Monfalcone,
l'anarchia e l'esperanto
Ci sono molte tracce tematiche che possiamo riconoscere nella
storia degli anarchici a Monfalcone (Gorizia). Com'è
logico, il “caso Monfalcone” rappresenta un esempio
concreto di questioni attinenti la storia del movimento operaio
e dei movimenti popolari del Novecento. Antimilitarismo, solidarietà
di classe, sindacalismo di azione diretta, antifascismo militante,
spontaneismo e organizzazione, anticlericalismo e internazionalismo
sono temi ricorrenti.
Il movimento anarchico monfalconese opera in modo preminente
all'interno del Cantiere Navale Triestino, fondato nel 1908
da capitalisti asburgici, dove incrocia i lavoratori di diverse
provenienze, in modo particolare istriani del Litorale, sloveni
del Carso, coloni della campagna italiana, friulana e anche
veneta nella variante bisiaca, la parlata del territorio monfalconese.
Il fatto che le componenti alloglotte preminenti, quindi friulani
e sloveni, evitino l'inurbamento conservando una dimensione
di pendolarismo con la campagna fa sì che il movimento
anarchico monfalconese si esprima inevitabilmente in lingua
italiana.
Una vena internazionalista però percorre l'intera storia
dell'anarchismo monfalconese e si esprime nella lingua internazionale
esperanto.
L'esperanto (Speranza) è la lingua internazionale neutrale
proposta nel 1887 dal medico e poliglotta ebreo Ludovico Lazaro
Zamenhof, vissuto nella parte occidentale dell'Impero zarista
(oggi Polonia). Dal decennio successivo al 1895 l'Esperanto
si diffonde in Europa occidentale, in maniera particolare in
Francia. Anche l'Austria-Ungheria – a cui all'epoca appartiene
Monfalcone – ne conosce una precoce diffusione soprattutto
grazie al viennese Alfred Hermann Fried. La sua attività
prolifica viene riconosciuta a livello mondiale tanto che nel
1911 gli viene consegnato il Premio Nobel per la pace.
La lingua elaborata da Zamenhof trova precoce diffusione anche
negli ambienti anarchici del Litorale Austriaco tanto che 'Esperanto'
è lo pseudonimo usato da un corrispondente da Pola della
prima serie di “Germinal” - il giornale anarchico
di Trieste tuttora esistente - del 1907. Anche a Monfalcone
è attivo un Circolo Esperantista perlomeno dal 1912,
come emerge dai comunicati che appaiono sul giornale “Il
Socialista Friulano”. L'anarchico Cobau (talvolta citato
come Cobal o Kobal) è uno dei principali animatori del
Circolo essendone segretario.
Dopo la parentesi bellica, in cui anarchici e pacifisti vengono
internati o diventano profughi, a fine giugno 1920 si costituisce
a Monfalcone, con buon numero di aderenti, il Circolo Libertario
di Coltura che prende il nome di Caffè Esperanto e che
probabilmente ha collocazione all'interno delle istituzioni
operaie socialiste visto che presso l'Archivio del Comune di
Monfalcone non sono presenti atti a riguardo (né commerciali,
né edilizi). Di questa parentesi di storia degli esperantisti
libertari monfalconesi non ci sono altre tracce. La loro memoria
è stata cancellata o occultata da anni di violento fascismo
e da una guerra atroce.
Finita la guerra un'altra generazione di anarchici si affaccia
a Monfalcone ma la costante dell'interesse per l'esperanto rimane.
Anarchico e principale attivista esperantista è Vittorio
Malaroda che insegna la lingua internazionale agli operai del
cantiere e traduce e scrive poesie in esperanto. Malaroda è
uno dei due rappresentanti italiani della Sennacieca Asocio
Tutmonda (Associazione Anazionale Mondiale – SAT –
un'associazione esperantista indipendente mondiale) ed è,
a fine anni '70, tra gli organizzatori della Conferenza
degli esperantisti di Alpe Adria (comprendente Carinzia, Stiria,
Slovenia e il territorio del Friuli Venezia Giulia).
Malaroda non subisce la perquisizione della sua abitazione dopo
la strage di piazza Fontana come invece accade a Mario Candotto,
altra figura di anarchico ed esperantista che in seguito si
avvicinerà al PCI. Durante la perquisizione a casa di
Candotto quando i carabinieri trovano una scatola contenente
la corrispondenza internazionale in esperanto vanno in fibrillazione.
La repressione riesce nell'intento di scardinare la presenza
libertaria e le strade di anarchici ed esperantisti si separano
con la morte di Malaroda avvenuta nel 2003.
Una storia quasi sconosciuta, quella degli anarchici esperantisti
monfalconesi, che ci rivela un ambiente formato da persone coerenti
con il proprio internazionalismo e spirito libertario.
Luca Meneghesso
Elisée Reclus, l'Etna
e le sofferenze sociali
Per due secoli interi, il Settecento e l'Ottocento, l'Etna,
il maestoso vulcano che sovrasta Catania, ha attratto costantemente
viaggiatori curiosi e insigni studiosi di scienze della terra,
nonché geografi da tutto il mondo. Tra questi ultimi
uno dei più appassionati nell'affrontare il vulcano,
puntualissimo nella relazione descrittiva della sua esperienza,
fu Elisée Reclus. Reclus, lo studioso, già noto
nella sua patria, la Francia, per i suoi trattati scientifici
e per le idee politiche (con Bakunin e Kropotkin era stato tra
i fondatori del movimento anarchico internazionale), a causa
delle quali era stato in esilio per ben dodici anni, nel 1865
partiva per la Sicilia, per osservare da vicino caratteristiche
e attività del vulcano più famoso d'Europa. Del
suo viaggio nell'Isola darà conto lo stesso anno con
uno scritto dal titolo “La Sicile et l'éruption
de l'Etna en 1865. Récit de voyage” pubblicato
dalla rivista “Le Tour du Monde”, volume VIII (1865),
e dalla “Reveu deux Mondes”, July 1, 1865. Approdato
a Palermo, allo studioso francese tocca constatare come il malgoverno
borbonico abbia lasciato ferite ancora aperte e profonde: grande
è infatti l'incuria dei beni pubblici e la miseria in
cui versa il popolo. Stessa situazione lo studioso trova a Messina:
ambedue le città gli sembrano bisognose di vigorosi interventi
per uscire dalla precarietà che caratterizzava quel momento
storico post unitario. Catania, invece, gli appare più
operosa ed economicamente florida. Ma il suo interesse preminente
non è né sociologico, né economico, ma
scientifico e guarda con occhio indagatore all'Etna e alla natura
circostante. Per giorni, Reclus visita antri, lave sedimentate,
balzi e valli dell'Etna, dai piedi alle cime del monte, accompagnato
da una guida d'eccezione, Giuseppe Gemmellaro, il fratello dello
scienziato catanese Carlo Gemmellaro, considerato uno dei migliori
conoscitori sia dei percorsi che delle caratteristiche del vulcano.
