Un sogno
americano
Di
flussi migratori si parla a ondate; di gente che arriva stremata
sulle coste del nostro paese, dopo essere fuggita da impossibili
condizioni di vita si riempiono le pagine dei giornali quando
la disgrazia è troppo grande per essere nascosta; poi
tutto viene riassorbito dalla marea, tutto riprendere a scorrere.
Nulla si arresta. Dell'idea di questo movimento inarrestabile
– ed è un'idea affascinante – parla Russel
Banks – uno dei maggiori narratori americani degli ultimi
trent'anni – nel suo libro La deriva dei continenti,
uscito in traduzione italiana nel 2012 presso Einaudi (pp. 496,
€ 19,50).
“È come se le creature che in questi anni vivono
sul pianeta, gli esseri umani – a milioni in viaggio da
soli e in famiglie, clan e tribù, talvolta come intere
nazioni – fossero un sottosistema all'interno di uno più
grande di correnti e maree, di venti e condizioni climatiche,
di continenti alla deriva e masse di terra in movimento che
si sollevano, si scontrano, si spaccano. È come se le
povere creature forcute che camminano, navigano e si muovono
a dorso d'asino o di cammello, su furgoni autobus e treni, da
un'estremità all'altra di questa Terra, rispondessero
tutte a forze naturali invisibili, come se fosse la gravità
e non le guerre, le carestie o le inondazioni a farle scendere
in rivoli dai villaggi di collina per raggrupparsi lungo le
ampie sponde fangose del fiume più a valle aspettando
un passaggio su zattere che le portino al mare, e su barconi
bucati al di là del mare [...]. Continuare a muoversi,
continuare a riprodursi, pisciare e cacare, continuare a mangiare
il pianeta sul quale viviamo; continuare a muoversi, soli, in
famiglie e tribù, in nazioni e perfino intere specie:
è l'unico argomento che abbiamo per contrastare l'entropia.
E non è neanche un vero argomento: è una visione.
[...] L'universo si muove, al suo interno tutto si muove e,
spostando le proprie parti, l'universo e tutto al suo interno,
fino alla più piccola cellula, viene trasformato e si
perpetua. Acqua terra fuoco aria. [...] E il prodigioso –
ciò che ci riempie di meraviglia e ammirazione –
dobbiamo emularlo, altrimenti è la morte. [...] Il pianeta
siamo noi, tanto quanto lo sono acqua terra fuoco aria, e se
il pianeta sopravvive sarà solo grazie all'eroismo, [...]
eroismo costante, sistematico, eroismo come principio dominante.”
Di ciò Banks ne parla solo all'inizio, come se questa
visione dall'alto, distaccata e imprescindibile gli servisse
da trampolino per tuffarsi nel vivo della storia che vuole narrare,
composta da due storie parallele che a un certo punto si incontreranno:
due persone alla ricerca di una vita migliore, del “sogno
americano” di un benessere che si rivelerà illusorio
e violento.
Un uomo giovane, che vive nel nord dell'America, nel freddo
dello stato del New Hampshire, con moglie e figli, che ripara
bruciatori a nafta e si trascina in un'esistenza grigia, affannosa,
dominata dall'idea che con più denaro la vita sarebbe
migliore.
Una donna che fugge da Haiti, dalla povertà e dal terrore,
insieme al giovane nipote, portando con sé un bambino
neonato e una manciata di soldi. Tutto quello che ha. Alla ricerca
della fortuna, della Florida, la terra dei sogni e dell'abbondanza.
Il giovane uomo, Bob Dubois, una persona come ce ne sono tante,
nel tentativo di guadagnare di più – perché
solo in questo, gli hanno insegnato, stanno il suo valore e
il riconoscimento sociale – inizia a infilare una strada
sbagliata dopo l'altra, in un'inesorabile disastrosa discesa.
Vanice, donna analfabeta, vive in uno dei posti più poveri
del pianeta (riguardo ad Haiti vedi i dossier già apparsi
su “A” 386
e “A” 387)
e per raggiungere la terra mitica sopporta l'insopportabile.
Entrambi vittime, anche se in forma e a livelli diversi, di
povertà ignorante e falsi miti, entrambi arriveranno
in Florida, dove, loro malgrado, si troveranno a vivere i ruoli
di vittima e carnefice nell'ennesimo trasporto di clandestini
via mare.
