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                  L’altra mattina 
                    ho attraversato il centro mentre da uffici e fabbriche la 
                    gente convergeva in piazza del Duomo per i funerali degli 
                    assassinati. Mi è parso di non aver mai veduto una 
                    scena simile. Tra via Manzoni e Santa Margherita i portoni 
                    versavano gruppi fitti di impiegati che uscivano e si dirigevano 
                    verso la Galleria e il Duomo. Pareva si stesse muovendo tutta 
                    la città. I negozi chiudevano, le banche abbassavano 
                    le saracinesche. Arrivavano a migliaia gli operai della zona 
                    Nord, infagottati nelle tute che celavano panni di casa; aggrondati 
                    in viso. Il freddo era molto duro, umido. Non ho voluto restare 
                    sulla piazza. Quando ho raggiunto Largo Cairoli fra la folla 
                    che si accalcava sui marciapiedi, ho visto passare tre o quattro 
                    furgoni funebri, diretti al nodo delle autostrade.Oggi a scuola ho tenuto la mia terza lezione sul testo di 
                    Marcuse a una quindicina di allievi. Ho cominciato alle due 
                    e venti. Avevamo finito l’orario scolastico all’una. 
                    La presidenza ci ha concesso l’aula. Sono stati gli 
                    studenti a chiedermi di parlare dell’Uomo a una 
                    dimensione. Quella loro quasi incredibile volontà 
                    di impadronirsi del linguaggio di un filosofo della scuola 
                    di Francoforte, con Hegel alle spalle. Non hanno mai ascoltata 
                    una lezione di filosofia e vengono, quasi tutti, da famiglie 
                    operaie della più tetra periferia e dell’hinterland.
 Stamani avevo scritto sulla lavagna un appello: si farà 
                    un’ora sola su Marcuse – delle due previste perché 
                    c’è il funerale di Pinelli. Chi vuole ci venga. 
                    Poi ho detto – ma non so se ho fatto bene – che 
                    era meglio limitare la partecipazione. Quando alle tre e quaranta 
                    sono uscito ho capito che nessuno dei ragazzi avrebbe potuto 
                    venire. A quell’ora dovevano avviarsi al pullman e ai 
                    treni della Nord per tornarsene alle loro case. Ci sono quelli 
                    che abitano a un’ora e mezza di viaggio.
 
 Milano, 
                    20 dicembre 1969 – I funerali dell’anarchico Giuseppe 
                    Pinelli  Seri 
                    ma non tesi
 Ho percorso in auto i viali verso il ponte della Ghisolfa. 
                    C’era molto traffico, è l’ultimo sabato 
                    prima di Natale. Dopo via Bodio, sulla discesa del ponte che 
                    si prolunga verso occidente con un lungo nastro soprelevato 
                    di cemento m’è venuto addosso, accecandomi, il 
                    sole già basso, al tramonto, rosso tutto faville. Riconoscevo 
                    la Milano futurista, espressionista anarchica, degli Anni 
                    Dieci.I raggi trapassavano un’aria polverosa, gelata. Foglie 
                    e carta. I piazzali convulsi, l’erba secca sulle aiuole 
                    spartitraffico.
 La strada era nera di folla, fra le due pareti di case popolari. 
                    Donne, gli occhi rossi e lo scialle, si affacciavano. Qua 
                    e là, fotografi appostati.
 Mi sono detto: quanta gente. Ma non era vero. Neanche un migliaio 
                    di persone. Quanti debbono aver avuto paura. C’è 
                    un mazzo di bandiere nere con la A in rosso. Due o tre bandiere 
                    rosse. Di quelle della Quarta Internazionale, credo. Molti, 
                    forse più, erano giovani; ma molti anche gli anziani 
                    e vecchi. Quando sono in mezzo a una folla non mi rammento 
                    di essere già, per i più, un vecchio.
 La bara veniva avanti dal fondo della strada, su di un furgone 
                    identico a quello che giorni fa aveva portato via Umberto 
                    Segre. Poi, tra la gente che guardava dai marciapiedi e la 
                    gente che guardava dalle finestre, venivamo noi.