Lo scienziato francese annota scrupolosamente le sue osservazioni
e le sue deduzioni, disegna gli elementi di più grosso
interesse scientifico visti, descrive con oculatezza percorsi,
flora, fauna, natura, cause ed effetti dell'eruzione, con impeto
documentario e analitico ma al contempo poetico: tanto che il
suo scritto eserciterà una forte suggestione sul grande
scrittore Julius Verne, amico ed estimatore di Reclus («J'
ai toute l' oeuvre d' Elisée Reclus, je professe une
grande admiration pour Elisée Reclus») e gli suggeriranno
parecchie pagine del suo romanzo “Mathias Sandorf”.
Reclus continua il suo giro dell'isola, interessandosi anche
ai fenomeni vulcanici delle isole Eolie: osserva con acume e
descrive l'attività dello Stromboli. Ma, seppure venuto
per indagare la terra siciliana principalmente ai fini della
crescita delle conoscenze naturalistiche e geografiche, l'indole
antiautoritaria e libertaria dello scienziato viene fuori e
in un paio di passi del suo resoconto descrive le lacrime e
il sangue che hanno provocato i detentori del nuovo potere italico.
Schiavi della macchina
A Centorbi (l'attuale Centuripe) in visita alla miniera di zolfo,
Reclus vi si inoltra dentro, per le gallerie dall'atmosfera
soffocante e dall'aria irrespirabile. All'interno «le
volte sono basse e tagliate in modo irregolare; pesanti pilastri
digrossati dal piccone sostengono il soffitto: vaghi luccicori
che compaiono e scompaiono al riflesso vacillante delle lampade
sorgono qua e là dalla profondità delle ombre;
un momento s'intravvedono dei corridoi che sembrano infiniti,
poi queste lunghe prospettive svaniscono in un batter d'occhio
e lo sguardo cerca invano di scandagliare le tenebre: si sentono
rumori strani, singulti, sospiri provenienti dal ripercuotersi
degli echi lontani». Sono gallerie piene di acqua sulfurea
e che vanno drenate, per evitare che allaghino tutto, con pompe
di prosciugamento, azionate da «poveri operai, coperti
soltanto da un grembiule come gli isolani dell'Oceania, e tuttavia
bagnati di sudore che girano incessantemente le manovelle delle
pompe.
Durante otto lunghe ore, questi uomini, appo i quali ogni intelligenza,
ogni sforzo vitale si porta necessariamente verso le braccia,
non sono altra cosa che le appendici muscolari dell'implacabile
macchina. Questa gira, gira senza posa, e senza mai fermarsi
solleva le acque che risuonano nei tubi di metallo: essa solo
sembra vivere, e gli atleti che si succedono di otto in otto
ore non sono che semplici meccanismi: lungi dal dominare la
macchina che mettono in moto, son essi i suoi schiavi'. Ad Augusta
vede i coscritti partire per il continente 'poveri contadini
mal vestiti, che per la maggior parte sembravano tristi, abbattuti
e spauriti come bestie selvatiche, prese di recente al laccio.
Sulla spiaggia, donne, fanciulli e vecchi facevano segni di
saluto, torcevasi le braccia, mandavano grida di disperazione,
inviavano raccomandazioni supreme a questi fratelli, a questi
figli che loro strappava la terribile coscrizione».
Erano solo «giovani soldati condannati ad un servizio
che per essi era la deportazione» scrive Reclus, che subito
dopo vede un drappello di galeotti «intrattenersi amichevolmente
coi gendarmi che li accompagnavano. Dalle catene in fuori si
sarebbe detto fossero camerata, ai quali il destino aveva assegnato
parti diverse, ma non meno onorevoli l'una dall'altra. La più
perfetta uguaglianza regnava fra i guardiani e i prigionieri:
ridevano insieme, si raccontavano storielle, si davano reciprocamente
nomi familiari, si ricambiavano i sigari e le pipe. I gendarmi
non se la prendevano con questi poveri diavoli per alcune disgrazie
e peccatucci, e dal loro lato i briganti accettavano la loro
sorte con una rassegnazione filosofica, e sembravano dire fra
loro ch'essi non erano da meno dei loro interlocutori».
Con la visita a Siracusa, al «paesaggio greco che la circonda»
e alle azzurrine acque del fiume Ciane, si conclude l'itinerario
siciliano di Reclus. Tornato in patria si dedicherà all'elaborazione
teorica dell'anarchismo, che cominciava a mettere radici in
tutta Europa, e all'azione politica diretta (partecipando tra
l'altro alla Comune parigina nel 1871). Questo tuttavia senza
trascurare gli studi geografici, in un lungo e fruttuoso girovagare
per il mondo. Nel 1878 lo scienziato anarchico venuto dalla
Francia farà ritorno in Sicilia. Sta ultimando la sua
imponente “Nuova Enciclopedia Universale”, commissionatagli
dall'editore Hachette - che vedrà la luce in dieci volumi
- e parlerà ovviamente ancora della Sicilia. Di Palermo
dirà della presenza della “maffia” - e sarà
il primo geografo a scriverne - di come crea e gestisce il suo
«territorio illegale» nella città, delle
ragioni sociali della violenza criminale. In generale, affermerà
la necessità che la geografia si occupi di territorio
ma anche di economia e società, ponendo così le
basi dell'eco-geografia moderna.
Un precursore che fece della Sicilia il suo laboratorio personale
per gettare lo sguardo oltre la natura, soffermandosi sulle
sofferenze sociali che affliggevano il sud d'Europa.
Silvestro Livolsi
Appunti di viaggio/
Nepal, non solo Kathmandu
Kathmandu non è il Nepal, come Roma non è l'Italia
e Parigi non è la Francia.
Il Nepal per me sono le montagne, Kathmandu è... Kathmandu.
A me Kathmandu ricorda la ruota della vecchia Mercedes Benz
mentre Bentivoglio ed Abatantuono stanno viaggiando in “Turné'”
(G. Salvatores, 1990), ma soprattutto Kathmandu a me ricorda
Sarajevo.