Ma non è tutto qua, perché strada facendo Russel
Banks riesce – in forma magistrale, pulita, appassionata
e cruda allo stesso tempo – ad avvicinare così
tanto il lettore alle figure dei suoi protagonisti e alla realtà
in cui vivono, che quasi quasi vorresti poter intervenire per
evitare lo sfacelo. Ma non è possibile, non perché
stai leggendo una storia inventata, stampata su pezzi di carta,
ma perché il destino di entrambi è segnato all'origine
e la deriva dei popoli, ti rendi ben conto, non si può
fermare. Ma si può, anche se in piccolo, contribuire
a cambiare la cultura. Questo mi sembra indispensabile: una
cultura differente che crei visioni del possibile in contrasto
con la monocultura del potere economico-finanziario. E di visioni
abbiamo bisogno, per tante cose, compreso il dare dignità
al transito dei popoli. Questo è ciò che l'autore
fa con il suo libro, celebrare la vita e piangere la morte di
due personaggi qualsiasi, simili a tanti di quelli che in questo
momento vagano nel mondo alla ricerca di una possibilità.
Rendere loro onore toccando l'animo di chi legge. Così
un libro agisce e modifica la visione di un lettore/lettrice,
forse poi di dieci, cento, chissà.
“Anche se nulla sembra accadere come conseguenza della
sua vita o morte, anche se gli haitiani continuano ad arrivare
e molti annegano, molti subiscono brutali maltrattamenti, vengono
imbrogliati e sfruttati, ma il posto da dove arrivano rimane
pur sempre peggiore di quello dove stanno andando; anche se
gli uomini in completi tre pezzi dietro le scrivanie in banca
si ingrassano, sempre più sicuri e abili nel loro lavoro;
anche se giovani americani squattrinati, con mestieri anziché
professioni, continuano a spezzare la propria vita tentando
di piegarla intorno alla ruota del commercio, sognando che,
al girare della ruota, verranno su dal fango, si ergeranno come
divinità della televisione, facendo una breve apparizione
speciale sulla Terra, roba mai vista prima. Il mondo così
com'è continua ad essere se stesso. [...] Gioia e lutto
per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate –
anzi, soprattutto quelle – priverà il mondo di
parte dell'ingordigia che gli occorre per continuare a essere
se stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque, sono gli obiettivi
di questo libro. Va', mio libro, e contribuisci a distruggere
il mondo così com'è”.
Silvia Papi
Ma
le relazioni biologiche
sono sempre sociali
Che cos'è un parente? Esistono davvero dei legami “di
sangue” che ci uniscono in famiglie? O forse la parentela
umana è piuttosto l'esito di convenzioni sociali, di
consuetudini variabili tanto storicamente quanto culturalmente?
Nel libro La parentela (elèuthera, Milano, 2014,
pp.128, € 13,00) Marshall Sahlins dispiega un ampio ventaglio
di casi etnografici per mostrare che i parenti, più che
consanguinei, sono persone che condividono uno l'esistenza dell'altro.
La famiglia non è mai stata fatta di solo sangue: si
può essere parenti perché figli della stessa terra
(Platone), per essere nati nello stesso giorno (Inuit), per
aver osservato gli stessi tabu (Araweté), per essere
sopravvissuti ad una pesca pericolosa in mare (Truk), e persino
per aver sofferto insieme di tigna (Kaluli). Accanto alla parentela
per mera nascita, l'autore ne illustra un'altra acquisibile
con l'accudimento, la nutrizione, l'affetto, ossia attraverso
le relazioni.
Al centro della teoria di Sahlins è la nozione di “reciprocità
dell'essere”, un'unione così intima della persona
al suo gruppo da portare i parenti a vivere uno la vita dell'altro,
a morire uno la morte dell'altro. Contro la concezione occidentale
di un Ego individualista e massimizzatore di profitti personali,
Sahlins ci invita a ripercorre le scoperte di un'eretica psicologia
evolutiva, che studiando i rapporti fra madre e bambino nei
primi mesi di vita ha individuato una facoltà tipicamente
umana di immedesimazione reciproca, una capacità simbolica
sconosciuta ai primati e che ci distinguerebbe dal regno animale.
Sahlins, Professore emerito all'Università di Chicago,
pone questa innata disposizione transpersonale come rivoluzionaria
chiave di volta per concepire le relazioni di parentela, con
uno sguardo che travalica il metodo genealogico dell'antropologia
e ricorda ancora una volta che anche le relazioni biologiche
sono sempre e comunque relazioni sociali.
Moreno Paulon
I giovani rifuggono
da certe “nonne”
“Perché
scrivo queste cose? Per giustificare il mio Sessantotto? Le
ribellioni, i cambiamenti, che però non hanno portato
a ciò che volevamo? Io mi ribello contro l'ignoranza,
la mancanza di senso critico e contro l'omologazione, che ci
vuole tutti giovani, belli e sani, tutti uguali e felici, con
l'ultima novità tecnologica in tasca”.