 Cercavo con gli occhi Vittorio e Giovanni e così mi 
                    volgevo, camminando e guardando in faccia la piccola folla. 
                    Non si sentiva neanche lo scalpiccio. I visi erano seri ma 
                    non tesi. Una vecchia magra, gli occhi rossi di lacrime. Mi 
                    ha salutato. L’ho riconosciuta, stupito: è una 
                    comunista, di quelle che per vent’anni hanno fatto la 
                    Milano alto-borghese – che ci ha portati fin qui. Di 
                    altri comunisti del PCI, ne ho veduti pochissimi: vecchi i 
                    più, alcuni vecchissimi. Come mai sono qui, confusi 
                    con i marx-leninisti e gli anarchici? Sono, ora capisco, i 
                    nostalgici dello stalinismo, sempre più respinti ai 
                    margini del partito.
 Poco dopo essere uscito sul viale – la folla si è 
                    fermata. Ho visto R., alto, già molti capelli bianchi 
                    sua moglie, piccola e muta. Goffredo dice che domattina Enzo 
                    Paci parlerà al cinema Anteo. Il PCI non voleva dare 
                    il locale, aspettasse dopo le feste. “Dopo le feste 
                    – avrebbe risposto Paci – siamo tutti in galera”.
 La polizia non permetteva al corteo funebre di proseguire. 
                    Insieme a N. sono arrivato a Musocco che era ormai crepuscolo. 
                    Faceva sempre più freddo. Abbiamo camminato svelti 
                    attraverso la pianura di croci e monumenti. È sterminata, 
                    sino all’orizzonte non vedi che cippi e croci.
 Al campo 76 ci sarà stato un centinaio di persone un 
                    gruppo cupo sulla terra calpestata, sotto il cielo verde e 
                    viola. Su di un viale poco discosto, sotto grandi pioppi ignudi, 
                    una ventina di agenti in borghese guardavano i compagni del 
                    morto. Eravamo ai due lati di una trincea. Qui scavano con 
                    una benna, giudicando a occhio quante bare dovranno entrare 
                    in giornata. Quando siamo arrivati i becchini stavano calando 
                    la bara di Pinelli. Accanto alla sua ho visto calare, poco 
                    prima, un’altra cassa. Abbiamo alzato i pugni a salutarlo. 
                    Un frate ha cominciato a dire in latino una preghiera. Pregava 
                    per quell’altro e i parenti dello sconosciuto si allontanavano 
                    da quella gente strana, venuta a sovrapporsi alla loro pena. 
                    Qualcuno, con tono brusco e professionale, mise in mano a 
                    una vecchia un foglio, scandendo il numero di riferimento 
                    della bara e del campo.
 
                    
                      |  |  Copertina 
                    del libro di Camilla Cederna edito da Feltrinelli   Un 
                    lungo momento
 Intanto sopravveniva altra gente. Guardavano verso la cassa, 
                    in fondo alla trincea. Dall’altra parte del fossato 
                    ho rivisto la testa candida di Giovanni. Scivolando sulla 
                    fanghiglia, facendomi largo tra i fotografi,– anch’io 
                    sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si 
                    abbassavano. Un giovane con una corta barba ha detto con voce 
                    tranquilla alcune parole: “Pinelli è stato assassinato. 
                    Addio, Pino. Non dimenticheremo né te né quelli 
                    che ti hanno ucciso”.È stato un lungo momento. Mi sono rammentato di quando, 
                    cinque anni fa, abbiamo messo in terra Raniero Panzieri, a 
                    Torino. La voce roca ha attaccato “Addio, Lugano bella”. 
                    Erano in molti a cantare ma a bassa voce e il ritmo era lento, 
                    davvero una marcia funebre. Che quelle parole potessero essere 
                    ancora attuali, faceva impressione e rabbia. Ripetizione, 
                    tradizione. Quel canto pareva somigliare a quelli di sconosciute 
                    sette, perdute entro le capitali moderne. M’è 
                    parso, per un attimo, di essere in una di quelle città 
                    degli Stati Uniti dove sopravvivono le memorie anarchiche 
                    del secolo scorso o dell’età di Sacco e Vanzetti. 
