  armonico o non è. Diverso è il discorso dell'individualista, 
                  dove invece la contrapposizione tra l'egoista e l'individualista 
                  armonico regge. 
                  Bisogna però sapere che l'individualismo di Ryner non 
                  trae linfa dalla lotta di classe, ma dalla ricerca della liberazione 
                  individuale da tutte le dipendenze esteriori per una vita in 
                  armonia con se stessi. In effetti, l'autore chiamato Socrate 
                  contemporaneo o Tolstoj provenzale ci fornisce lui stesso una 
                  plausibile spiegazione per l'uso dell'aggettivo nel testo sull'anarchismo 
                  armonico tratto dall'Encyclopédie Anarchiste di 
                  Sébastien Faure e molto opportunamente inserito dal curatore 
                  Edy Zarro in apertura del volumetto. “Bisogna arrivare 
                  a trovare tutto in sé e a tutto rispettare”, questo 
                  significa “Vivi armoniosamente”. 
                  Frasi come queste non sono piaciute ad esempio a Albert Libertad, 
                  che sospetta passività e fatalismo nella muta adorazione 
                  di un io silenzioso e, anzi, ritiene che libretti del genere 
                  vadano distrutti come l'assenzio e la morfina1. 
                  In realtà, la logica dell'armonia in Ryner significa 
                  avocare a sé la propria esistenza sottraendola a dogmi, 
                  idoli e autorità (come la patria, il potere, la volontà 
                  del popolo, l'ordine, la religione, la razza, il colore fino 
                  al più triviale “cosa ne diranno”). Orbene, 
                  siccome gli idoli (direi che qui Stirner fa più che capolino) 
                  “esigono il sacrificio di me stesso”, l'individuo 
                  è chiamato a difendersi, rifiutando l'obbedienza (tenete 
                  presente il titolo emblematico di uno dei suoi libri, Il 
                  crimine di obbedire), astenendosi o obiettando: “L'individualista 
                  non può essere del numero dei tiranni sociali”. 
                  Nonostante il sospetto di passività, Ryner è, 
                  nei fatti, un campione attivo di solidarietà militante 
                  con anarchici e antimilitaristi perseguitati dalla legge, da 
                  Hem Day (autore di Individualisme d'armonie chez Han Ryner) 
                  a Francesco Ghezzi. L'antidogmatico francese costruisce il manuale 
                  sotto forma di dialogo con se stesso. Pone domande come: che 
                  cos'è la felicità? Ci sono casi in cui si ha il 
                  diritto di uccidere? Cos'è la menzogna maliziosa? Fare 
                  sesso senza amore è un errore? Il saggio crede nel progresso? 
                  Cosa pensa il saggio dell'anarchia? 
                  Se pensate che ora dica anche le risposte vi sbagliate, sarebbe 
                  come svelare chi è l'assassino in un giallo. Evidenti 
                  e dichiarate però le sue fonti: i “veri individualisti” 
                  Socrate, Epicuro, Gesù ed Epitteto, il cui Manuale 
                  è considerato “il più bello e il più 
                  liberatorio dei libri”. 
                  Nella sua breve ma densa prefazione, Edy Zarro evoca un aspetto 
                  particolare e negletto del pensiero libertario di Ryner, il 
                  cosiddetto “amour plural”, inteso come relazioni 
                  molteplici poste sullo stesso piano. La diffusione di queste 
                  idee ad opera dell'anarchica individualista Maria Lacerda de 
                  Moura hanno fatto conoscere Han Ryner anche in Brasile. Alla 
                  fine, un libretto delizioso come una pralina in bocca, a soli 
                  8 euro e 50. 
Peter Schrembs 
                1. Albert Libertad, Dans les Livres, Le Petit Manuel 
                  individualiste, par Han Ryner, “L'Anarchie”, 
                  n° 5, 11 maggio 1905. 
                 
                      
                Architettura/ 
				L'a-crescita di Serge Latouche 
                Hyperpolis, l'interessante opuscolo edito recentemente da Meltemi con 
                  sottotitolo Architettura e Capitale (Milano 2019, pp. 
                  80, € 8,00), contiene un breve intervento di Serge Latouche 
                  dal titolo Architettura, urbanistica e decrescita inserito 
                  tra una dettagliata introduzione e un più corposo intervento 
                  di Marcello Faletra sul tema Urbanistica e architettura come 
                  psicopatologie. 
                  Un indizio sui diversi registri dei due autori lo trovo nella 
                  citazione nelle prime righe dell'introduzione ad Eric Hobsbawm 
                  e a Rem Koolhaas e nell'inizio del saggio finale di Faletra 
                  a Lewis Mumford così come nel saggio di Latouche trovo 
                  un omaggio in esergo a Les Géants di J.M.G. Le 
                  Clézio: una citazione storica e disciplinare da una parte, 
                  una letteraria e poetica dall'altra in cui è contenuto 
                  il termine Hyperpolis che dà il titolo all'opera. 