A Sarajevo sono coesistite tre etnie, pacificamente, per secoli:
i bosniaci (musulmani), i serbi (ortodossi), e i croati (cattolici).
Sarajevo ha rappresentato un esempio di coesistenza, purtroppo
distrutto dall'artiglieria serba agli inizi degli anni novanta.
In Nepal sono censiti ufficialmente più di 100 gruppi
etnici. I famosi sherpa sono tra i meno popolosi. I newar, i
tamang, i tibetani e gli stessi sherpa differiscono considerevolmente
per lo stile di vita, l'abbigliamento ed i riti religiosi. A
Kathmandu i gruppi etnici vivono vicini, molto vicini.
Nel Nepal, a seconda della provienenza, si parla il Maithili,
Bhojpuri, Tharu, Avadhi, Rajbanshi, Hindi, Urdu, Tamang, Nepal
Bhasa (Newari), Magar, Rai/Kiranti, Gurung, Limbu, Bhote/Sherpa,
Sunuwar, Danuwar, Thakali, Satar, Santhal ed altre lingue minori.
Un tamang ed un newari non si capiscono se parlano le proprie
lingue. A Kathmandu tutti devono parlare nepalese.
Nima, il tizio nepalese che ci ha aiutato ad organizzare il
trekking all'Everest BaseCamp ci ha detto che un tempo, quando
lui era giovane (30 anni fa), eri conosciuto in base alla famiglia
alla quale appartenevi, adesso è meno importante. Tutto
si fonde, tutto si mischia, e paradossalmente tutto s'acutizza.
In Nepal si va dagli 80 mt vicino alle rive del Gange agli 8848
mt del monte Everest in soli 147,181 km2. Quindi,
sebbene di dimensioni piccole, questo paese offre casa a diverse
etnie, religioni, tradizioni, culture. A Kathmandu è
tutto concentrato a 1.300 mt.
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Kathmandu (Nepal) |
Quanto vale uno sherpa
Lo stipendio mensile di un nepalese è di circa 400 dollari
al mese. Circa 5000 dollari all'anno è lo stipendio di
uno sherpa. Gli sherpa lavorano per le spedizioni alpinistiche
per 5 mesi all'anno, due in primavera e tre in autunno. Il lavoro
degli sherpa sull'Everest consiste nell'attrezzare la via di
salita e preparare, oltre al campo base, i campi 1, 2, 3 e 4,
in modo che gli “scalatori” trovino tutto pronto
al loro arrivo. A seguito dei fatti del 18 aprile 2014, in cui
16 sherpa sono morti sulla cascata di ghiaccio del Khumbu, travolti
da una valanga mentre assicuravano le corde tra il campo base
e il campo1, gli sherpa sono scesi a Kathmandu per rivendicare
nuovi, e più robusti diritti. Come per esempio quello
d'incrementare l'indennità in caso di morte: era di 7.000
dollari adesso è diventata di 10.000 dollari, in pratica
poco più di due anni d'aiuti economici alla famiglia
in caso di morte della fonte di reddito.
Ciò che però fa “sorridere”, a denti
stretti, i non sherpa è che tra le rivendicazioni c'è
stata anche quella di 3 seggi del parlamento d'assegnare a rappresentanti
sherpa. Inquietanti segnali di una convivenza che potrebbe risultare
difficile.
Dal 2006 il Nepal ha sancito la fine dell'unico Stato fondato
sulla religione induista. Oggi il Nepal è uno stato laico.
Potere politico e religioso sono distinti. Ciò nonostante
la componente spirituale è importante, fondamentale,
se si vuol tentare di capire questo paese.
A Kathmandu le religioni sono un casino. Ci sono i buddisti
e gli induisti che s'intrecciano e in alcuni casi si mischiano
come a Swayambhunath (il tempio delle scimmie), dove il tempio
buddista è di fianco a quello induista, e i riti si mischiano
come le raffigurazioni. Anche se la maggioranza della popolazione
professa l'Induismo (80%), il Buddismo è l'altra religione
importante (10%), in particolare è la religione della
corrente tibetana Vajrayana. Il Nepal del nord ha subito molto
l'influsso e l'immigrazione dal Tibet, in particolare a seguito
della repressione cinese. A Kathmandu quando cambi via, o piazza,
passi da un tempio Buddista dove si rullano i cilindri dei mantra,
ad uno induista dove si fanno le puja. Comunque entrambi purificano
l'anima.
Nima è sherpa, quindi buddista, e ci dice che in un piccolo
paese nei pressi di Kathmandu recentemente la comunità
buddista ha chiesto d'erigere un tempio, gli induisti si sono
opposti. Un po' come a Cantù, nella ricca Brianza, dove
i musulmani trovano la resistenza dei cattolici che scoprono
la loro dimensione religiosa quando diventa una questione politica,
di presunti diritti. Paese che vai, difficoltà a superare
le diversità che trovi.
Nima ci spiega che non c'è niente di magico nella convivenza
tra buddismo e induismo, è semplicemente una questione
geografica. Il buddismo sta in montagna, l'induismo sulle rive
dei fiumi, quindi a valle. Fin che si rispetta la geografia
non c'è problema. Beni, una collega di Nima, ci tiene
a sottolineare che è la politica a creare i problemi,
la gente, anzi, le genti possono coesistere pacificamente.
La comunità musulmana è in crescita, la si stima
intorno al 5% della popolazione. Beni ci rassicura che i buddisti
e gli induisti sono pronti ad includere le feste di rito islamico
nel calendario nepalese, ma poi sottovoce precisa che i musulmani,
come i cristiani, non sono geograficamente definiti. Li si trova
in montagna come sulle rive dei fiumi.
Tra le cose da visitare a Kathmandu c'è il tempio di
Pashupatinat, dove quotidianamente, a tutte le ore, si assiste
al rito funebre induista della cremazione sulle rive del Bagmati,
fiume sacro per gli indù nepalesi. Fa impressione, per
i colori, per i sadhu, per la cerimonia. L'induismo è
così lontano dalle usanze occidentali, così incomprensibile.
Quello che sconvolge è la miscela. La miscela tra animali/uomini,
igiene/ascetismo, folclore/purezza, musica/silenzio, pubblico/privato.
Nel tempio indù ci sono mucche che girano libere. Le
mucche sono magre, sporche, e si nutrono della spazzatura. La
difficoltà a comprendere questo mondo per un occidentale
può essere descritta con il paradosso svizzero: sebbene
la mucca da queste parti, in Nepal, sia un animale sacro, se
io fossi una mucca non avrei dubbi, certo di finire prima o
poi sul tavolo di qualche macellaio, preferirei passare i giorni
della mia vita in qualche alpeggio in Svizzera.