In tredici racconti, Luisa Ronconi (Donne di ieri, Rupe
Mutevole Edizioni, Bedonia, 2014, pp. 124, € 15,00) narra
storie di donne qualunque. Il passato neanche troppo lontano,
da prima degli anni Cinquanta agli anni Settanta, restituisce
una Romagna terra di contadini, immersa in una palude di acque
stagnanti e di piallasse, dove l'acqua del mare fluiva e rifluiva
seguendo la marea. In quella terra atavica e ancestrale, madri
sacrificano i propri figli di pochi anni alla palude, rituale
per allontanare la malaria, oppure li fanno segnare dalla Sampira
per levare il malocchio.
Si coglie lo strazio delle madri per la fucilazione dei loro
figli renitenti alla leva: quando l'Emilia Romagna rimane soggetta
alla costituita repubblica sociale italiana e serve la formazione
di un esercito repubblichino con le classi di leva 1923, 1924
e 1925, la condanna a morte per i disertori è l'applicazione
della legge di guerra. Altri racconti di donne analfabete, modeste,
ubbidienti al padre, al marito e alle suocere. La rassegnazione
di Nina, ragazza ventenne, costretta a prostituirsi dal patrigno
e una madre consenziente. L'umiliazione di Antenisca per aver
disonorato il marito con un pastore. Lina e il suo aborto mancato
o il matrimonio forzato di Giulia, combinato da un padre-padrone.
E se negli anni Sessanta “le contadine non siedono a tavola
con gli uomini”, agli inizi degli anni Settanta, Maria
è per tutti una “merce avariata” perché
partorisce a sedici anni durante una gita scolastica nel bagno
di un autogrill un feto morto, frutto della sua colpa. Donne
destinate ad essere chiamate zitelle per una scelta diversa
e libera dal vincolo del matrimonio oppure obbligate a scegliere
tra la carriera e la famiglia. Donne violentate per aver osato
avventurarsi da sole in campagna per una passeggiata in bicicletta.
Sono storie di ignoranza, superstizione e di una visione patriarcale
e maschilista del mondo.
Tuttavia, l'autrice disattende gli intenti iniziali: “I
giovani d'oggi non si rendono conto di quanto sia stato difficile
[...] . Ora siamo compagne dei nostri uomini, non vogliamo
stare né sopra né sotto di loro, ma al loro fianco
per costruire un mondo migliore”. Ancora: “La
donna oggi lavora ed è impossibile per moltissime famiglie
allevare e mantenere molti figli, in quanto la società
è cambiata ed è giusto seguire i figli nel loro
percorso formativo [...] aiutarli a mettere su famiglia
e seguire i figli dei figli, i nipotini, per quanto possibile”.
Ronconi sembra proprio non cogliere i mutamenti oggi in atto,
ad esempio rispetto alla famiglia. Nelle sue esternazioni replica
alcuni modelli unidirezionali di quel passato, che proprio nei
suoi intenti vorrebbe stigmatizzare. Con la presunzione di voler
rivolgere il suo messaggio ai giovani. Ma alle nuove generazioni
credo non serva la retorica ingenua e paternalistica della nonna,
dalla quale invece, i giovani – da saggi – rifuggono.
Claudia Piccinelli
Teologia della liberazione
contro la dittatura brasiliana
Cosa
hanno in comune Ferrara e São Paulo, un frate e un guerrigliero,
l'anarchia e la teologia? In questo libro (Frei Betto, Battesimo
di sangue, Rete Radié Resch, Quarrata (PT), 2009,
pp. 332 € 15,00, rete@rrrquarrata.it),
geografie, storie e impegno politico si intersecano e si intrecciano,
per scrivere un capitolo di storia taciuto per troppo tempo:
quello del Brasile durante la dittatura militare. Soggetti della
storia, Augusto Marighella, meccanico italiano ateo e anarchico,
e Alberto Libânio Christo, frate domenicano meglio conosciuto
come Frei Betto. Anello di congiunzione, un giovane immigrato
di seconda generazione, passato alla storia come il Che Guevara
del Brasile: Carlos Marighella.
Figlio di Augusto, emigrante in Brasile, e di una discendente
degli schiavi haussa catturati in Africa per popolare il nuovo
mondo, Carlos Marighella fu ammesso alla facoltà di ingegneria
del prestigioso Politecnico di Bahia, ma non dimenticò
mai la sua origine proletaria, le idee libertarie ereditate
dal padre e l'ostinata volontà della madre di fare dei
propri figli non degli schiavi come i suoi antenati neri, ma
donne e uomini liberi e padroni del proprio destino.