                   Latouche 
                  sin dalle prime righe mette subito il coltello nella piaga ed 
                  evidenzia la contraddizione della contemporanea presenza di 
                  un gran numero di architetti che predicano la necessità 
                  di un habitat ecologico e che contemporaneamente, da complici, 
                  contribuiscono alla speculazione e alla distruzione del territorio 
                  e dell'ambiente. L'architettura di questi nuovi ecologisti a 
                  parole, al di fuori del singolo intervento puntuale spesso a 
                  impatto zero, si rivela nel complesso fortemente deludente, 
                  “perché non riesce a fare città e 
                  soprattutto perché non è riuscita a impedire globalmente 
                  la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione 
                  del territorio, la proliferazione urbana del paesaggio, 
                  il propagarsi della bruttezza delle condizioni di vita e la 
                  distruzione dell'ambiente.” 
                  È possibile ragionare di un'architettura e di un'urbanistica 
                  che collaborino per la “costruzione di una società 
                  di abbondanza frugale”, si chiede Latouche? 
                  Con una rapida carrellata da Platone a Tommaso Campanella sino 
                  ai nostri Tiziana Villani e Alberto Magnaghi e alle analisi 
                  di Marc Augé e Alvaro Siza, Latouche si chiede se dovremo 
                  soccombere all'affermazione del cyberman e alla “deterritorializzazione 
                  senza ritorno” o se esista un'altra via praticabile. La 
                  prima modernità a partire dal XIX secolo, nonostante 
                  i danni irrimediabili al territorio, aveva mantenuto un certo 
                  equilibrio tra la struttura urbana e il paesaggio. La rottura 
                  definitiva di ogni equilibrio per Latouche avviene “in 
                  modo simbolico, dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989”, 
                  per dare spazio alla globalizzazione e alla mondializzazione 
                  e dalla definitiva “mercificazione e dalla finanziarizzazione 
                  del mondo”. Amaramente conclude che “i rimedi finora 
                  proposti non sono all'altezza della sfida. Il recupero dei centri 
                  storici, ad esempio, dà luogo a gradevoli rese estetiche, 
                  ma provoca una gentrificazione che accresce la segregazione 
                  sociale e una museificazione che rende il turismo di massa un 
                  incubo urbano.” 
                  È inutile lavarsi l'anima con qualche “forma di 
                  modernizzazione ecologica del capitalismo (greenwashing) 
                  o sperare nei progetti totalitari – già fallimentari 
                  – delle “ecocittà” cinesi. 
                  La ricetta alternativa di Latouche è politica, in senso 
                  letterale: urge “una rifondazione della politica, e quindi 
                  della polis, della città e del suo rapporto con 
                  la natura. Il progetto urbano/paesaggistico è necessariamente 
                  secondario rispetto al progetto sociale e il progetto 
                  architettonico è esso stesso accessorio al progetto urbano”. 
                  E ancora Latouche aggiunge: “Il territorio dovrebbe essere 
                  considerato come un'immensa opera d'arte vivente, prodotta e 
                  mantenuta nel tempo dai popoli esistenti.” 
                  Concetti simili questi ultimi a quelli espressi dal filone “libertario” 
                  presente nel panorama architettonico internazionale sin dalla 
                  seconda metà del XIX secolo, di cui i principali esponenti 
                  italiani sono stati De Carlo, che per lungo tempo ha lottato 
                  per ribadire l'indissolubile unità di urbanistica e architettura, 
                  e Carlo Doglio, che in una lezione allo IUAV di Venezia nell'anno 
                  di corso 1971-72 ci disse: “volete sapere per me cos'è 
                  l'urbanistica? È come un affresco rinascimentale di un 
                  grande artista, è qualcosa di complesso, ci sono tante 
                  cose, non è spiegabile, però funziona.” 
                  (Franco BunÄuga in Architettura, l'altra; in “Libertaria” 
                  2018, Ed. Mimesis) 
                  Idee che sia Doglio e De Carlo sia ora il nostro Latouche hanno 
                  desunto da Patrick Geddes e dagli urbanisti della scuola anglosassone 
                  che affonda le sue radici nel pensiero del rivoluzionario e 
                  geografo anarchico Pëtr Kropotkin, come ci ricorda nel 
                  suo esauriente excursus storico Marcello Faletra nel 
                  saggio finale Architettura e urbanistica come psicopatologie. 
                  Nel testo l'autore analizza i caratteri della forma totalitaria 
                  del capitalismo contemporaneo di cui la città diviene 
                  il veicolo spaziale propulsore, aspetto analizzato in una prospettiva 
                  genealogica del postmodernismo prendendo come paradigma la città 
                  di Las Vegas. 
                  Oltre ai modelli anglosassoni Latouche nel suo saggio ripropone 
                  molte delle intuizioni del grande Yona Friedman: autarchia, 
                  autonomia, dispersione, autosufficienza energetica e “una 
                  città ecologica fatta di quartieri compatti”. Per 
                  lui “la città della decrescita sarà anzitutto 
                  un altro modo di abitare la città”, non un modo 
                  diverso di costruire città. 