Salendo all'Everest BaseCamp, ho assistito, nel monastero buddista
di Tengboche, a 3800 mt, alla cerimonia del pomeriggio: 2 ore
nelle quali i monaci hanno cantato, suonato e proclamato litanie,
tutto questo rigorosamente seduti nella posizione del loto.
Buddismo ed induismo hanno la stessa origine, ma fanno riferimento
a mondi diversi, e si proiettano sulla società in modo
completamente diverso, un esempio per tutti: nel buddismo non
ci sono le caste. A Kathmandu buddismo ed induismo si mischiano,
pur mantenendo le differenze.
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Kathmandu (Nepal) |
Consigli per viaggiatori intraprendenti
Kathmandu ti entra nelle orecchie, con i clacson, nei polmoni,
con lo smog, negli occhi, con i colori dei vestiti e delle spezie.
Ci sono tre cose che suggerirei di fare a Kathmandu, intendo
fuori dai doveri del turista:
1. Bere i lassi in piazza Pote Bazaar.
2. Fare una corsa con un bus di linea.
3. Perdersi nel quartiere a sud di Durbar Square.
1. Quando mi sono messo in fila per bere il lassi con i locali
a Pote Baazar, il tizio che lo vendeva, sorridendo, con un vistoso
incisivo d'oro, quindi un tipo ¨brillante¨, mi ha chiesto:
“How far is your hotel?”. Finito di bere questo
nettare, ha aggiunto “Run! Run!”. Sono tornato a
bere il nettare dal tizio brillante ogni volta che potevo.
2. Bhaktapur è una città ad un'ora di bus da Kathmandu.
Meravigliosa, da starci una notte. Ogni bus di linea è
gestito da un autista pazzo, e da un ragazzino che sta sulla
porta d'ingresso a riscuotere soldi, gridare contro gli altri
automobilisti, far salire le persone alle fermate. Nel viaggio
di ritorno il ragazzino non aveva più di 10 anni, con
gli occhi svegli e furbi di chi si deve arrangiare sin da piccolo.
3. Perdersi nei quartieri malfamati è un dovere di ogni
viaggio che si rispetti. Se vuoi capire un posto devi andare
dove la gente vive veramente. Così è stato in
ogni città che ho visitato. A Kathmandu ho camminato
per un paio d'ore senza parlare, registrando nella memoria immagini
di una vita impossibile, tra miseria e sporcizia. Mentre camminavamo
i bambini sorridendo ci prendevano le mani per accompagnarci
per un tratto di strada, in cambio volevano una caramella o
semplicemente un saluto. Uno di loro ha chiesto di comprargli
un vocabolario nepalese/inglese, glielo abbiamo comprato. Io,
certo che lo avrebbe rivenduto dopo qualche minuto, Chiara,
convinta che lo avrebbe usato per imparare l'inglese. Poco importa,
in entrambi i casi è stato utile ad una causa importante.
Sono seduto su una poltrona sfondata in un caffè a vicino
a Durbar Square a Kathmandu, ho ordinato un tè al ginger,
mentre riordino gli appunti di un viaggio che ci ha permesso
di camminare per 14 giorni nella valle del Khumbu, fino ad arrivare
all'Everest BaseCamp (#glueverest). Sto provando a contare quante
tazze di tè ho bevuto in questo viaggio, impossibile.
Il tè al ginger sta al Nepal come quello alla menta sta
al Marocco.
Guardo dal vetro del caffè e vedo il casino di questa
città. Viviamo un'epoca dove tutto si mischia, si confonde,
si miscela. Kathmandu rappresenta una delle tante miscele di
questo mondo, patrimonio dell'umanità che dovremmo imparare
a preservare, prima che, come Sarajevo, la diversità
diventi disuguaglianza.
Gianluca Luraschi
Storia della menzogna politica:
il Tav e le streghe
Si può scindere il Governo delle genti dalla gestione
politica dalla repressione? La risposta è presto detta:
no. Uno degli strumenti privilegiati dal Potere di ogni tempo
per annullare il dissenso è l'uso brutale del braccio
secolare. Questa è una verità lampante, testimoniata
dalla Storia stessa, ma sorprendentemente spesso dimenticata
dai più.
Eppure la violenza non può essere perpetrata senza proporne
una giustificazione; il Potere costruisce delle cornici narrative
all'interno delle quali la sua verità appare legittima
e perciò l'uso della forza diventa doveroso. Le altre
versioni dei fatti sono invece marginalizzate, dichiarate eretiche,
sovversive, pericolose. La storia è piena di organizzazioni
massive del consenso effettuate per giustificare i metodi brutali,
le violenze arbitrarie, le torture e le segregazioni perpetrate
dagli inquisitori di turno, sempre impuniti dietro la cataratta
di omertà che copre gli occhi di chi guarda e passa.
Tutti i soprusi del Potere si realizzano all'interno di una
costruzione autoreferenziale della verità, in cui la
sua versione dei fatti viene strategicamente messa in scena
senza nemmeno un grande impegno nel renderla verosimile. Del
resto esistono dei portavoce delle parole del Potere, deputati
all'invenzione di artifici che ne aumentino la credibilità
e pongano il sigillo dell'autorità.
In tutti i casi è però vero che la repressione
effettuata si indirizza verso un nemico considerato pericoloso
per via dei valori che esso incarna, estranei a quelli che invece
guidano i capi. Ogni epoca ha perciò la sua pletora di
dissidenti accusati, violentati, sfruttati e ridicolizzati.
E il Potere si dedica a marginalizzarli e colpirli con un'applicazione
che ha del sorprendente. La storia ripete attentamente i suoi
copioni e a volte la constatazione della sua ridondanza provoca
un brivido; è in momenti simili che l'osservazione degli
incessanti ricorsi del tempo porta a dubitare dell'esistenza
di un suo fine positivo, visto che a ripetersi sono spesso e
volentieri le sue parti più disgustose.