                    L’orgoglio della miseria e, più ancora, l’orgoglio 
                    della sconfitta.
 Era davvero così? Guardavo i giovani che, non senza 
                    incertezza cantavano ora una Internazionale stonata; per un 
                    tratto, anch’io li ho accompagnati. Vent’anni 
                    fa i vecchi carrarini che, dopo il funerale di uno di loro, 
                    venivano in riva al Magra a cantare le canzoni del Gori, non 
                    erano che una curiosità. Oggi non è più 
                    così, i libertari hanno ritrovato, dopo il 1956, non 
                    solo i propri morti ma anche le ragioni. E quel che accade 
                    alle verità che diventano vittoriose solo dopo la morte, 
                    dissolvendosi. Nello squallore di questa fedeltà sento 
                    il medesimo odore di cripta che è di certe cappelle 
                    protestanti. Eppure quanto di quelle, anche nel loro gelo, 
                    non è passato nel cattolicesimo dei nostri giorni. 
                    L’anarchia ha fecondato così, senza che ce ne 
                    avvedessimo, una buona parte degli operai e degli studenti; 
                    e Bakunin si è presa la sua rivincita su Marx.
 
 Particolare 
                    della lapide su cui si intravvede la poesia di Edgar Lee Masters, 
                    Carl Hamblin, ripresa dall’Antologia di 
                    Spoon River   Il gelo del cimitero Viviamo nelle paure di una identità irrigidita, di 
                    una fedeltà senza virtù. La fedeltà che 
                    retrocede a superstizione: questa può essere una delle 
                    facce del decadentismo. Le superstizioni sanno addobbare magicamente 
                    il dolore e la sconfitta. Il gelo del cimitero, la pietà 
                    dei canti stonati, delle bandiere sulla fossa ingiusta, la 
                    sera di noi gravati dal senso di un capitolo di storia che 
                    si chiude, di un triste futuro di persecuzione e di silenzi: 
                    tutto questo è stupenda scena della fedeltà, 
                    armonia della ripetizione: ma è anche inganno e conforto.Veniamo via che è buio fitto. Vittorio Sereni, Marco 
                    Forti e Giovanni Raboni camminano con me sulla ghiaia del 
                    vialetto. Ci sorpassano coppie di giovani, nelle loro vesti 
                    militaresche, il braccio di lui intorno alla spalla di lei, 
                    carichi – così immagino – di rancore e 
                    amore. Che cosa sarà di loro? Non so come ma ho la 
                    certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo 
                    coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è 
                    davvero finita una età, cominciata ai primi del decennio. 
                    È possibile il silenzio degli uomini dell’opinione, 
                    i difensori dello stato di diritto? Sì è possibile. 
                    La paura è veloce. Lo dico e i vicini sono della mia 
                    stessa opinione. Chissà che cosa ci porta il domani. 
                    L’alone di luce della città è davanti 
                    a noi in fondo a Viale Certosa e a Corso Sempione, oltre il 
                    Castello. Ci salutiamo, ci stringiamo le sciarpe al collo, 
                    ci separiamo, andiamo in cerca delle nostre auto sul piazzale.
  Franco Fortini
 
 La 
                  vedova di Giuseppe Pinelli, Licia, durante un’udienza 
 Pino?In prima persona, come al solito
 
                  
                    | Nel 
                      1982 il giornalista Piero Scaramucci ha pubblicato sotto 
                      forma di libro (A. Mondadori Editore) una sua lunga intervista 
                      con Licia Rognini, la moglie di Pinelli. Titolo: Licia 
                      Pinelli. Una storia quasi soltanto mia. Ne riportiamo 
                      un breve stralcio relativo al periodo ’67/’68. 
                      Il congresso, svoltosi a Carrara, cui si fa riferimento 
                      è il Congresso dell’Internazionale delle Federazioni 
                      Anarchiche (agosto ’68), al quale parteciparono centinaia 
                      di compagni provenienti da decine di Paesi (tra i più 
                      lontani: Giappone, Messico, Svezia, ecc.). |  Licia. 
