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 In lei la troverà 
 Intervista a Gabriella Gagliardo di Renzo Sabatini 
 
 A colloquio con una donna impegnata per i diritti delle donne, in particolare in Afghanistan e in Pakistan.Parlando anche di De André e delle “sue” donne, dell'immaginario maschile, di Marinella e Biancaneve, della Buona novella....
  Ho conosciuto Gabriella 
                  Gagliardo nel 1986, nell'umida primavera di Rio de Janeiro. 
                  Erano i tempi di un'inflazione galoppante che si mangiava i 
                  salari e mordeva i poveri. Lei era lì come volontaria 
                  di una ong e viveva fra i lavoratori più umili, nell'immenso 
                  ventre opaco della periferia di Rio, in una casupola senza neanche 
                  l'acqua potabile.
 Aveva alle spalle già una lunga serie di attività 
                  che l'avevano vista al fianco delle Madres argentine, 
                  o in Nicaragua per la campagna sandinista di alfabetizzazione. 
                  In Brasile, sulla spinta della pedagogia degli oppressi di Paulo 
                  Freire, realizzava un lavoro di “coscientizzazione” 
                  con le donne dei quartieri popolari, il che voleva dire, più 
                  o meno, aiutare quelle donne analfabete, povere e sfruttate, 
                  a costruirsi una coscienza critica, una consapevolezza della 
                  propria condizione di oppressione. Com'è nello spirito 
                  della pedagogia degli oppressi, Gabriella con questo lavoro 
                  educava e apprendeva allo stesso tempo. Non era partita, come 
                  tanti altri, con l'ansia missionaria o la presunzione dell'occidentale 
                  che crede di andare a portare la civiltà e quel lavoro 
                  era per lei anche un'esperienza preziosa di apprendimento, una 
                  fonte di conoscenze da utilizzare poi con altri gruppi di oppressi, 
                  una volta rientrata in Italia. Perché di oppressioni 
                  da cui liberarsi è pieno ogni angolo del pianeta.
 Venticinque anni dopo Gabriella, in fondo, è sempre 
                  la stessa: la si ritrova impegnata a insegnare italiano ai figli 
                  dei migranti, o a organizzare un qualche evento di solidarietà 
                  con le donne afgane. Lo stesso entusiasmo di allora, la stessa 
                  determinazione, lo stesso spirito: imparare dall'esperienza 
                  altrui, per provare a cambiare anche da noi. Anche noi stessi. 
                  Conserva quell'antica passione per il lavoro di base e continua 
                  a non fregiarsi di alcun titolo.
 Nel momento in cui mi sono trovato ad affrontare il tema 
                  delle donne protagoniste delle canzoni di De André, volendo 
                  analizzare questo aspetto da una prospettiva femminista, mi 
                  è sembrato naturale rivolgermi a lei, di cui conosco 
                  la passione per la poesia del cantautore ma anche il rigore 
                  con cui, sapevo, avrebbe analizzato quelle figure.
 
 Hai una biografia piuttosto densa. Oggi insegni in Italia 
                  ma hai anche trascorso alcuni anni in America Latina come volontaria. 
                  Soprattutto sei stata sempre impegnata sul piano sociale e hai 
                  legato il tuo nome a quello di tanti movimenti, dalla Lega per 
                  i diritti dei popoli alle associazioni di solidarietà 
                  con le “Madres” argentine e con le donne afgane. 
                  Dacci un ragguaglio su questa tua biografia dell'impegno sociale.
 «Mi sembra un po' esagerato parlare di biografia sociale, 
                  comunque sì, ho sempre seguito determinate tematiche 
                  e negli ultimi anni mi sono occupata prevalentemente di diritti 
                  umani delle donne, soprattutto sul piano internazionale. Ho 
                  seguito varie aree del mondo ma ultimamente mi sono concentrata 
                  principalmente sull'Afghanistan. Gestisco un sito che si occupa 
                  di questo ma l'informazione è solo uno degli aspetti 
                  perché quello che ci preme è, in primo luogo, 
                  mettere in collegamento organizzazioni e movimenti che si occupano 
                  di queste tematiche per organizzare poi iniziative specifiche. 
                  Come insegnante invece mi occupo soprattutto dell'inserimento 
                  degli stranieri nella scuola media della periferia milanese, 
                  in classi che sono ormai decisamente multietniche».
 
 Il sito che curi si chiama Iemanjà1 
                  e il gruppo con cui lavori sull'Afghanistan si chiama Comitato 
                  italiano di solidarietà con le donne di Rawa2. 
                  Che cosa fate esattamente?
 «Iemanjà si offre come mezzo di comunicazione che 
                  mette in collegamento gruppi e movimenti di donne. In questi 
                  anni abbiamo seguito i lavori della Marcia mondiale delle donne 
                  e di altre reti, ad esempio quelle che si occupano dei diritti 
                  delle migranti. Seguiamo anche alcune iniziative specifiche, 
                  come la campagna Abiti puliti, che cerca di mettere a fuoco 
                  i problemi delle donne lavoratrici nelle industrie tessili dislocate 
                  soprattutto in Asia e Africa e organizza campagne di boicottaggio 
                  contro le ditte che non garantiscono i diritti fondamentali 
                  delle lavoratrici e dei lavoratori. In Italia Iemanjà 
                  ha aiutato anche a costituire un coordinamento tra vari gruppi 
                  e associazioni, anche molto eterogenee fra loro, che da molto 
                  tempo si occupano della solidarietà con le donne afgane. 
                  In particolare lavoriamo con Rawa3, 
                  che è l'organizzazione rivoluzionaria delle donne afgane. 
                  Quest'impegno, negli ultimi anni, ha assorbito gran parte delle 
                  nostre energie perché, con tutte le emergenze che ci 
                  sono state in Afghanistan abbiamo pensato che fosse importante 
                  intensificare questa attività. Questo sia perché 
                  loro avevano bisogno di sostegno politico e anche di finanziamenti 
                  per il sostegno dei loro progetti in ambito sociale; sia, soprattutto, 
                  perché pensiamo che il punto di vista delle donne afgane, 
                  l'esperienza di lotta che stanno sviluppando nel loro paese, 
                  rappresentino un contributo prezioso anche per i movimenti italiani. 
                  Quindi abbiamo sentito la responsabilità di cercare di 
                  veicolare, all'interno dei movimenti italiani, i contenuti dell'impegno 
                  delle donne afgane, perché questi contenuti potrebbero 
                  arricchire molto il nostro modo di fare politica o di operare 
                  sul piano sociale e culturale».
 