Carlos aveva ascoltato sin da bambino le storie delle lotte
dei lavoratori europei, e quelle dei quilombolas, gli
schiavi fuggitivi nascosti nelle foreste del Nordest brasiliano,
e presto aveva compreso che “il gusto amaro dell'ingiustizia
brucia le viscere, fa sanguinare il cuore e richiede una mediazione
politica per non inaridirsi nella rivolta individuale o nella
rinunciataria fatalità del destino” (p.5). Pertanto
diventa uno dei più attivi militanti del PCB (Partido
Comunista do Brasil) distinguendosi per l'impegno, le capacità
logiche e oratorie, il coraggio. Ha 21 anni quando critica in
versi il governo baiano, che non apprezza le sue doti poetiche
né politiche e lo spedisce in prigione. Vi ritorna il
primo maggio del 1936, durante le manifestazioni dei lavoratori
paulisti; torturato per ventitré giorni, non rivela i
nomi dei compagni di partito. Esce dopo un anno e, mentre ha
inizio la dittatura di Getúlio Vargas, per Marighella
iniziano la clandestinità e la mobilitazione dei lavoratori
paulisti contro l'avanzata del nazifascismo. Nel 1939 è
di nuovo arrestato e torturato; è liberato dopo sei anni
in seguito alla caduta del regime Vargas. In carcere scrive
sulla Libertà: Non resterò a lungo solo in
arte/con decisione vigilante e forte/tutto farò per te,
per esaltarti/sereno, noncurante di mia sorte. (p.12).
L'autore lo ha incontrato a São Paulo nel maggio 1969;
si conoscevano solo di nome e condividevano lo stesso impegno
di aiutare i perseguitati politici a uscire dal Brasile; per
Marighella era un servizio reso all'ALN (Ação
Libertadora Nacional), per Betto era la consapevolezza che aiutare
i rifugiati politici fosse in linea con la tradizione della
chiesa perché “servire la causa della liberazione
dei poveri è servire Cristo” (p.74). Questo afferma
la teologia della liberazione, e in quest'ottica è
teologica la scelta rivoluzionaria di Camillo Torres,
assassinato in combattimento nelle foreste della Colombia.
L'appoggio a Marighella e la condivisione della causa libertadora
del Brasile, valsero a Frei Betto la fama di pericoloso sovversivo,
la clandestinità, il carcere, la tortura. Durante un
interrogatorio definì Marighella “uomo assetato
di giustizia che ha dato la vita per la causa del popolo”.
“Come può collaborare con un comunista?”
– fu la domanda dei suoi inquisitori. La risposta lo bollò
definitivamente come leader pericoloso e alleato della guerriglia,
oltre che eretico e blasfemo: “La dottrina della chiesa
non scarta il diritto degli oppressi di difendersi, con le armi,
dall'oppressione di strutture che li schiacciano” (p.147).
E rispondendo ancora dei suoi legami con Marighella, nemico
numero uno della dittatura, “Sono i gesti concreti di
giustizia che ci salvano” (p. 146).
Battesimo di sangue narra questo intreccio di storie,
e spiega, con notizie di prima mano, come sia realmente avvenuto
l'assassinio del capo carismatico dell'ALN, attirato in un'imboscata
da un noto criminale che con la tortura aveva estorto notizie
utili ai frati domenicani vicini alla resistenza; ma narra anche
di un'altra morte, non meno violenta e più sottile, che
ha ucciso lentamente e scientemente prima la personalità
e poi la persona di Tito de Alencar, il giovane domenicano che
ha saputo resistere alle torture ma non al ricordo di umiliazioni
e degrado. Quello dell'essere umano che, accecato dalla ferocia
del potere, svilisce e svende la propria umanità.
Frei Betto, esponente della teologia della liberazione
e giornalista, ha narrato al mondo i crimini compiuti dalla
dittatura militare brasiliana e nei suoi tanti libri ha ricostruito
le storie drammatiche dei prigionieri politici nel carcere di
Tiradentes a São Paulo. Battesimo di sangue, da
cui nel 2006 è stato tratto un film di denuncia, ha ricevuto
il Premio Jabuti, principale riconoscimento letterario del Brasile.
Alba Monti
La vera rivoluzione?
La pace
L'impegno per la pace dell'autore viene raccolto, elaborato
e tramandato in questo catalogo (Abbasso la guerra, persone
e movimenti per la pace dall'800 ad oggi, catalogo della
Mostra a cura di Francesco Pugliese, editore Grafiche Futura
– Helios, pp. 178, 2013), da cui è tratta una mostra
documentaristica itinerante che viene esposta ovunque si presenti
la volontà di offrire un contributo culturale al recupero
della memoria storica dell'attivismo dei costruttori di pace
contro l'orrore delle guerre. Occorre sottolineare la particolare
ampiezza della ricerca, il valore di strumento di consultazione
del libro-catalogo e l'intento di rispondere a un bisogno di
sistematizzazione nella narrazione dell'impegno contro la guerra.