                  Una ricetta dunque per iniziare da subito, senza grandi progetti 
                  utopici, partendo dalla città esistente ed eliminando 
                  gradualmente “la pubblicità, le automobili e la 
                  grande distribuzione e dove saranno stati introdotti giardini 
                  condivisi, piste ciclabili, la gestione in economia dei beni 
                  comuni (acqua, servizi di base) e lo sviluppo della coabitazione 
                  e dei laboratori di quartiere.” 
                  Non una decrescita dunque in senso stretto, ma come preferisce 
                  dire Latouche una a-crescita, una sana crescita organica, come 
                  sviluppo orizzontale della comunità e delle reti urbane 
                  e un dissolversi graduale delle strutture di dominio, anche 
                  nelle forme oppressive dell'attuale onnipervasivo manhattanismo 
                  delle strutture urbane descritto da Rem Koolhaas, che sembra 
                  voler avverare la distopica profezia di Lewis Mumford citata 
                  da Latouche che prevedeva che la megalopolis si sarebbe 
                  trasformata in tirannopolis, per poi finire in nekropolis. 
Franco Bunčuga 
                 
                      
                Hugo Pratt/ 
				La guerra nelle tavole 
Nell'elegante e raffinato volume a fumetti di Hugo Pratt e Hector Oesterheld, Ernie Pike (Rizzoli – Lizard, Roma 2019, pp. 462, € 39,00), si racconta di Hugo Pratt che, già disegnatore affermato in Italia, nel '49 decide di accettare l'invito del magnate del fumetto argentino Cesare Civita a lavorare per le sue riviste di comics e si trasferisce da Venezia, sua città natale, a Buenos Aires. 
Qui conosce lo sceneggiatore Héctor Oesterheld e con lui realizza una serie a fumetti, che esce per quattro anni, dal '57 al '61, su Hora Cero – uno dei tanti album a fumetti prodotti da Civita – che ha per titolo Ernie Pike. 
Erano strisce sulla guerra, ispirate alle cronache del famoso giornalista americano Ernie Pyle, corrispondente di guerra da vari fronti durante la seconda guerra mondiale e morto, nel '45, per una bomba esplosa in Indocina mentre fotografava la battaglia di Okinawa. 
Le tavole di Pratt e Oesterheld documentavano, illustrandola, la guerra da una prospettiva diversa e più umana da come l'avevano raccontata i grandi media, proprio seguendo e riportando, a volte fedelmente, i reportage di Ernie Pyle – premio Pulitzer e tra i giornalisti più letti in America durante la seconda guerra mondiale – raccolti nel suo famoso libro Brave men, uscito in America nel '45 dove raccontava con grande obiettività e verità e senza acritici patriottismi, gli eventi bellici e la vita quotidiana dei militari, non solo degli Usa, valorosi ma anche impauriti e inorriditi, con la voglia di vincere ma anche di tornare di casa sani e salvi. 
È uno 'spettacolo', quello della guerra, che sfianca il grande corrispondente di guerra americano, che confessa in uno dei suoi articoli: “Sono sporco sia mentalmente che fisicamente. Ho prosciugato le mie emozioni. Guardo il coraggio, la morte, i campi di battaglia, i tanti e tanti paesi, quasi come un cieco, vedendo debolmente e non volendo vedere affatto la realtà. È il pensiero dell'insensatezza che si insinua in me e comincia a divorarmi. È la polvere perpetua che mi soffoca, il terreno duro che mi irrigidisce i muscoli, sono le mosche e i piedi sporchi e il rombo continuo dei motori e il movimento continuo, il vai e vai, notte e giorno e poi di nuovo, la notte, senza mai smettere o solo Dio sa quando, ma io sono stanco”. 
E proprio quella stanchezza di Pyle di fronte ad un'umanità avvilita dalla guerra, Pratt e Oesterheld la sceneggiano e disegnano nelle avventure del loro personaggio, Ernie Pike, destinato a diventare icona di culto del fumetto del '900 e che si muove – in più di trenta storie, tra eserciti in guerra, in scenari che vanno dall'Europa all'Africa, al Pacifico – “retto e giusto” – come scrivono nel loro intervento introduttivo al volume (dal titolo deandreiano Siete lo stesso coinvolti) Boris Battaglia e Paolo Interdonato – “sulla linea del fronte, in mezzo alle pallottole, allo sporco, al fetore, alla codardia, ai piccoli eroismi, alla bassezza di ufficiali che danno ordini disgustosi, alle menzogne, alle lacrime e al sangue” e che “vive racconti di guerra nei quali è impossibile prendere una parte tra i fronti. Le divise non servono a determinare quali siano i soldati buoni e quali i cattivi”. 
Una proposta valida, quindi, quella della Rizzoli-Lizard, non solo perché serve da stimolo ad una riflessione sulla violenza e la guerra, ma anche perché offre, di un'opera poco conosciuta di Pratt, la sempre gradevole visione del suo inconfondibile e originale tratto artistico. 
Silvestro Livolsi 
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