 È abbastanza sorprendente apprendere che esiste 
                  ed opera un movimento rivoluzionario delle donne afgane. Immagino 
                  che non sia facile per queste donne agire in un paese dove la 
                  loro condizione è tanto discriminata. Parlaci di queste 
                  donne. Come si muovono, come ce la fanno?
 «Rawa è un'organizzazione che ha circa trent'anni 
                  di vita ed è ormai molto radicata. Queste donne hanno 
                  vissuto tutto il periodo che va da prima dell'invasione sovietica 
                  a tutta la lotta contro l'invasione sovietica, alla lotta contro 
                  il fondamentalismo che contemporaneamente si andava affermando. 
                  Quindi hanno dovuto lottare costantemente su due fronti e l'organizzazione 
                  è stata sempre clandestina perché già al 
                  momento della fondazione non era possibile per le donne organizzarsi 
                  alla luce del sole. Rawa ha sviluppato il suo intervento lavorando 
                  soprattutto con le donne più povere, le donne di base, 
                  a cominciare dal lavoro di alfabetizzazione. Bisogna considerare 
                  come, all'epoca, la grandissima maggioranza della popolazione 
                  femminile, oltre il 90 per cento, fosse completamente analfabeta. 
                  Quindi l'alfabetizzazione è stata considerata la priorità 
                  assoluta anche perché attraverso il lavoro di alfabetizzazione 
                  c'era la possibilità di sviluppare un lavoro di presa 
                  di coscienza dei diritti umani fondamentali da parte delle donne.
 Questo lavoro è stato strutturato mediante piccolissimi 
                  gruppi clandestini che lavoravano nelle case e che, alfabetizzando 
                  le donne, facevano in modo di formare anche persone che fossero 
                  poi in grado di diffondere, a loro volta, il lavoro di formazione, 
                  sempre a livello di ambiente popolare. Questo lavoro, proprio 
                  perché veniva svolto da donne che in quanto tali non 
                  erano assolutamente considerate in grado di fare qualcosa di 
                  pericoloso per lo stato o per il regime, ha avuto risultati 
                  enormi, nonostante la fortissima repressione. In questo modo 
                  Rawa ha conseguito un forte radicamento a livello popolare.
 Poi, quando milioni di afgani sono dovuti andare all'estero 
                  come profughi, le donne di Rawa sono state molto presenti anche 
                  fra i profughi e hanno rafforzato moltissimo il loro lavoro, 
                  soprattutto in Pakistan, dove sono arrivate a gestire completamente 
                  alcuni campi profughi, organizzandoli secondo le idee che nel 
                  frattempo avevano sviluppato, per esempio impostando in un certo 
                  modo i servizi educativi e sanitari all'interno dei campi. Ancora 
                  oggi le donne di Rawa sono molto presenti all'interno dei campi 
                  di rifugiati afgani in Pakistan, oltre ad essere presenti, ovviamente, 
                  in Afghanistan, dove si sono reinserite massicciamente dopo 
                  la caduta dei Talebani, lo smantellamento di molti campi e il 
                  rientro dei rifugiati. Oggi in Afghanistan le donne di Rawa 
                  realizzano soprattutto un lavoro di tipo sociale.
 Oltre all'alfabetizzazione, che continua, organizzano corsi 
                  professionali che consentono alle donne di avviare un'attività 
                  e avere un reddito. Si occupano di salute attraverso una serie 
                  di ambulatori ed hanno costituito una rete di micro orfanotrofi, 
                  sorta di case famiglia che sono anche delle scuole a tempo pieno, 
                  in cui i bambini vengono cresciuti con una grandissima attenzione 
                  alla loro formazione. Molte delle leader attuali del movimento, 
                  giovanissime, sono in realtà cresciute in questi orfanotrofi, 
                  negli ultimi venti, trent'anni. Gli orfanotrofi accolgono bambine 
                  e bambini ed educano all'uguaglianza tra i sessi e tra le diverse 
                  etnie, tagliando alla radice i presupposti che permettono all'integralismo 
                  e al fondamentalismo di esercitare un potere sulla coscienza. 
                  Opporsi alle discriminazioni e all'ingiustizia e sottoporre 
                  a critica le decisioni dei responsabili sono scelte fondanti 
                  del modello pedagogico di Rawa, applicate in modo sistematico 
                  nelle loro scuole».
 Un'immagine mitica  Passando a De André, mi interessa molto il tuo 
                  sguardo di donna così attenta alla condizione delle donne. 
                  Le canzoni di De André sono popolate di personaggi femminili 
                  spesso vittime di vari tipi di oppressione. Come ti ritrovi 
                  in questo mondo cantato da De André? Sono donne reali 
                  o solo personaggi di canzoni? «A me le sue canzoni sono sempre piaciute moltissimo per 
                  la musica e soprattutto per la voce con cui lui riusciva a interpretarle. 
                  Però le donne delle sue canzoni, spesso, non sono personaggi 
                  nei quali mi sembra possibile riconoscersi, almeno oggi. Bisogna 
                  tener conto che ormai sono trascorsi molti anni da quando le 
                  prime canzoni, quelle più famose, sono state scritte. 
                  Sono canzoni della fine degli anni cinquanta, inizio dei sessanta, 
                  quindi precedono il sessantotto e il femminismo degli anni settanta. 
                  Sarebbe anche ingiusto aspettarsi una coscienza femminista in 
                  un tipo di testo che viene ben prima che certe tematiche si 
                  fossero sviluppate in Italia. Quei personaggi invece direi che 
                  risentono di un altro tipo di coscienza che De André 
                  aveva sviluppato negli anni della sua gioventù e rispetto 
                  a quello ha sicuramente precorso i tempi. Perché prima 
                  ancora che scoppiasse il sessantotto c'è in De André 
                  questo tema della repressione sessuale contro cui le sue canzoni 
                  si scagliano in maniera polemica, utilizzando spesso l'ironia. 
                  Quindi, in questo senso, le figure femminili servono più 
                  che altro per esprimere questa legittima esigenza di liberazione, 
                  vista però ancora da un punto di vista molto maschile, 
                  senza un'analisi dell'oppressione di genere. Infatti, l'immagine 
                  della prostituta che ricorre in molte canzoni è un'immagine 
                  completamente mitica, non è storica. È la proiezione 
                  di questo desiderio maschile di una libertà sessuale 
                  in cui il sesso, invece di essere qualcosa di proibito, di oscuro, 
                  di cattivo, l'incarnazione stessa del male, diventa invece l'incarnazione 
                  del piacere, del bello, della felicità, della vitalità, 
                  dell'energia positiva. Per cui queste prostitute sono figure 
                  felici, solari, ma non sono autentiche».
 