Il catalogo redatto da Francesco Pugliese e lo studio applicato
alla raccolta spaziano, nell'ampia ricostruzione storicistica
e storiografica, tramite documenti e fotografie d'epoca, dal
periodo anticolonialista all'antifascismo, dagli scioperi del
marzo 1943 al movimento dei partigiani della pace, fino ad arrivare
al celebre appello di Einstein e Russel, alla prima marcia Perugia-Assisi,
ideata da Aldo Capitini e all'opposizione pacifista nella guerra
del Vietnam.
Pugliese tratta inoltre delle ingenti manifestazioni contro
gli armamenti e le basi militari a Comiso e dell'attualissima
questione nucleare, dove l'annientamento dell'umanità
viene scongiurato dal nobile atto e dall'audace scelta dell'obiezione
di coscienza alle spese militari e nucleari e dell'attivismo
diretto alla denuclearizzazione mondiale e totale. L'autore
non tralascia di condurre la ricerca documentaristica e dall'alto
spessore pedagogico e didattico, attraverso i percorsi storici
contemporanei, analizzando le guerra nella ex-Jugoslavia e la
guerra in Iraq del 2003 condotta da Bush, a cui si sono opposte
tutte le campagne pacifiste e nonviolente; per poi giungere
alla raccolta di materiali e documentazioni, fruibili da un
pubblico attento e sensibile, sulle manifestazioni e i movimenti
contro le basi USA, come la Dal Molin, e sulle campagne pacifiste
attuali contro gli F35, evidenziando le conseguenti polemiche
inerenti il taglio drastico delle risorse alla sanità,
alla scuola e in generale allo Stato sociale.
La pace, da sempre, è l'ideale nobile a cui deve aspirare
l'intera umanità, perché con essa tutto è
possibile e realizzabile, perché la pace è creazione
e creatività, è desiderio e speranza, è
avvenire, è futuro per la donna e l'uomo di tutti i tempi.
La vera rivoluzione è la pace, quando comincia un pensiero
alternativo alla guerra. Il termine “pacifismo”
è stato introdotto tra l''800 e il ‘900 con il
significato culturale di un pensiero e di pratiche, di teorie
e movimenti tesi a prevenire e contrastare la guerra, le culture
violente, le tradizioni guerresche e le relative politiche guerrafondaie.
Il pacifismo e la nonviolenza sono espressione popolare e simbolo
di uno sforzo collettivo, di un anelito interiore, di rivolte
personali, interioristiche e individuali e di teorie di figure
profetiche, ossia l'opposizione ai conflitti armati di persone,
donne e uomini che osano ribellarsi alla presunta fatalità
della guerra e che singolarmente e collettivamente, individualmente
e interiormente, hanno trovato il coraggio di creare una rivoluzione
di pensiero dal basso per opporsi a tutte le guerre, agli imperialismi,
alle armi e alle violenze. Persone singole e moltitudini, si
incontrano nelle marce, nelle manifestazioni, nei cortei per
opporsi alle guerre, al nazionalismo e all'uso delle armi nucleari
e di distruzione di massa.
Il nome dell'Italia, del nostro bel Paese, brilla nel mondo,
non per le imprese militari in epoca coloniale e fascista e
per le cosiddette e surrettizie guerre umanitarie contemporanee
in Iraq, Afganistan, Libia, ma per la sua immensa cultura, per
il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico. Il cammino
per una rivoluzione pacifista e nonviolenta è arduo e
tortuoso, perché lungo è ancora “il cammino
che dobbiamo imparare a percorrere” come sostiene il partigiano
e “padre costituente” Stéphane Hessel, affinché
“la guerra diventi un tabù come l'incesto”,
così ribadisce il comboniano Padre Alex Zanotelli.
Per ordini, esposizioni e presentazioni della Mostra, mail:
franz_pugliese@yahoo.it
(proventi destinati ad Emergency e a realizzare un pozzo per
acqua potabile in Africa).
Laura Tussi
L'armata
dei sonnambuli
Ho letto con piacere il nuovo libro dei Wu ming sulla rivoluzione
francese.
Parlando con un compagno è emersa una domanda su quanto
serva oggi parlare del passato. Secondo me ne vale sempre la
pena; cercare le fallacie del passato anche da diverse prospettive
può essere in buon metodo per capire quei ricorsi storici
e dinamiche che ogni volta bloccano un'insurrezione portando
alla restaurazione o al riformismo. Il bello del romanzo, a
mio avviso, è per prima cosa il fatto che gli autori
contrappongono alle armate della restaurazione, fatte di sonnbuli
auto diretti, delle individualità autonome che agiscono
nel palcoscenico della rivoluzione, spinti da un sano egoismo
stirneriano. È come se in tutto il racconto fosse evidente
quello che alcuni psicologi chiamano “complesso gemellare”:
a forze sovversive che chiamerò radicali, nella psiche
così come il sociale, si oppongono altrettante forze
conservatrici che impediscono lo sviluppo e il salto avanti.