Uno dei più noti esempi delle persecuzioni di nemici
creati ad arte è rappresentato da quello, proverbiale,
effettuato contro la cosiddetta “stregoneria”. Agli
albori dell'epoca moderna, in quel XVI secolo scosso da guerre
di religione e dai primi vagiti dell'economia di mercato che
iniziava allora a muovere i suoi primi passi all'interno dei
nascenti Stati nazionali, si assistette in Europa ad un'ondata
di processi nei confronti di una categoria ben precisa di persone,
cosiddette “streghe” e “stregoni”. Appartenenti
a gruppi rurali dispersi nelle campagne, pare poco probabile
che costituissero un culto con pratiche comuni. È molto
più verosimile che con tale etichetta gli inquisitori
identificassero un vasto coacervo di donne e uomini dediti ad
un cristianesimo sincretico contenente ancora forti elementi
di paganesimo, di cui l'adorazione di un dio cornuto è
l'aspetto più famoso, contenutisticamente folkloristico
ma anche storicamente controverso. Streghe e stregoni finirono
in questi anni al centro di quella che oggi chiameremmo una
“campagna diffamatoria” assieme a molte altre categorie
di individui che occupavano i margini della società –
vagabondi, malati, folli, prostitute – tutti di lì
a poco confinati tramite leggi repressive fintamente caritatevoli
negli hôpitaux di cui Michel Foucault ci narrò
la storia in un suo fondamentale libro.
“Legittime” persecuzioni
Come si sa il Potere innalzò una macchina persecutrice
tremenda nei confronti di costoro, costituita da inquisizioni,
torture, processi nettamente sproporzionati rispetto alla gravità
dei pretesi “reati”. Uno stuolo di giuristi si era
adoperato per legittimare la campagna diffamatoria costruita
appositamente, composta da riletture in negativo di vecchie
leggende e trasformazioni concettuali tese ad individuare una
malvagità inesistente nelle pratiche magiche. Riti che
tempo prima non erano oggetto di nessuna forma di stigmatizzazione,
semmai di divertenti scene da commedia, assunsero una luce fosca
e inquietante, inventata di sana pianta al fine di giustificare
una persecuzione.
«Si hanno prove che, nell'imminenza del Rinascimento,
non è vero che la magia e la stregoneria fossero realtà
accette [...]. Solo un secolo dopo e per mezzo della violenta
propaganda dei monaci mendicanti la fantasia delle streghe diventò
credenza di tutto un popolo», propaganda effettuata attraverso
libri come la Demonomania di Jean Bodin e i più antichi
Malleus maleficarum dei domenicani Jacob Sprenger e Heinrich
Kramer e Formicarius di Johannes Nider. È interessante
valutare a questo punto le motivazioni che “il procuratore
di Belzebù” Bodin addusse per giustificare i processi
perpetrati sulle streghe, che ovviamente, in quanto procedimenti
decisamente inusuali per il diritto, dovevano essere condotti
secondo modalità straordinarie, fuori dalle righe. «Le
leggi pagane et divine riconoscono molte cose come certe, et
impossibili per natura, et nondimeno possibili contra tutti
i corsi ed ordini della natura»; del resto, se così
non fosse, se non potessero cioè accadere dei fatti soprannaturali
estranei all'arbitrio delle leggi fisiche, come i malefici e
le stregonerie, nemmeno potrebbero esistere i miracoli e dunque
Dio non sarebbe onnipotente. L'ordinario corso della natura
può, secondo Bodin, venire sospeso da chi possiede le
forze adatte. Dio o il Diavolo o chi da essi è ispirato
– un santo o una fattucchiera – possono operare
oltre le leggi di natura, e non ammettere questa possibilità
significa inficiare l'onnipotenza divina. Dunque l'inquisitore,
davanti a simili fatti, sarà costretto a sospendere l'ordine
razionale del suo agire – e di quello dei suoi processi.
«“Dove c'è pericolo et necessità et
cosa essorbitante, che non bisogna fermarsi altrimenti alle
regole di ragione, ma per contrario è procedere giustamente
secondo la ragione lasciando l'ordine di ragione”. V'è
cioè, a suo [di Bodin] parere, una ragione/legge divina
che obbliga la ragione umana anche a sragionare, quando ne sia
il caso, ed eliminare i suoi nemici che, del resto, costituiscono
una minaccia anche dell'umana convivenza civile».
Illiceità della sospensione della ragione
Esistevano quindi, ed esistono con ogni apparenza tutt'oggi,
alcune circostanze particolari in cui per l'onesto magistrato,
in ottemperanza alle necessità particolarmente pressanti
indotte dalle circostanze – la salvaguardia della civiltà
cristiana da pericolose sette demoniache, oppure ai nostri giorni
l'indispensabile costruzione di un treno ad alta velocità
tra Torino e Lione – è lecito sospendere l'uso
della ragione e condurre un processo che non rispetti alcuna
garanzia degli accusati, tramutati senza colpo ferire in mostri.
Ma «un processo ai mostri a sua volta è
consapevolmente mostruoso (e condotto da mostri).».
È in realtà un processo speciale, addirittura
un “non-processo”, data l'illiceità delle
premesse da cui esso parte. E tali sono le motivazioni che trasformano
mostruosamente – nel senso latino della parola
monstrum: colui che deve essere mostrato, esposto, con
il fine di essere additato dal pubblico – il danneggiamento
di un compressore in un atto terroristico le cui ripercussioni
cadono sull'Italia intera. Si tratta di vera e propria alchimia:
un reato di bassa lega viene tramutato in quello supremo, il
più vicino all'essenza stessa del Male. La stessa parola
“terrorismo” evoca immediatamente scenari catastrofici,
immagini strazianti, attori diabolici e perciò gli accusati
di un reato simile possono lecitamente essere tenuti dietro
le sbarre in condizioni di detenzione inumane. Peccato che “terrorismo”
– a ragione, ma come abbiamo detto in questo caso il suo
uso è sospeso ad maiorem Status gloriam –
dovrebbe essere considerata l'offesa sopra civili inerti, non
quella contro un inanimato compressore in un cantiere. Per convalidare
queste ipotesi persecutorie alle Demonomanie e ai Mallei
Maleficarum si sostituiscono oggi le parole di giornalisti
asserviti al governo, sempre pronti a convalidare la sua indiscutibile
versione dei fatti.
Cambiano i tempi, ma persistono gli orrori dell'inquisizione.
Si ripete incessante il sacrificio al Moloch del Potere,
che in ogni momento e luogo ingoia uomini e donne con l'unico
fine di mascherare le proprie motivazioni: ricchezza e brama,
perversa e sadica volontà di disporre della vita altrui
come materia inerte.