 Però, proprio parlando delle “creature che 
                  si guadagnano il pane da nude”, molti hanno affermato 
                  che le canzoni di De André sono servite a restituire 
                  dignità alle prostitute. Da questi microfoni ce lo ha 
                  confermato proprio Carla Corso4, 
                  già prostituta e poi fondatrice del Comitato per i diritti 
                  civili delle prostitute. Secondo te invece c'è il rischio 
                  solo di mitizzare ed esaltare una realtà che è 
                  poi la mercificazione del corpo femminile a uso e consumo dei 
                  maschi?
 «Io penso che in De André (penso a quelle prime 
                  canzoni ma anche a quando ha riscritto alcune poesie dell'Antologia 
                  di Spoon River) ci sia anzitutto una problematica di tipo 
                  esistenziale, una sorta di indagine sulla condizione umana in 
                  generale. In questo senso le prostitute di De André fanno 
                  parte di quella umanità derelitta, emarginata e condannata 
                  dalla società che invece lui rivaluta perché, 
                  in queste figure apertamente sconfitte, riconosce qualcosa di 
                  profondamente universale. È quindi la condizione umana 
                  che è più evidente in queste figure. La loro debolezza, 
                  i loro limiti, la loro sofferenza. Ma anche l'oppressione che 
                  subiscono emerge in maniera inequivocabile. Però se si 
                  vanno a vedere proprio i testi dell'Antologia di Spoon River 
                  che lui ha selezionato per la sua raccolta, si vede che ha scelto 
                  tutti personaggi maschili, mentre le figure femminili sono solo 
                  degli scorci, restano sullo sfondo. Comunque mi sembra che quello 
                  di De André sia soprattutto un discorso sulla condizione 
                  umana. Per quanto riguarda le prostitute in particolare non 
                  mi sembra che siano mai rappresentate come persone con una loro 
                  identità. È come se fossero più nell'ambito 
                  della natura che della storia, come se si trovassero in una 
                  certa condizione per natura. Se guardiamo alla Canzone di 
                  Marinella, che De André ha scritto rivedendo e trasfigurando 
                  proprio la vicenda di una prostituta che era stata assassinata 
                  e gettata in un fiume, vediamo che ci propone una figura di 
                  donna, che poi forse è rimasta anche un po' come modello 
                  per i suoi successivi personaggi femminili, che esiste solo 
                  nelle favole. C'è lei, c'è il principe e ci sono 
                  tutti i simboli: il fiore, l'acqua, la stella... e lei alla 
                  fine, cadendo nell'acqua, ritorna alla natura, ovvero torna 
                  a far parte di questo ciclo naturale a cui le donne sono destinate, 
                  secondo il mito tradizionale. Cioè secondo questo mito, 
                  che qui non viene messo in discussione, le donne non sono mai 
                  dentro la storia ma dentro la condizione della natura, quindi 
                  non c'è mai nessuna possibilità di riscatto. Quindi 
                  tutte queste prostitute che si incontrano nel canzoniere di 
                  De André e a cui lui guarda certamente con grande simpatia 
                  non hanno mai via di scampo perché, essendo un mito, 
                  sono destinate a rimanere eternamente in quella posizione».
 
 Continuando a parlare di prostitute, che ne pensi di Nancy, 
                  che lui ha tradotto da Leonard Cohen? I suoi clienti sembrano 
                  immaginarla serena, forse addirittura felice, ma poi lei muore 
                  suicida. Molti hanno sfiorato il suo corpo ma nessuno l'ha capita. 
                  Non ti pare che qui De André ci comunichi anche la superficialità 
                  di molti uomini che forse si nascondono dietro le loro certezze 
                  e rinunciano a farsi domande sulla sofferenza delle donne che 
                  si ritrovano accanto?
 «Di Nancy mi colpisce soprattutto quella frase 
                  in cui dice: “Si innamorò di tutti noi”. 
                  Non dice che i clienti si sono innamorati di lei ma è 
                  Nancy a essersi innamorata di tutti loro. Poi la strofa prosegue 
                  con quei versi: “Dicevamo che era libera e nessuno era 
                  sincero, non l'avremmo corteggiata mai, eccetera”. Ecco, 
                  c'è questa idea della prostituta che si innamora dei 
                  suoi clienti che è il massimo del sogno maschile! C'è 
                  questo immaginarsi una disponibilità totale, anche se 
                  è una disponibilità che deve essere condivisa 
                  con una serie di altri uomini. E c'è questa idea che 
                  lei fosse libera, che rappresenta una totale negazione della 
                  realtà, un'idea della prostituzione completamente mistificante. 
                  Da questo punto di vista mi sembra anche molto ingenua la maniera 
                  di De André di parlare delle prostitute e che quindi 
                  non ci sia la possibilità di riconoscere l'identità 
                  di qualcuna o la storia di qualcuna ma soltanto una rappresentazione, 
                  anche molto bella, molto ricca, di questo mito, che è 
                  anche un mito estremamente tradizionale. Mi sembra che il fatto 
                  che lei, poi, muoia suicida, confermi quello che dicevo prima 
                  parlando di Marinella, ovvero che a queste figure non si dà 
                  scampo. Non si può comunicare realmente con un mito, 
                  quindi il finale deve per forza essere tragico. Anche in altre 
                  canzoni mi sembra che non ci sia un finale che permetta l'idea 
                  di una comunicazione e di un cambiamento di prospettiva, una 
                  via d'uscita. Sono situazioni cristallizzate».
 Le vedove in testa  Be', le canzoni di De André che hanno un finale 
                  positivo sono rare, però non dobbiamo dimenticare Angiolina, 
                  che dopo tanti fallimenti, “Si veste da sposa, canta vittoria, 
                  volta la carta e finisce in gloria”! Comunque, restando 
                  su questo tema, bisogna ricordare che in un'intervista De André 
                  ha detto: “Se la sofferenza porta alla santità 
                  non capisco perché la Chiesa non ha mai santificato una 
                  prostituta”. Come la vedi una provocazione di questo genere? 
                  «Come provocazione va benissimo, la trovo assolutamente 
                  opportuna! Certo che però in un'intervista di questo 
                  genere salta fuori che la prostituzione non nasce affatto da 
                  un'adesione gioiosa, da una scelta e che si tratta invece di 
                  una realtà di sofferenza. Quindi mi sembra che questa 
                  coscienza nel momento in cui parla ci sia ma nel momento in 
                  cui elabora artisticamente scompaia. Comunque rispetto alla 
                  Chiesa la trovo senz'altro una provocazione molto, molto opportuna».
 