Uno dei moventi della restaurazione o del riformismo è
sicuramente la paura: paura che nel libro è rappresentata
dal viaggio nell'inconscio simboleggiato dal viaggio del dottore
illuminista ai confini delle province francesi. I personaggi
principali del romanzo a differenza dei “cattivi”,
esplorano i loro limiti interiori affrontando una ferita personale.
Questo può dare adito ad una lettura individualista stirneriano
nel senso che solo l'unico che arriva a possedersi e agire per
il suo egoismo, può confrontarsi in modo sano con l'altro,
anch'esso liberato. Nel libro c'è anche un'istituzione
totale come il manicomio: per chi come me si occupa di psicologia
è interessante notare come si evidenzi quanto l'ideale
folle di guarire tramite il controllo dell'altro in fondo non
è che una forma di plagio e potere.
Questo è molto evidente nel romanzo dove si tratta ampiamente
di sonnambulismo come metodo di cura che sottomette invece di
liberare il paziente. Individuo contro l'armata dei sonnambuli,
individuo contro le sue stesse debolezze, individuo contro l'istituzione
totale: la rivoluzione è sempre teatro dell'Uno che si
scontra e incontra con più piani di conflitto. E infatti
solo dopo aver fatto il percorso personale, i personaggi principali
possono unirsi. Insomma, ne “L'armata dei sonnambuli”
ho letto questo: senza un precedente percorso di liberazione
interiore, agire in modo rivoluzionario e unirsi agli altri
è difficile. Almeno per chi è libertario: per
le forze della reazione fascista e conservatrici non serve un
uomo o donna completo, basta un burattino da guidare e plagiare
con marketing e propaganda. Il personaggio che più ho
amato è stato l'uomo mascherato, quasi un eroe romantico
della vecchia propaganda del fatto, un rivoluzionario egoista
e bislacco, un teatrante, che punisce i nemici prima mosso da
un bisogno di esserci nel palcoscenico, poi, dopo tante cadute,
li affronta unendosi agli altri. Lèo l'attore è
un j'accuse sincero a tutti coloro che vedono lo scontro
come un atto teatrale ed esibizione ma anche un personaggio
nobile che nelle due contraddizioni non nega le sue ambizioni
personali. Il mito del rivoluzionario duro e puro che non ha
mete egoistiche è di matrice cattolica: lungi dall'essere
martiri, quel che mi è piaciuto è che qui gli
eroi sono individui.
Io avrei approfondito nel capitolo finale il racconto su “Gli
arrabbiati”: i famosi Enragés della rivoluzione
francese, che molti considerano prodromi dell'anarchia ma in
effetti un romanzo non è un libro di storia. Durante
la Rivoluzione francese, il girondino Brissot definiva “anarchico”
il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa
definizione dell'“anarchia”: “Leggi non
tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate,
il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza
dell'individuo violata, la moralità del popolo corrotta,
nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste
le caratteristiche dell'anarchia.” Definizione quindi
del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che
sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici»
il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati
di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi
che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui
loro non governano...”. L'esempio forse più
clamoroso ed estremo delle tesi sostenute dalla corrente degli
“arrabbiati” o, come furono definiti dal girondino
Brissot, degli “anarchici” all'interno della rivoluzione
francese.
Contrario alla dittatura e al “terrore”, Varlet
viene più volte imprigionato per bloccarlo nella sua
attività sovversiva, perché, contrariamente a
quanto si crede, il primo scopo dei rivoluzionari, con in testa
il “virtuoso” per eccellenza, Robespierre, non era
tanto quello di abbattere il vecchio regime, mandare via la
monarchia, uccidere il re, sconfiggere gli eserciti nemici,
quanto quello di instaurare un nuovo regime, la dittatura della
borghesia in grado di assicurare una prosperità bottegaia
e produttiva alla Francia – e poi all'Europa – sulla
pelle dei nullatenenti, dei miserabili che dovevano solo servire
da massa di manovra. Varlet, Jacques Roux, autore del “Manifesto
degli Enragés”, Théophile Leclerc, e altri
anticipano le tesi che si concretizzeranno nella “congiura
degli eguali” di Babeuf, Buonarroti, Darthé e altri.
In altri termini, nessun potere sul popolo, ma tutte le decisioni
dovevano essere prese dal popolo in assemblee permanenti.
L'explosion è un breve testo in grado, comunque,
di farci vedere questo progetto come qualcosa in corso di realizzazione,
che il potere in carica, controllato dai giacobini, ostacolava
in tutti i modi, come peraltro è sempre accaduto. (da
J. Varlet, L'esplosione e altri scritti, Edizioni Anarchismo,
2013, pp. 56).