Valerio Morosi
Le citazioni e molti spunti sono prese dal vecchio ma ancora
affascinante libro di Luciano Parinetto Streghe e Politica,
IPL, 1983; il libro di Foucault citato è ovviamente Storia
della follia nell'età classica, Rizzoli 1976. Per
approfondire l'argomento stregoneria consiglierei anche il classico
di Carlo Ginzburg Storia notturna. Una decifrazione del sabba,
Einaudi 1989, mentre di tutta la vastissima letteratura sulle
menzogne a cui il potere ci ha abituati nella sua narrazione
quotidiana fatta di mass media invasivi e spudorate alterazioni
della verità un agile quanto approfondito compendio è
La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché, Derive
Approdi 2011.
Quelle scatolette di “merda d'artista”
che hanno cambiato l'arte
Arriva sì con un anno di ritardo dalla ricorrenza dei
cinquant'anni dalla morte di Piero Manzoni (Soncino 1963- Milano
1963), ma l'antologica di Palazzo Reale (“Piero Manzoni
1933-1963”, ha chiuso il 2 giugno, catalogo-Skira) voluta
dal comune di Milano ricompensa ogni disappunto o mancanza verso
questo artista che, nell'arco di una stagione brevissima, ha
cambiato l'arte e il modo di fare arte non solo nel nostro Paese.
Nelle
centotredici opere scelte dai curatori Flaminio Gualdoni e Rosalia
Pasqualino di Marineo (nipote dell'artista) c'è tutta
la parabola artistica ed esistenziale di un innovatore controverso
che, dopo Burri e Fontana, ha indicato alle avanguardie una
diversa strada da percorrere. C'è stata un'arte prima
di Manzoni, ma una volta che è passato lui sulla “scena”
nulla è stato considerato come precedentemente.
Manzoni ha sorpreso e scandalizzato per la sua eccentricità
e stravaganza, ma la sua finalità non era quella di dare
scandalo, piuttosto dare del suo lavoro l'idea di una ricerca
sempre più filosofica e concettuale. Infatti, come si
può vedere dalla prima sala dell'esposizione milanese,
da giovanissimo segue un tracciato di principi psicoanalitici
e di automatismi espressivi e gestuali riconosciuti nel Movimento
Nucleare, ma presto si allontana dal nuclearismo di Bay e Dangelo
per passare a lavorare sulle famose superficie bianche degli
“Achrome” (e siamo intorno al 1957), radicalizzando
il teorema del concettualismo e ponendosi domande del tipo “Perché
non liberare questa superficie? Perché non cercare di
scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di
una luce pura ed assoluta”?
Per il Nostro l'opera d'arte in primis è un'idea, un
pensiero, per cui non conta quello che si vede in essa ma quello
che non si vede. Secondo il suo punto di vista un manufatto
artistico non ha niente da comunicare, dipende tutto da chi
lo realizza o ne è fruitore nel provare a creare con
esso un rapporto. Dopo gli “Achrome”, Manzoni supera
la bidimensionalità del quadro con quelle “Linee”
di carta inchiostrate e nascoste in cilindri le quali, assumendo
una profondità tutta spaziale, concretizzano l'idea di
“un flusso vitale e infinito” ed agevolano un fare
arte in totale libertà. Non si può pensare di
allestire un'antologica su Piero Manzoni e non considerare la
centralità che hanno poi avuto nella veloce parabola
dell'artista “Il fiato d'artista” catturato in palloncini
di plastica, le “Uova sode” pronte per essere mangiate
ed impresse da impronti digitali o le “Sculture viventi”
(corpi nudi di donne) che vengono firmate dall'artista ed accompagnate
da un certificato di autenticità.
Ma l'icona che ha marchiato il Manzoni avanguardista e rivoluzionario
è sicuramente la leggendaria serie di scatole di “Merda
d'artista”. Nel maggio del 1961 Manzoni sigilla in novanta
“boites” per conserva di alimenti 30 grammi dei
suoi escrementi. Sebbene l'intento dell'artista sia economico,
e, quindi, di vendere le proprio feci a parità del prezzo
dell'oro al grammo, “Merda d'artista” provoca reazioni
ironiche e perplesse, lo scrittore Dino Buzzati sentenzia: “questi
barattoli le cui intenzioni ironiche rivoluzionarie non bastano
a riscattare la volgarità e il cattivo gusto di stampo
goliardico”. Finché Manzoni è in vita lo
scandalo pubblico della “Merda d'artista” viene
tenuto in naftalina, ma scoppierà nel 1971, quando Germano
Celant alla Galleria D'Arte Moderna di Roma curerà la
prima retrospettiva dedicata a Manzoni. Le piccole scatole di
latta con gli escrementi scateneranno reazioni forti e scomposte,
tant'è che persino un deputato presenterà un'interrogazione
parlamentare per chiedere le dimissioni della direttrice dello
spazio romano, rea di aver sperperato denaro pubblico per promuovere
una mostra che degrada i valori dell'arte. Così Manzoni
diventerà il genio (e il mito) irriverente e sfrontato
alla maniera di Duchamp con il suo orinatoio, ma come spiega
lo stesso Flaminio Gualdoni nel libretto appena uscito per Skira
“Breve storia della Merda d'artista” “l'opera
di Manzoni continua a interessarci, intrigarci, irritarci, perché
si regge su un'ambiguità insanabile, tra mistico e corporeo,
tra alto e basso, tra rivalità e morte. Tra oro e merda”.
Mimmo Mastrangelo
Considerazioni dopo il corteo NoTav
a Torino il 10 maggio
Il 10 maggio scorso Torino è stata attraversata da una
riuscitissima manifestazione NO TAV* contro la detenzione di
quattro giovani compagni accusati con un accanimento fuor di
misura di essere dei terroristi a causa del loro impegno nel
movimento NO TAV e in generale contro la repressione. Una di
quelle situazioni che rendono visibile il fatto che esiste un'area
politica, sociale, culturale refrattaria all'omologazione, un'area
che raccoglie, accanto a penne grigie o bianche come colui che
stende queste note, molti giovani vivaci e combattivi. Insomma,
anche dal punto di vista esistenziale, una situazione gradevole,
una riprova del fatto che, come si diceva una volta, l'amor
mio non muore.
Il caso ha voluto che facessi un pezzo di corteo col compagno,
e mio compaesano di sindacato, Stefano Capello, uomo nel contempo
analitico e melanconico, che è riuscito pure in un contesto
così favorevole all'entusiasmo o almeno all'ottimismo
a cogliere un motivo, appunto, di melanconia e mi ha fatto rilevare
come si viva in tempi che permettono mobilitazioni generali,
come appunto quella alla quale partecipavamo, ma non vede un
livello adeguato di mobilitazione della working class
nelle aziende e sul territorio, con l'effetto che mentre noi
ogni tanto adorniamo le piazze con cortei vivaci, colorati,
comunicativi nella società passa la precarizzazione radicale
del lavoro, la liquidazione delle residue libertà sindacali
e consimili nefandezze praticamente senza colpo ferire.