 La riflessione sulla santità delle prostitute ci 
                  traghetta verso l'album in cui De André ha dedicato riflessioni 
                  molto delicate e profonde alle donne del Vangelo, da Maria alle 
                  madri dei ladroni. Tu hai sempre avuto una particolare attenzione 
                  verso il cristianesimo, le vicende narrate nei Vangeli. Come 
                  ti sembrano le donne descritte da De André nella Buona 
                  novella?
 «La buona novella per me è una delle 
                  raccolte più belle di De André, anche dal punto 
                  di vista musicale. Lo dico non da esperta, ma da semplice ascoltatrice: 
                  secondo me in De André la trasmissione di gran parte 
                  dei significati passa non solo attraverso i testi ma anche attraverso 
                  la musica. Cioè le sue canzoni non si possono considerare 
                  semplicemente come testi poetici, avulsi dalla musica in cui 
                  nascono e questa operazione nella Buona novella è 
                  particolarmente riuscita. I personaggi femminili del Vangelo 
                  descritti nella Buona novella sono personaggi significativi, 
                  intanto perché nella prima parte c'è tutta l'infanzia 
                  di Maria. È una ricostruzione che si rifà ai Vangeli 
                  apocrifi e che quindi non è completamente frutto della 
                  sua immaginazione ma che comunque è sicuramente ampiamente 
                  rielaborata. C'è un'attenzione forte a questa situazione 
                  di oppressione che la cultura e il contesto sociale costruiscono 
                  attorno alla figura di Maria, rispetto alla quale lei trova 
                  una scappatoia, che però rimane molto ambigua, nel senso 
                  che non è mai evidente che cosa realmente sia successo, 
                  se lei abbia vissuto una relazione amorosa con qualcuno, se 
                  sia stato un sogno, se sia stato un angelo. Resta un margine 
                  di ambiguità di questo suo destino che comunque prende 
                  una strada diversa perché in qualche modo lei risponde 
                  liberamente alla possibilità di una strada diversa. Quindi 
                  c'è un'apertura che rende questo personaggio molto più 
                  umano.
 Poi ci sono le donne sotto la croce, ci sono le madri dei ladroni: 
                  sono personaggi che riescono a rappresentare i valori universali 
                  dell'umanità e, finalmente, in Via della croce, 
                  le donne come tali costituiscono un gruppo sociale distinto 
                  e contrapposto ad altri gruppi. Ogni strofa individua infatti 
                  un gruppo che reagisce diversamente all'esecuzione di Gesù. 
                  Ci sono i padri dei neonati trucidati da Erode, quelli che considerano 
                  Gesù un ciarlatano colpevole di avere attirato la violenza 
                  del potere sugli innocenti. Ci sono i discepoli sgomenti e terrorizzati, 
                  incapaci di stargli vicino. Ci sono i potenti che si rilassano, 
                  anche perché nessuno protesta. E infatti umili, straccioni, 
                  poveri, cioè quelli che appartengono a Gesù, che 
                  lo amano come se stessi (così dice sorprendentemente 
                  il testo di De André) non esibiscono il loro dolore e 
                  non ci sono sotto la croce, se mai ci sono sopra, rappresentati 
                  dai due ladroni crocifissi con lui. Ecco, tra questi gruppi 
                  troviamo finalmente il gruppo delle donne. La descrizione di 
                  queste donne è veramente tragica: non si vede la faccia, 
                  perché sono curve e col velo fin sugli occhi. “Fedeli 
                  umiliate da un credo inumano”, è la stessa loro 
                  fedeltà che le condanna a essere “schiave già 
                  prima di Abramo”.
 Intrappolate in un ciclo mitico come i personaggi femminili 
                  che abbiamo visto fin qui? Direi proprio di no! Infatti, a differenza 
                  delle donne rappresentate finora, queste si muovono! Oddio, 
                  si muovono a fatica, e chi cammina in testa sono proprio le 
                  più sfigate, quelle senza alcun valore sociale, probabilmente 
                  non più buone nemmeno come merce sessuale: le vedove. 
                  Ma queste donne ora si identificano con Gesù: con riconoscenza 
                  soffrono la sua pena. Loro vedono benissimo che il Dio di Gesù 
                  non è quello a cui loro erano fedeli prima, poiché 
                  Gesù “una nuova indulgenza insegnò al padreterno”. 
                  Loro riconoscono in Gesù, che ha perdonato Maddalena, 
                  che le è stato fratello, cioè che si è 
                  messo alla pari con lei, un redentore. Lo seguono sulla via 
                  della croce perché quel sistema di potere che uccide 
                  Gesù è lo stesso che soffrono loro, la sua sofferenza 
                  è la loro stessa sofferenza, e la loro possibilità 
                  di riscatto dipende da come va a finire questa storia. Ecco 
                  qui finalmente un'apertura. Certo lo ammazzano, ma questo apre 
                  una strada nuova e la sconfitta di Gesù e del suo progetto, 
                  per chi decide di camminare, non è affatto definitiva, 
                  anzi vale la pena andare avanti. Infine, l'accostamento delle 
                  tre madri (Maria e le due madri dei ladroni, una che non si 
                  sa neanche da chi abbia avuto 'sto figlio delinquente) esalta 
                  fino allo spasimo la potenza tutta terrestre dei legami affettivi, 
                  del valore della vita umana, della cura della vita di cui le 
                  donne sono depositarie. È molto forte la rappresentazione 
                  delle tre donne insieme, in un unico gruppo solidale».
 Possibilità di scelta  Come ti sembrano invece quelle donne della galleria 
                  deandreiana che hanno un'estrazione più borghese? Penso 
                  ad esempio alla protagonista di Giugno '73 o alla 
                  moglie dell'impiegato in Verranno a chiederti del nostro 
                  amore. Donne che, secondo me, sembrano aver perso spontaneità, 
                  i cui comportamenti paiono dettati dalle convenzioni della classe 
                  sociale cui appartengono. «Verranno a chiederti del nostro amore io l'ho 
                  letta all'interno della raccolta che la contiene, Storia 
                  di un impiegato, un album che esce dopo i fatti del sessantotto, 
                  quindi quando c'è già un clima diverso, pieno 
                  di fermenti, di discussioni all'interno degli ambienti di sinistra 
                  che De André sicuramente frequentava. Storia di un 
                  impiegato è un album che riesce a esprimere con forza 
                  tutte le tensioni che ci sono all'interno di questa sinistra, 
                  tutte le tematiche della contestazione di quegli anni contro 
                  le varie oppressioni, quella sessuale, quella delle relazioni 
                  familiari, delle istituzioni come il matrimonio, l'oppressione 
                  del potere politico. C'è proprio la contestazione degli 
                  istituti che controllano, regolano, bloccano la possibilità 
                  degli individui di autorealizzarsi; penso per esempio alle figure 
                  del padre e della madre nel Ballo mascherato. In questo 
                  ambito c'è questa canzone, Verranno a chiederti del 
                  nostro amore, questa lettera rivolta a una donna. Io qui 
                  non colgo tanto l'estrazione borghese, che è probabile 
                  ma forse non è particolarmente significativa all'interno 
                  di questo lavoro in cui i personaggi vengono un po' tutti da 
                  un ambiente di classe media. Quello che mi colpisce in questa 
                  canzone è che qui il problema di scegliere finalmente 
                  si pone. Viene posto, certo, in modo polemico, perché 
                  il protagonista, proprio alla fine della canzone, dice: “Continuerai 
                  a farti scegliere o finalmente sceglierai?”. Ma il fatto 
                  che lei possa finalmente prendere delle decisioni evidentemente 
                  è qualcosa che mette in crisi la normale relazione che 
                  avrebbe potuto esserci, perché evidentemente c'è 
                  una relazione che è finita, c'è la possibilità 
                  che lei scelga di andare a vivere con un'amica o con un altro 
                  uomo. Che decida, insomma, di fare qualche cosa della sua vita. 
                  E questa decisione non è necessariamente solo quella 
                  di vivere con un uomo. C'è la possibilità che 
                  scelga altro, che decida dove stare, cosa fare. Quindi questo 
                  disagio che si sente nella canzone, rispetto a questa relazione 
                  che non ha funzionato, lo vedo legato ai cambiamenti, al fatto 
                  che non è più così facile cantare la bellezza 
                  di questa donna e la ciclicità naturale dell'amore, perché 
                  è una relazione che, finalmente, è uscita dal 
                  mito ed è entrata nella storia. Quindi ci sono dei conflitti, 
                  c'è una realtà da affrontare».
 