                  Sto pensando al 1967. Gli anarchici avevano fatto il campeggio, 
                  non mi ricordo dove. Io sono andata invece a Senigallia con 
                  bambine, madre, fratelli, cognate e nipoti.Figurati! il campeggio. C’erano talmente tante zanzare 
                  che persino Pino, che non lo toccavano mai, è venuto 
                  giù tutto tappezzato di punture! Campeggio figurati…
 E poi hanno fatto il nudismo. Le risate quando Pino me l’ha 
                  raccontato! Si era divertito moltissimo, queste cose nuove per 
                  un quarantenne. Gli dicevo: “Se ti metti di profilo hai 
                  la pancetta e nudo non puoi stare”.
 Faceva la spola. Ha lavorato tutto quel periodo: pomeriggio, 
                  mattina e notte. Appena libero andava al campeggio. Poi tornava 
                  a Milano: pomeriggio, mattina e notte. Altri due giorni liberi 
                  e veniva a Senigallia. Meno male che non pagava il treno. Comunque 
                  non faceva in tempo ad arrivare che cascava dal sonno.
 È stato un anno divertente, con questa storia del nudismo 
                  e con la baraonda di Senigallia, sono venuti a trovarci tutti 
                  i miei parenti. Siamo rimaste al mare più del solito, 
                  un mese e mezzo, eravamo in tanti e si divideva la spesa della 
                  casa. È stato l’anno che sono diventata nerissima. 
                  E poi Pino che veniva giù e mi raccontava le storie del 
                  campeggio, ma non aveva osato dirmi del nudismo. Poi quando 
                  sono arrivati a Milano tutti gli amici è venuta fuori 
                  la faccenda del nudismo, c’è rimasto così 
                  male perché mi sono divertita da morire. Un’educazione 
                  puritana anche la sua non solo la mia. Mi chiedeva se ero gelosa! 
                  Figurati! Un corpo ne vale un altro, è il resto che conta.
 E poi il ’68, con il congresso anarchico, tutto un gran 
                  daffare. Quell’anno Pino aveva prestato la casa. Una famiglia 
                  francese e lui gli aveva prestato la mia casa per quindici giorni. 
                  Così nel ’69 gli ho detto: adesso ti frego io, 
                  non vado in campagna. E siamo rimasti tutti a Milano.
 Una persona che non riusciva a tener nascosto niente. Il prestito 
                  della casa aveva cercato di nascondermelo in tutti i modi, facendo 
                  le pulizie di fino che non ti dico. Una casa lucida, mai avuta 
                  in vita mia una casa così lucida. Poi una parola via 
                  l’altra e gli ho tirato fuori tutto.
 Piero. 
                  Eri andata anche tu al congresso? Licia. 
                  Io ero a Marina di Carrara al mare. A Carrara sono andata a 
                  salutare tutti quelli che conoscevo. Questi vecchi anarchici 
                  con una militanza sulle spalle, che hanno sempre pagato di persona, 
                  coerenti con le loro idee durante il fascismo, la guerra di 
                  Spagna, la Resistenza. E il trait d’union che faceva Pino 
                  tra loro e i giovani, le nuove leve, insofferenti, convinte 
                  di sapere tutto. Che l’esperienza degli altri non serve. 
                  E lui, mezza età, teneva il collegamento. Così 
                  era sempre là. Tant’è vero che siamo tornate 
                  a Milano da sole. E non gliel’ho perdonato per molto tempo, 
                  te l’ho detto: una donna molto viziata pretende di essere 
                  viziata sempre.Ma come mi era piaciuto quell’anno! In tutti i sensi sì, 
                  mi era piaciuto molto. Quell’anno che poi uno riassume 
                  sempre nelle vacanze.
  La 
                  copertina del libro di Piero Scaramucci edito da Mondadori
 Piero. 
                  Ma l’esplosione nelle scuole, gli studenti, quello 
                  che si dice il ’68? Licia. 
                  Io l’ho vissuto sempre di riflesso, cioè con quegli 
                  studenti che venivano per casa, mi raccontavano, mi spiegavano. Piero. 
                  E Pino? Licia. 
                  Lui in prima persona come al solito.  Piero Scaramucci
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