Assumendo come corretta la valutazione di Stefano, ed io convengo
con lui per l'essenziale, ne conseguirebbe che una serie di
mobilitazioni, da quella NO TAV a quella per la casa e il reddito,
che si sono sviluppate in questi ultimi mesi, pur essendo assolutamente
da condividersi e da sostenersi, lascerebbero senza risposta
l'esigenza, ammesso vi sia, di azione e di organizzazione dei
lavoratori.
Sul piano metodologico si potrebbe obiettare che una cosa sono
i movimenti sociali generali a difesa del territorio, per il
reddito e la casa ecc. ed altro è l'organizzazione dei
lavoratori, ma è anche vero che il movimento dei lavoratori
sul quale scommettiamo non è altro rispetto ai processi
di autorganizzazione sociale e non si limita alla pur necessaria
difesa del salario, ma propone una radicale trasformazione sociale.
Le conseguenze di un passato recente
In ogni caso la domanda su quali sono le condizione per una
ripresa di iniziativa dei lavoratori in relazione con i movimenti
sociali resta aperta. Proviamo ora a fare un passo, non troppo
lungo, indietro:
- il 10 gennaio 2014 CGIL-CISL-UIL hanno stilato con Confindustria
(e poi con Confservizi) un accordo che lega il godimento dei
diritti sindacali – per fare un solo esempio quello di
presentare candidati alle elezioni delle Rappresentanze Sindacali
Unitarie - alla firma di un accordo che prevede la cosiddetta
“esigibilità” degli accordi di carattere
economico e normativo che verranno firmati in futuro. In concreto
ciò vuol dire che un sindacato firmatario di quest'accordo
non potrà, ad esempio, indire uno sciopero contro un
contratto che ha visto la firma della “maggioranza”
sindacale. Per non tediare i lettori, per quanto riguarda le
modalità di misurazione della “maggioranza”,
basta dire che è blindata. D'altro canto un sindacato
che non firmerà l'accordo verrà spazzato via dalle
aziende dove non potrà contare su di una presenza particolarmente
forte e combattiva, con il risultato di rischiare di ridursi,
per quanto riguarda le aziende, ad una serie di ridotte isolate;
- all'inizio di maggio è stato approvato il cosiddetto
Job Act che praticamente rende il lavoro precario libero dai
pur limitati vincoli sinora esistenti dato che sarà possibile
assumere reiteratamente lavoratori precari sino ad un (presunto
visto che basta licenziare ed assumere dopo dieci giorni per
dilatare i termini) tetto di trentasei mesi e che cadono diversi
obblighi sinora previsti come la “formazione”, peraltro
storicamente inesistente, dei lavoratori precari e la giustificazione
sulla base di ragioni produttive della necessità di assumere
precari. Se si tiene conto che nel primo anno di funzionamento
della precedente legge sul reclutamento, quella legata al nome
del ministro Elsa Fornero, il 70% delle assunzioni è
avvenuta per lavori precari, è facile immaginare cosa
avverrà dopo la liquidazione di vincoli che, come ricordavo,
il precedente governo aveva ritenuto di porre. Anche in questo
caso non mi dilungo in una disamina della legge, ritengo avere
sufficientemente chiaro che permette una precarizzazione radicale
della working class.
Si tratta di due misure apparentemente non in relazione fra
di loro, la prima è un accordo di carattere corporativo
fra sindacati dei padroni e dei lavoratori che in una logica,
appunto, corporativa vale per tutti piaccia o meno, nel secondo
caso è una legge imposta da un governo che si fa vanto
del suo essersi emancipato da una relazione troppo stretta con
i sindacati e con confindustria.
In realtà, se esaminiamo le cose in maniera più
attenta, ci rendiamo conto che il gruppo parlamentare del PD
che controlla la commissione lavoro della Camera e del Senato
è però espressione organica proprio di CGIL-CISL-UIL
cosa che riconduce a maggior modestia le pretese di Renzi di
essere svincolato da tutto e tutti.
Qual è, di conseguenza, l'effetto combinato di due misure
che per certi versi ricordano il celebre aforisma di François
de La Rochefoucauld secondo il quale “L'ipocrisia è
un omaggio che il vizio rende alla virtù” giacché
sembrerebbero rendere più esplicito e brutale un potere
della burocrazia sindacale e del padronato già per l'essenziale
esistente?
Fatto salvo che quando i gruppi dominanti abbandonano una maschera
ed esercitano il loro potere con meno infingimenti, significa
che ritengono di essere in condizione di farlo e che non vale
la pena di pagare dazio; credo che sia evidente che in questo
modo, per un verso, si punta a ripulire le aziende da ogni presenza
sindacale scomoda e, per l'altro, dal garantire il dispotismo
padronale su lavoratori precari che si vedranno privati finanche
della possibilità di ricorrere ai tribunali del lavoro
contro le “esagerazioni” padronali.
Se questo è il quadro, il sindacalismo di base rischia
seriamente, visto che è ragionevole supporre che, con
i dovuti aggiustamenti, l'accordo verrà assunto da altre
associazioni padronali, di diventare una sorta di sindacalismo
di ultima istanza esterno rispetto alle aziende e ridotto ad
organizzare settori marginali della società e della working
class.
Proviamo a ricapitolare, nei luoghi del lavoro, come si suol
dire, l'asticella si alza. Organizzare un sindacato combattivo
è tendenzialmente sempre più difficile, una working
class in discreta parte precaria, in altra parte coinvolta da
crisi aziendali, per una discreta componente composta da lavoratori
senza diritti, stenta a riorganizzarsi. Nello stesso tempo lotte
non organizzate sindacalmente non si danno in misura degna di
nota con l'unica, importantissima, eccezione dei lavoratori
immigrati che operano nel settore strategico della logistica
sulla quale una riflessione approfondita va fatta.
Si tratta in una fase come questa di riorientare l'azione tenendo
conto di un contesto che chiede un incremento importante dell'iniziativa
generale delle organizzazioni radicali dei lavoratori che in
qualche modo devono – mentre resta essenziale il radicamento
aziendale e categoriale - puntare alla costruzione di un tessuto
organizzativo che sappia tenere assieme collettivi di lavoratori
e movimenti della società in una prospettiva meno angusta
dell'attuale.
Cosimo Scarinzi
* Vedi: Maria Matteo “Torino, 10 maggio.