Barbara Collevecchio
I limiti
dello sviluppo sostenibile
Nonostante il termine abbia una lunga e molto articolata storia,
possiamo considerare gli anni Settanta come la culla di molte
delle idee riguardanti la sostenibilità. Lo stesso concetto
di sviluppo sostenibile, che ora troviamo declinato in
ogni discorso pronunciato da politici, amministratori, economisti,
è stato concepito proprio in quel decennio.
Correva l'anno 1973 e la prima crisi petrolifera pose il mondo
di fronte al problema della resilienza in caso di mancanza o
riduzione dei combustibili fossili, motore immobile e
condicio sine qua non di ogni cosa del mondo moderno. Alla
luce di quegli accadimenti e a fronte di una possibile carenza
di risorse non rinnovabili, una domanda sorse spontanea: che
fare?
Quel periodo non vide solo la nascita della preoccupazione per
il possibile esaurimento della linfa del sistema economico mondiale,
ma anche l'aumento graduale della sensibilità riguardo
a temi quali la salvaguardia dell'ambiente. Complici diversi
incidenti, come le vicende della petroliera Torrey Canyon (1967),
la nube di diossina a Seveso (1976), il disastro nucleare di
Chernobyl (1986), cominciò a crescere l'interesse, anche
giuridico, nei confronti di tematiche inerenti ad ambiente,
ecosistema e risorse.
Nel 1972 fu redatto, da parte del System Dynamics Group del
Massachusetts Institute of Technology (MIT), un rapporto (I
limiti dello sviluppo) circa le conseguenze che una continua
crescita dei tassi di produzione, depauperamento delle risorse,
inquinamento e crescita della popolazione avrebbe causato al
pianeta. Il verdetto risultò molto chiaro: allo stato
attuale dello sfruttamento delle risorse naturali, della produzione
di inquinamento, dell'aumento demografico le ripercussioni,
continuando assiduamente su quella strada, sarebbero state apocalittiche.
A soluzione del problema, i redattori del rapporto invocarono
una prospettiva di crescita nulla, conseguibile attraverso il
mantenimento stazionario delle variabili prese in esame; produzione,
consumo e densità della popolazione sarebbero dovute
rimanere pressoché invariate.
Considerate le affermazioni fatte dagli studiosi del MIT, si
cominciò così a pensare a come agire sul sistema
economico e sul modello di produzione, riconosciuti come principali
colpevoli del deterioramento delle risorse disponibili, in modo
da trovare una soluzione a quella che non si voleva né
poteva considerare una sentenza definitiva. Per i più
era impensabile considerare l'idea della creazione di un nuovo
modello; meglio cercare di correggere per quanto possibile quello
esistente, accettandolo con tutti i suoi difetti. Forse, pensarono,
aggiustando di qualche grado la rotta si sarebbe raggiunto il
giusto compromesso: mantenere il tasso di crescita economica,
aumentare consumi e produzione, riuscendo a non compromettere
le generazioni future.
La bioeconomia, fuori dal coro
Il Rapporto Brundtland, redatto nel 1987 dalla Commissione mondiale
sull'ambiente e lo sviluppo, andava proprio in quella direzione
ed esprimeva il significato di quello che venne definito da
quel momento in avanti sviluppo sostenibile. A seguito
della presa di coscienza dell'esistenza di un problema ingente,
l'obiettivo del mantenimento delle risorse senza uscire dal
modello economico sviluppista divenne idea ufficializzata e
largamente condivisa, soprattutto dagli amministratori che decisero
di adottare il rapporto Brundtland come cartina tornasole per
ogni azione futura. Il compromesso e la ricerca di un equilibrio
tra crescita e risorse naturali sarebbe stata la strada da percorrere,
nella speranza che il futuro socio-economico del mondo potesse
rivelarsi un gioco a somma zero: nessuno, né la crescita
né l'ambiente, ci avrebbe rimesso.
In questo insieme di voci unisone, quella di Nicholas Georgescu-Roegen,
teorico della bioeconomia, risultò indubbiamente fuori
dal coro. L'economista rumeno, nato a Costanza nel 1906, lavorò
con il fine di incorporare le leggi della fisica e della biologia
all'interno dell'economia, in particolare l'inserimento delle
leggi della termodinamica nelle considerazioni economiche. Alla
scuola neoclassica criticava la riduzione dell'economia ad un
incessante movimento circolare tra produzione e consumo destinato
a ripetersi e perpetuarsi all'infinito; all'interno di quel
modello meccanico, sosteneva l'economista, la natura non trovava
alcuno spazio.
Per Georgescu-Roegen, quello delle risorse naturali non era
argomento di poco conto e, a seguito delle scoperte in campo
termodinamico, era per lui doveroso rivedere il modo in cui
la produzione e lo sfruttamento delle risorse venivano percepiti.