 Vorrei commentare con te questa frase ripresa da un'intervista 
                  rilasciata da De André a un giornalista: “Forse 
                  per un'educazione di stampo maschilista ho sempre considerato 
                  la donna come l'immagine e il simbolo del sacrificio. Prima 
                  di tutto quello della maternità, una malattia sconosciuta 
                  all'uomo, che dura nella sua fase acuta per nove mesi e poi 
                  continua per tutta la vita. Poi quello grave della prostituzione. 
                  Un altro ancora, improvvisamente ricomparso, è quello 
                  della verginità. Laddove vedo la donna come simbolo del 
                  sacrificio, con gli stessi occhi, vedo noi uomini come simbolo 
                  della prevaricazione, tante volte associata all'optional della 
                  violenza”. Come donna come ti ritrovi in questa analisi 
                  della società che vede da una parte le donne simbolo 
                  del sacrificio e dall'altra gli uomini simbolo della prevaricazione?
 «Identificherei questa come l'immagine più antica, 
                  quella che lui canta nei suoi primi lavori, dove le donne, come 
                  dicevo, sono legate al mito, quindi come immagine del sacrificio 
                  sono inchiodate a questa loro condizione “naturale”, 
                  dalla quale non possono spostarsi sul piano della storia. Però 
                  con Storia di un Impiegato, che è appunto un lavoro posteriore 
                  al '68, ci sono delle mutazioni. Quando si riferisce alla madre, 
                  nel Ballo mascherato, in modo certo ironico, corrosivo 
                  e anche rabbioso, si vede che qualcosa è cambiato. Perché 
                  per la madre del protagonista il martirio è addirittura 
                  “il suo mestiere, la sua vanità”, quindi 
                  qui la madre è pienamente nel ruolo della donna come 
                  simbolo della sofferenza e del sacrificio. Però questa 
                  madre ora “accetta di morire soltanto a metà, la 
                  sua parte ancora viva le fa tanta pietà”. Quindi 
                  qui, anche da parte di una persona non più giovanissima, 
                  non c'è più la totale adesione, senza dubbi e 
                  senza remore a questo ideale di sacrificio e di immolazione 
                  totale di sé. Per cui c'è qualcosa che sta cambiando. 
                  In questo caso la consapevolezza non sembra portare molto lontano 
                  perché l'unico sentimento che riesce a suscitare è 
                  il fatto di riconoscere di avere ancora una parte viva, ma con 
                  grande commiserazione. Del resto siamo in un contesto in cui 
                  ognuno cerca di costruirsi una maschera e apparire in un certo 
                  modo. Però qui c'è un passo avanti rispetto all'idea 
                  della donna che è solo sacrificio senza speranza».
 