Il sole oltre i blindati” in Umanità Nova
Dal Festival del cinema a Cannes,
riflessioni in disordine
Nell'attanagliante atmosfera glamour del Festival per antonomasia,
si fa presto a dimenticare che un film possa farti male. Il
Cinema é ancora capace di far tremare anche le più
stabili fondamenta morali e intellettuali: interrompere la nostra
convinzione Don Quixottiana di sapere cosa veramente succede
intorno a noi.
|
Simav, l'eroina. Filmmaker in Eau Argentée |
Mi sono fatto proprio male quest'anno. Ho iniziato col botto,
nel senso straziante del termine. Ho visto infatti Eau Argentée
–Siria Autoritratto. Un insieme di video strappati
da youtube, pezzi di un mosaico apocalittico che rappresenta
la Siria dall'inizio della rivoluzione fino ad ora... probabilmente.
Probabilmente perché io, di definitivo, non voglio dire
più nulla.
Spinto dalla poesia narrante del regista Ossama Mohammed, mi
trovo tra tanti formati video di telefonini e videocamere amatoriali,
e divento partecipe di torture e morti di decine, centinaia
di siriani.
Ero presente? Assolutamente no, ben protetto dalla mia poltrona
rossa. Però ho visto gli ultimi attimi delle vite di
molti ribelli, la loro dignità calpestata da uno stivale
pro-Assad, o il loro passato rappresentato da un'istantanea,
di un bimbo che fu...ora solo uno dei tanti “martiri”.
Mohammed ci porta nel suo mondo, di esule che non può
più stare in Siria, e allora attinge a 1001 testimonianze
per raccontare anche la sua. Ma soprattutto quella di Simav,
testarda eroina kurda che documenta con la sua telecamerina
un inferno a cielo aperto, Homs, dove è nata e cresciuta.
Lei non se ne va. Non si copre il volto. Ma filma...filma qualsiasi
cosa. Filma la morte dei suoi vicini, il quartiere in macerie,
orde di bambini vittime delle bombe mattutine e gli animali
domestici ridotti a fiere dantesche senza zampe, che mangiano
l'un l'altro.
É tutto vero: è successo. La camera non
è abbellimento, è testimonianza che filtra solo
una volta: da realtà a video. Non è informazione,
è memoria in immagine. Si può ancora interpretare,
certo, ma ciò non toglie la potenza amorale di un proiettile
che perfora il cranio di un uomo bendato.
“Assad è il tuo dio, bacia la suola di questo stivale.”
E intanto la rivoluzione ristagna, anche ideologicamente. E
Simav risponde aprendo una scuola, perché “non
possono mettere anche i nostri cervelli sotto assedio, vero
bambini?”
Allora si impara. Si impara nonostante la morte sia sempre compagna
di banco: gli alunni diminuiscono – o perdendo la vita,
o semplicemente perché gli adulti non vogliono che i
propri bimbi vengano educati da una donna senza il velo.
“...La rivoluzione mangerà i suoi stessi figli.”
E a me, cosa resta da fare? Questo è il più grande
problema. Piango, mi viene da vomitare, mi sento inutile. E
il film finisce. Mi rimane l'amaro di bile, e penso ai fratelli
siriani che lottano e muoiono in nome di una Siria - per tutti.
Rimango inerte. Quello che so vale nulla. Un pacchiano sentimento
socratico che mi rende solo cosciente dell'entità della
parola 'guerra'. L'atrocità dell'uomo sull'uomo non si
ferma se voltiamo pagina. Allora scrivo qui, di getto, invitando
noi tutti, prima di soluzioni, a vivere immediatamente nello
spirito di Simav.
Nicolò Comotti
P.S: Ossama Mohammed mi ha detto che ne ha visti di miracoli
durante la rivoluzione Siriana. Uno tra questi, per lui, è
stato vedere Garcia Llorca citato su un cartello: La libertà
che ami sopra di tutti, la libertà sono io, io che dono
il mio sangue, che è il tuo sangue ed il sangue di tutte
le creature.
Villaggio
Ecologico di Granara
Granara Festival 2014
dal 2 al 10 agosto
Granara
di ieri è un villaggio contadino sull'Appennino
Parmense in Val di Taro abbandonato dai suoi abitanti
negli anni Sessanta. Granara di oggi è un ecovillaggio
nato negli anni Novanta su iniziativa di un gruppo di
associazioni e singoli che hanno ricostruito le vecchie
case di pietra con le tecniche della bioedilizia. All'interno
del villaggio operano diverse associazioni: l'Associazione
Centopassi, che organizza ogni anno campi di educazione
ambientale per bambini e ragazzi; l'Associazione Teatro,
che organizza residenze, spettacoli ed eventi culturali;
il Geco, Granara ecologia, che si occupa di tecnologie
appropriate e formazione ad un approccio ecologico alla
nonviolenza; la Granera, che si dedica alla cura dei campi
e degli animali; il Granaio, che si occupa della gestione
della casa per l'ospitalità. Le decisioni all'interno
del villaggio vengono prese da abitanti e associazioni
attraverso un metodo orientato al consenso per vivere
e gestire in modo orizzontale questo grande spazio e tutte
le attività che si svolgono al suo interno.
Nasce in questa cornice, nel 2000, il primo Granara Festival,
una settimana in agosto che propone laboratori, spettacoli,
incontri, momenti di scambio, attività per adulti,
bambini e ragazzi: teatro, danza, musica, arte contemporanea,
ecologia e nonviolenza. Artisti, staff, spettatori e ospiti,
tutti per una settimana vivono il festival tra le case
di pietra, i prati e il bosco e sperimentano un modo diverso
di stare insieme e di rapportarsi con la natura. Negli
anni sono stati ospitati oltre 40 spettacoli teatrali
e musicali e 30 laboratori per adulti e bambini, dando
spazio a giovani talenti e ad artisti già affermati.
Il Granara Festival si basa sul lavoro volontario di associazioni
e singoli e si propone per una scelta politica di mantenere
i prezzi per quanto è possibile contenuti. Laboratori,
incontri, spettacoli ed eventi con Daria Deflorian, AntonioTagliarini,
Fratelli Dalla Via, Marcela Serli - Compagnia Atopos,
Stefano Laffi, AnnaRossi, Serena Sinigaglia - A.T.I.R.,
Camilla Barbarito, Giorgio Sangati, Maria Carpaneto, Alessandro
Sarra, Chiara Camoni.
Per maggiori informazioni: www.granara.org
- villaggio@granara.org.
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