Tenere conto dei principi della termodinamica sarebbe dovuto
essere l'obiettivo di ogni enunciazione economica.
Grazie ai contributi di Nicolas Sadi Carnot (1824), considerato
il padre degli studi sui processi di trasformazione di massa
ed energia, sappiamo che un sistema chiuso quale il pianeta
Terra non può sfuggire all'ineluttabilità della
degradazione. Tralasciando i tecnicismi, possiamo affermare
che il primo principio della termodinamica enuncia che niente
può essere prodotto o distrutto, ma sempre e solo trasformato.
La legge dell'entropia ci spiega però che energia e materia
sono soggette, durante i processi di trasformazione, a degradazione.
Se così non fosse, tutto sulla terra sarebbe imperituro,
inesauribile ed eterno. ''Le risorse naturali – ribadisce
più volte Georgescu-Roegen – costituiscono un problema
perché il loro stock è non solo finito, cioè
limitato, ma anche irrevocabilmente esauribile. Pur con un ammontare
finito di risorse accessibili non vi sarebbe scarsità
in senso proprio se non fosse che, per l'operare della legge
dell'entropia, energia e materia si degradano da uno stato in
cui sono utilizzabili a uno in cui risultano inutilizzabili''.1
E proprio quest'idea della degradazione ineluttabile viene presa
raramente in considerazione quando si affronta il tema della
ricerca della sostenibilità. Eppure l'effettività
della legge entropica non pare essere argomento opinabile poiché
reale principio regolatore del mondo entro il quale viviamo,
siano gli esseri umani d'accordo o meno.
Alla luce dell'analisi dei processi economici attraverso i principi
della termodinamica, l'idea che sia possibile trovare un compromesso
tra crescita continua di produzione e consumi e mantenimento
dello stock di risorse sembra di impossibile attuazione. Le
risorse infatti si degradano secondo un processo che Georgescu-Roegen
considera impossibile da arrestare.
L'illusione tecnologica
Moltissimi tra economisti, scienziati e ricercatori di diversa
estrazione hanno cercato di controbattere quest'asserzione proponendo
l'argomento delle nuove tecnologie; per molti, saranno queste
ultime a salvarci dall'empasse, permettendoci di superare
il problema posto dalla naturale scarsità ed esauribilità
delle risorse. L'autore di ''Energia e miti economici'' si esprime
anche su questo punto, affermando che ''la tesi preferita tanto
dagli economisti tradizionali quanto dai marxisti è,
comunque, che le possibilità della tecnologia non conoscono
limiti. Riusciremo sempre non solo a trovare un sostituto per
una risorsa che sia diventata scarsa, ma anche ad aumentare
la produttività di qualsiasi tipo di energia e di materia
prima; se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo
a escogitare un rimedio come abbiamo fatto fin dai tempi di
Pericle; niente quindi potrà mai frapporsi a un'esistenza
sempre più felice per la specie umana. Sarebbe difficile
trovare una forma più ottusa di pensiero lineare2''.
Grazie ai contributi offerti da Georgescu-Roegen all'economia
moderna, si potrebbe dunque ritenere l'idea di sviluppo sostenibile
(o durevole) come priva di fondamento e, soprattutto, non realizzabile.
A causa della legge entropica e dell'ineluttabilità della
degradazione, era per lui errata la convinzione della possibilità
di salvaguardare lo stock di risorse continuando sulla strada
della crescita economica, del maggior consumo e della maggior
produzione. Il sistema produttivo, quindi, non doveva considerarsi
in alcun modo un gioco a somma zero: all'aumento della produzione
e dei consumi sarebbe seguita un'accelerazione dell'esaurimento
di risorse senza che nessuna tecnologia, anche la più
efficiente, potesse fermare il processo. Contrariamente a quanto
sostenuto dai redattori del rapporto sui limiti dello sviluppo,
si spinse ad affermare la fallacia di un progetto di crescita
zero: anche mantenendo costanti produzione, consumi, inquinamento
e crescita demografica, l'umanità non sarebbe sfuggita
in alcun modo all'inevitabile esaurimento delle risorse naturali.
Se è quindi impossibile sottrarsi alla degradazione,
allora come agire? Considerare l'ineluttabile esistenza dei
limiti materiali del nostro pianeta, ripensando l'intero sistema
produttivo, cercando così di far riconciliare l'economia
con l'ecologia.
Carlotta Pedrazzini
1 Stefano Zamagni, Introduzione a N. Georgescu-Roegen
Energia e miti economici, 1982, Editore Boringhieri, Torino,
p. 18.
2 N. Georgescu-Roegen Energia e miti economici, 1982, Editore
Boringhieri, Torino, p. 44.
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