 Andando molto avanti nel tempo, c'è una canzone 
                  cantata in genovese nell'ultimo album di De André, che 
                  si intitola: 'A cumba, la colomba, ambientata 
                  in una campagna immaginaria. Qui assistiamo alla trattativa 
                  fra il padre di una ragazza e il suo pretendente, che alla fine 
                  la spunta e riesce a far “volare” la colomba, ovvero 
                  la ragazza, dalla casa paterna al suo casale. Sembra una favola 
                  ma la frase finale racconta che la storia finisce male per la 
                  ragazza: “Serva a strofinare per terra, con il marito 
                  a zonzo”. Che valore ha un testo così pubblicato 
                  in un contesto storico molto diverso, alla fine degli anni novanta?
 «Qui viene ripresa una visione molto tradizionale, quella 
                  degli uomini che usano la donna come merce di scambio. Gli uomini 
                  comunicano tra loro e usano le donne, che non sono riconosciute 
                  come soggetti. Come stile letterario qui, in qualche modo, De 
                  André sembra volersi richiamare a quei testi di tradizione 
                  medievale che troviamo come adattamenti e traduzioni in alcune 
                  delle sue prime canzoni. Riprendere questo argomento negli anni 
                  novanta secondo me è validissimo perché questo 
                  problema non è un problema che appartiene al passato 
                  o che sia risolto nella storia. Purtroppo nel fondo della coscienza 
                  collettiva è rimasta molto radicata questa tradizione 
                  culturale e il fatto di rappresentarla in qualche modo la denuncia. 
                  Se l'idea della denuncia non era così esplicita, come 
                  senz'altro non lo era nei testi medievali, cantarla adesso, 
                  con l'aggiunta di quel verso finale in cui, uscendo dall'immagine 
                  retorica di questa bellissima colomba, si vede che cosa poi 
                  comporti per lei, nella realtà, questa transazione, solo 
                  quello rende questa rappresentazione una denuncia del fatto 
                  che questa condizione non è ancora cancellata, anzi, 
                  è ben radicata e presente nella nostra condizione culturale».
 Guerrieri e vecchi professori  Tra gli aspetti sottolineati dal canzoniere di De André 
                  c'è anche la violenza, fisica e morale contro le donne. 
                  Penso per esempio al vecchio ricco che seduce la giovinetta 
                  nella Leggenda di Natale, canzone della seconda 
                  metà degli anni sessanta. Penso al re che conclude la 
                  transazione con il marchese prendendosi la marchesa e ripudiando 
                  la regina in Il re fa rullare i tamburi. Penso a “Maggie 
                  uccisa in un bordello dalle carezze di un animale” in 
                  Dormono sulla collina, e così via. Ti sembra che 
                  De André abbia colto nel segno parlando di questi aspetti? 
                  Si poteva magari scegliere un linguaggio più esplicito?«Mi sembra che il linguaggio sia comunque abbastanza esplicito, 
                  tenendo presente che è un linguaggio poetico. È 
                  come se in De André il maschile fosse visto su due linee. 
                  Da una parte c'è l'aspetto negativo, che viene presentato 
                  attraverso la denuncia dei comportamenti che portano all'aggressione, 
                  alla violenza, al sopruso, fino alla guerra. Qui c'è 
                  da includere anche tutto il filone antimilitarista. C'è 
                  questa idea del maschile in cui si utilizza molto l'ironia, 
                  anche nell'ambito di testi che di per sé non sono ironici. 
                  Penso per esempio a Fila la lana, dove la donna aspetta 
                  il marito che è morto in battaglia. Anche se non è 
                  una canzone ironica c'è quel verso molto ironico all'inizio: 
                  “Se sia stato un prode eroe non si sa, non è ancor 
                  certo”. Un verso che, da solo, mette in dubbio tutta la 
                  retorica militare sul valore del cavaliere, mentre il resto 
                  della canzone è concentrato sul dolore della sposa che 
                  aspetta invano il suo ritorno. Quindi il maschile, visto in 
                  maniera guerrafondaia, aggressiva, prevaricatrice, viene senz'altro 
                  denunciato.
 C'è poi un'altra immagine del maschile, anche quella, 
                  direi, piuttosto decadente. Non ci sono grandi eroi ma figure 
                  piuttosto meschine. Dal vecchio professore della Città 
                  vecchia a questa massa di perdenti, che magari trova rifugio 
                  nelle prostitute. Rispetto a tutta questa umanità maschile 
                  dolente c'è una certa indulgenza che a volte potrebbe 
                  sembrare anche compiacimento, come accade spesso, ad esempio, 
                  nell'ambiente dei drogati, fra loro stessi. Probabilmente fa 
                  parte della cultura del poeta maledetto essere dentro questo 
                  clima che comunque ha qualcosa di affascinante ed è anche 
                  legato alla possibilità di essere creativi, di essere 
                  personaggi positivi pur nella propria debolezza, anzi compiacendosi 
                  anche un po' dei propri limiti, della propria debolezza, come 
                  aspetto della condizione umana da accettare».
 
 Però c'è da tener presente che molte delle 
                  canzoni che hai citato sono nate alla fine degli anni sessanta, 
                  nell'ambito del tentativo di ribaltare la morale comune. In 
                  quelle canzoni diviene protagonista un'umanità che, secondo 
                  il sentire comune, non avrebbe neanche dovuto trovar posto in 
                  una canzone.
 «È vero e in questo De André ha sicuramente 
                  precorso i tempi, perché molte canzoni che sono state 
                  scritte ben prima del sessantotto mettevano in crisi proprio 
                  questa morale dell'epoca e questo è stato un merito. 
                  Per questo molte generazioni si sono nutrite di quelle canzoni».
 
 Torniamo a Marinella, di cui hai parlato 
                  all'inizio. È un po' un mostro sacro, anche perché 
                  è stato il primo successo commerciale di De André 
                  quando l'ha interpretata Mina. Come ha scritto lui stesso, negli 
                  ultimi anni della sua vita, è stato proprio quel successo 
                  inaspettato a convincerlo a continuare sulla strada della canzone, 
                  abbandonando gli studi di giurisprudenza. Tu hai già 
                  ricordato che la canzone era ispirata alla storia di una giovane 
                  prostituta uccisa brutalmente e scaraventata in un fiume. Una 
                  storia che De André raccontò di aver letto sulla 
                  cronaca locale appena quindicenne, quindi verso la metà 
                  degli anni cinquanta. Però tutto questo retroscena De 
                  André l'ha raccontato solo negli anni novanta. Per decenni 
                  Marinella è stata vista come una favola d'amore 
                  molto ben riuscita nella fusione fra versi e musica. Per questo 
                  De André, negli anni della contestazione, ricevette anche 
                  molte critiche e nel 1973 il movimento femminista romano ne 
                  fece una versione in chiave femminista dove Marinella 
                  diventava una moglie/schiava che “lavava i piatti da mattina 
                  a sera”. Rivista alla luce delle rivelazioni di De André 
                  sull'origine della canzone, secondo te Marinella resta 
                  una: “canzonetta”, come scrisse Giuseppe Vettori 
                  nel suo Canzoni italiane di protesta? Avevano ragione 
                  le femministe degli anni settanta, oppure la possiamo rivalutare?
 «Secondo me Marinella va ascoltata come si ascoltano 
                  le favole, come si ascoltano Biancaneve o Cenerentola. 
                  Le favole le puoi leggere a tanti livelli e in tanti modi, però 
                  è su quel piano che va letta, perché si tratta 
                  di una storia ricca di simboli, come nelle favole. Marinella 
                  è come La bella addormentata, che a un certo punto 
                  viene svegliata dal principe e che lei segue senza una ragione. 
                  Di positivo, in questa favola, c'è il fatto che la relazione 
                  anche erotica, sessuale, viene vista in maniera assolutamente 
                  positiva. Considerando che comunque in quegli anni il sesso 
                  veniva visto in maniera negativa e la donna veniva considerata 
                  l'incarnazione di una sessualità che faceva paura, che 
                  rappresentava la tentazione, allora, in questo senso, una canzone 
                  di questo tipo conserva una funzione positiva. Però resta 
                  il fatto che il personaggio femminile non è reale, è 
                  una proiezione dell'immaginario maschile. Io non conosco la 
                  versione alternativa, però immagino che le femministe 
                  di quegli anni avessero delle buone ragioni per contestare un 
                  mito di questo tipo, perché si doveva uscire dall'idea 
                  di Biancaneve; perché la prospettiva di Marinella, che 
                  alla fine ricade nel fiume, non lascia scampo, ed era quindi 
                  una prospettiva inaccettabile per un movimento femminista che 
                  stava cercando di trovare delle strade diverse».
 Le donne di Atene  C'è da dire che la Marinella di De André 
                  cade nel fiume anche perché ricalca così il destino 
                  della ragazza che ha ispirato la canzone, che fu appunto assassinata 
                  e gettata in un fiume.C'è qualche protagonista delle canzoni di De André 
                  che proprio non sopporti? Che magari rappresenta uno stereotipo 
                  tale che saresti contenta se De André non l'avesse mai 
                  cantata?
 «Direi di no e comunque anche gli stereotipi è 
                  importante che vengano rappresentati. Si tratta di opere artistiche 
                  e quindi non è che si leggano come altri tipi di testi. 
                  Nel momento in cui si ascoltano, si interpretano. Comunque, 
                  laddove si vede rappresentato un mito che al suo interno ha 
                  qualcosa di negativo per le donne, è comunque bello e 
                  importante che venga rappresentato, perché se ne prende 
                  maggiormente coscienza. Quindi io non toglierei assolutamente 
                  nulla».
 
 Francesco De Gregori ha detto che “le canzoni di 
                  De André costituirono una tappa importante della nostra 
                  crescita morale e culturale”. Evidentemente si riferiva 
                  soprattutto alle canzoni degli anni sessanta, che lui ascoltava 
                  da ragazzo, prima di diventare lui stesso cantautore. Da un 
                  punto di vista prettamente femminista le canzoni di De André 
                  di quegli anni, potrebbero essere servite a una qualche crescita?
 «Potrebbero essere servite agli uomini per prendere coscienza 
                  della propria situazione di repressione sessuale. Potrebbero 
                  averli aiutati a riconoscere l'aspetto ironico della propria 
                  sessualità, a riconoscere e mettere in discussione quegli 
                  aspetti della cultura maschile che riguardano l'aggressività, 
                  la prevaricazione o il mito dell'eroismo. Sono canzoni che potrebbero 
                  aver spinto gli uomini a riflettere su se stessi, ma non credo 
                  a prendere coscienza di una repressione di genere o del fatto 
                  che si possa avere un punto di vista diverso, da parte femminile, 
                  sulla realtà. Del resto è un'idea che ancora proprio 
                  non esisteva nel contesto in cui sono state scritte quelle canzoni».
 
 Sicuramente ti sarai imbattuta in tante canzoni, romanzi 
                  e poesie scritte da uomini che parlano delle donne in un modo 
                  che non hai apprezzato. Ti è capitato di imbatterti in 
                  artisti maschi che hanno lasciato invece una traccia positiva 
                  parlando o cantando di donne?
 «Chico Barque5, che è 
                  brasiliano, ha scritto molte canzoni, che parlano di donne, 
                  che mi piacciono molto. Per esempio c'è una canzone in 
                  cui parla dell'esempio delle donne di Atene6, 
                  in cui mette bene a fuoco la loro oppressione. È una 
                  canzone ben fatta sia dal punto di vista del testo che musicale, 
                  tanto che quando lavoravo in Brasile l'abbiamo utilizzata molto 
                  con vari gruppi di donne a livello popolare. La facevamo ascoltare 
                  e serviva per iniziare una discussione sulla condizione femminile. 
                  Alcune donne, che magari erano anche molto, molto ingenue, recepivano 
                  quella canzone come un invito a identificarsi con quel modello 
                  delle donne di Atene e si arrabbiavano moltissimo perché, 
                  attraverso quelle immagini, veniva fuori molto chiaramente la 
                  condizione di oppressione che loro vivevano quotidianamente. 
                  Il testo era già fatto in modo da facilitare questo tipo 
                  di reazione. Quindi una donna si arrabbiava moltissimo perché 
                  si sentiva invitata a immedesimarsi in quell'esempio, oppure 
                  capiva che era ironico e da lì cominciava a esprimere 
                  tutto quello che aveva riconosciuto della sua esperienza».
 
 Be', se vuoi la puoi utilizzare anche nel tuo lavoro con 
                  le donne dei quartieri popolari della cintura milanese, perché 
                  quella canzone è stata ricantata in italiano, non so 
                  se con la stessa efficacia, proprio da un cantautore milanese, 
                  Eugenio Finardi.7
 Nella tournée del 1993 De André dedicava tutto 
                  il primo tempo del suo spettacolo ai personaggi femminili delle 
                  sue canzoni. Ho un ricordo personale, perché andai a 
                  vederlo in teatro: in quel concerto De André raccontava 
                  della difficoltà, per un artista maschio, di entrare 
                  nell'universo femminile, della sensibilità necessaria 
                  per capirlo fino in fondo. Ammetteva insomma la propria difficoltà 
                  oggettiva.8 Visto 
                  da una prospettiva femminista questo fatto di un artista uomo 
                  che cerca comunque di entrare nell'universo femminile ma non 
                  ci riesce fino in fondo e lo ammette, come lo vedi? È 
                  comunque un nobile tentativo oppure ci vedi una negatività 
                  o addirittura una forma di autocompiacimento dell'artista?
 «No, il tentativo di guardare al mondo da una prospettiva 
                  diversa va comunque sempre incoraggiato. È legittimo 
                  cercare di farlo e comunque è da apprezzare anche un 
                  risultato parziale. Quindi lo considero un atteggiamento assolutamente 
                  positivo».
 
 Il mondo della canzone d'autore è prevalentemente 
                  maschile. Secondo te perché ci sono poche donne cantautrici? 
                  Anche in questo campo le donne fanno fatica ad entrare?
 «Evidentemente sì. Non è un ambiente che 
                  conosco, ma è una questione che riguarda tutti i campi. 
                  Anche nella letteratura e nelle altre arti è così, 
                  quindi non mi stupirei se fosse lo stesso nel mondo della canzone. 
                  Ci sono tanti condizionamenti a monte, dei limiti che le donne 
                  in genere già si pongono a causa dell'istruzione ricevuta, 
                  non parlo soltanto dell'educazione personale ma proprio anche 
                  dello sviluppo stesso della storia che condiziona, per cui ci 
                  si pongono dei limiti, l'autostima non è molto forte, 
                  la fiducia nelle proprie capacità creative non è 
                  tale da spingere a impegnare grandi energie per cercare il successo 
                  in questi ambienti. Si aggiungono poi le difficoltà esterne, 
                  oggettive, che chiudono le strade e rendono tutto molto più 
                  difficile. Questo lo dico per come è organizzato il mercato 
                  culturale in tutti i suoi settori e quindi non sarei stupita 
                  se il mercato discografico presentasse le stesse caratteristiche».
 
 Visto che hai parlato di queste difficoltà, avviandoci 
                  verso la conclusione dell'intervista vorrei tornare a parlare 
                  un po' di te. Dopo tutti questi anni di impegno sociale, di 
                  esperienze femministe e di lavoro concreto con le donne, te 
                  la senti di provare a tracciare un piccolo bilancio? Ti sembra 
                  di poter essere ottimista sul futuro oppure siamo ancora molto 
                  indietro sulla condizione femminile e sul rapporto uomo/donna?
 «C'è sicuramente ancora moltissima strada da fare. 
                  Il dato positivo di questi ultimi anni è il fatto che 
                  è molto più facile comunicare, anche a livello 
                  internazionale, attraverso le nuove tecnologie e questo sta 
                  accelerando molti processi, perché anche la costituzione 
                  di reti, l'organizzazione di eventi, la collaborazione continuativa 
                  fra diverse organizzazioni è oggi molto facilitata, grazie 
                  a questa facilità e velocità di comunicazione 
                  di informazioni. Questo può senz'altro facilitare degli 
                  sviluppi. Però dal punto di vista delle condizioni materiali 
                  delle donne a livello planetario, basta leggere anche solo i 
                  rapporti ufficiali degli ultimi anni delle agenzie internazionali: 
                  il quadro che ne emerge, i dati statistici, dimostrano oggettivamente 
                  che la situazione è ancora estremamente difficile, una 
                  situazione di repressione molto forte e di grande discriminazione. 
                  Quindi resta ancora da percorrere moltissima strada».
  Renzo Sabatini Note 
                 
                  (intervista realizzata via telefono il 3 maggio 2006. Registrata 
                  presso gli studi di Rete Italia-Melbourne. Andata in onda nell'ambito 
                  della trasmissione radiofonica settimanale: “In direzione 
                  ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi delle canzoni 
                  di Fabrizio De André).Al momento il sito non è più attivo, ma il progetto 
                  è di riattivarlo nei prossimi anni.
                  Dai tempi dell'intervista il comitato ha allargato il suo 
                    sostegno ad una serie di altre associazioni e movimenti ed 
                    è stato ribattezzato Cisda, Comitato Italiano di Sostegno 
                    alle Donne Afgane (osservatorioafghanistan.org). 
                  Revolutionary Association of Women of Afghanistan. Per approfondimenti 
                    si consiglia di visitare il sito dell'organizzazione (rawa.org), 
                    di grande interesse sia per una miglior comprensione della 
                    metodologia di lavoro e di lotta delle donne afgane, sia per 
                    approfondire la conoscenza della situazione nel paese, in 
                    relazione a tematiche che la stampa nazionale generalmente 
                    ignora o tratta in maniera approssimativa e disinformata. 
                  Vedi “A” 
                    n. 371, maggio 2012. 
                  Chico Barque de Hollanda (nato a Rio de Janeiro nel 1944) 
                  è un cantante, compositore e scrittore brasiliano, noto 
                  autore e interprete della Bossanova. Arrestato durante gli anni 
                  della dittatura militare, nel 1969 si rifugiò per un 
                  breve periodo in Italia.
                  Mulheres de Atenas, pubblicata nel 1976.
                  Il testo, nella bella traduzione di Eugenio Finardi, si trova 
                  facilmente sul web, per esempio sul sito angolotesti.it.
                  Il concerto della tournée teatrale del 1993 è 
                  stato pubblicato nel 2012 in un cofanetto con libro e 16 cd 
                  (Sony Music, Tutti i tour di Fabrizio De André). 
                  Le tracce contengono anche questo parlato di De André.
                   
 
 
                   
                    | In 
                        direzione ostinata e contraria  Con 
                        questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” 
                        di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche 
                        realizzate da Renzo Sabatini e andate 
                        in onda in Australia nel programma “In direzione 
                        ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia 
                        fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si 
                        è trattato di sessanta puntate (ciascuna della 
                        durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 
                        40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state 
                        trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni 
                        di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più 
                        lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al 
                        cantautore genovese.  Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.  Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012)); Paolo 
                        Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); 
                        Gianni Mungiello, 
                        Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 
                        377, febbraio 2013); Giulio 
                        Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 
                        2013); Sandro 
                        Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013); 
                        Luca Nulchis 
                        (“A” 380, maggio 2013); don 
                        Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo 
                        Finzi (“A” 382, estate 2013)).  la redazione di “A” |  
 
 
                   
                    | Dalla parte delle donne afgane
 Il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane è 
                  nato su iniziativa di alcune realtà italiane che da anni 
                  lavorano sui temi dei diritti delle donne, contro i fondamentalismi 
                  e le guerre e che hanno deciso di costituirsi in associazione 
                  per far conoscere in Italia la difficile situazione in cui tuttora 
                  versa l'Afghanistan e far conoscere il lavoro di alcune organizzazioni 
                  afgane:
 
 Rawa (Revolutionary Association of Women of Afghanistan. 
                        www.rawa.org);
 Hawca (Humanitarian Association of Women and Children 
                        of Afghanistan. www.hawca.org);
 Opawc (Organization Promoting Afghan Women Capabilities. 
                        http://opacw.org);
 Saajs (Social Afghan Association of Justice Seekers. 
                        http://saajs.blogsky.com);
 Afceco (Afghan Child Education and Care Organization. 
                        www.afceco.org).
 
 Il Cisda lavora a fianco di queste Associazioni sostenendo i 
                  loro progetti, affiancandole politicamente nelle loro scelte. 
                  È un movimento di promozione e sostegno dei diritti femminili, 
                  opera in questa situazione di conflitto e di fondamentalismo 
                  sostenendo una cultura di pace e di costruzione dei diritti 
                  attraverso un lavoro capillare per alfabetizzare donne e bambini 
                  e far nascere una coscienza civica e di pace che parta proprio 
                  dalle donne.
 
 Il Cisda ha sede a Milano, promuove azioni politico-sociali 
                  a livello nazionale e internazionale sulle condizioni delle 
                  donne afgane; raccoglie fondi, sostiene progetti a favore delle 
                  donne e dei bambini negli orfanotrofi in Pakistan e in Afghanistan; 
                  organizza momenti pubblici e realizza materiali informativi.
 
 Può scrivere al Cisda, all'indirizzo email cisdaonlus@gmail.com 
                        chi sia interessato a:
 - avere maggiori informazioni sulle attività dell'associazione;
 - sostenere uno dei tanti progetti in Afghanistan e in Pakistan 
                  (scuole, orfanotrofi, team medici mobili);
 - promuovere un'iniziativa nella propria zona.
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