|  
                
                   
                  Pierrot contro i mostri 
                   
                   (il rigore e la tenerezza di Pierre Perret) 
                 No, non son mai stato un “tipo a posto”  
                  E non sto sempre sul chi vive  
                  Ma ho sempre avuto buone spalle  
                  Sono l’incudine e non il martello,  
                  Non sono che un prigioniero trascinato fra due gendarmi  
                  Non sono che un rifugiato  
                  Davanti al sorriso del mercante d’armi. (Je suis 
                  le vent)  
                Pierre Perret è un goloso maneggiatore della lingua, 
                  in quarant’anni di carriera si è affermato, al 
                  di là di ogni moda, al di là di ogni modo, come 
                  un punto fisso nella cultura francese.  
                  Personaggio adorabile, dal fisico boccoluto e rotondo di angioletto 
                  troppo cresciuto, ma, per contrasto, malizioso e con la voce 
                  simpaticissima di un bambino rauco. La sua cifra stilistica 
                  è profondamente debitrice del sottile rigore formale 
                  di Georges Brassens, un rigore in realtà raggiunto attraverso 
                  uno straordinario lavoro di controllo e di affinamento, che 
                  lo ha innalzato dagli esordi, un po’ troppo improntati 
                  alla facile goliardia dei temi, allo status di poeta raffinato 
                  e sensuale, di critico implacabile di una società che 
                  nasconde sotto la maschera del realismo “adulto” 
                  la sua brutalità.  
                Io sono il navigatore che non ha scoperto l’America 
                   
                  Io sono un obiettore che non ha l’istinto patriottico 
                   
                  Di chi vuol finire in bellezza bruciando sull’altare della 
                  patria  
                  D’altronde, trovatemi un solo prete  
                  Che abbia fretta di andare in paradiso. (Je suis le vent) 
                 
                Il tono delle sue canzoni (chiamiamole così) di protesta 
                  è uno dei miracoli della poesia moderna: a un rigore 
                  di pensiero assoluto, a una posizione assunta sempre in favore 
                  dei più deboli, degli indifesi, delle vittime della storia, 
                  corrisponde, anche quando vengono affrontate le situazioni più 
                  crude, una totale mancanza di quel livore sordo, di quella ringhiosità 
                  che macchia tanta parte della canzone sociale.  
                  E, lo dico per inciso, bisognerebbe capire perchè tanti 
                  artisti pieni di cuore ritengono di dover appesantire le loro 
                  opere di dichiarazioni di guerra, di recriminazioni e minacce, 
                  di ultimatum risibili e inconsistenti; Pierre Perret è 
                  agli antipodi di tutto ciò, l’odio non lo tocca. 
                  Liberatore perché già libero di per sé. 
                  Vero spirito popolare e generoso, buon mangiatore, buon bevitore, 
                  gaudente e sensuale, vorrebbe tutto il mondo, a cominciare dai 
                  bambini e dalle donne dei peggiori posti del mondo, alla sua 
                  tavola. La sua rivolta è l’atto d’amore di 
                  chi non si rassegna al realismo cornuto dei massacratori in 
                  guanti bianchi. Perret non accetta e non dichiara nessun atto 
                  di guerra, e ciò non di meno la sua condanna della società 
                  attuale è radicale e senza compromessi.  
                La piccola kurda  
                  Bambina se sei kurda ascoltami  
                  Devi partire, lasciare casa tua  
                  Conosco il tuo destino, conosco la tua morte:  
                  Nessuno ha mai ragione contro un soldato.  
                “Erano cento intorno a casa mia  
                  Sul muro c’erano aglio e peperoni  
                  Il giorno era così dolce, il cielo così chiaro 
                   
                  E mio padre cadde in un tuono.  
                  Era un mattino calmo di settembre  
                  Hanno portato mamma nella camera  
                  Il nonno con la faccia fra le mani  
                  Piangeva come un bambino  
                  Da fuori si sentivano gli urli di mamma.  
                Mia nonna impastava il pane nella cucina  
                  Ed affondò il naso nella farina  
                  Sul suo cuore sbocciò il fiore di un geranio:  
                  L’ultimo omaggio ricevuto da un uomo!  
                Mio nonno preso a calci nella schiena  
                  Implorava la pietà dei suoi boia  
                  Sentivo i soldati che tornavano soddisfatti  
                  E mamma dal suo letto non gridava più.  
                Poi anche il sole inorridì  
                  Le bombe scoppiavano come papaveri  
                  La morte banchettava seduta nel mio giardino  
                  In cui non crescevano più che orfani.  
                  La pioggia che cuciva l’orizzonte  
                  Faceva fumare le rovine di casa mia  
                  E mentre mi allontanavo dal cielo di Babilonia  
                  Capii che non avevo più nessuno.”  
                Non ascoltare i pazzi che hanno detto  
                  “La libertà è sulla canna del fucile” 
                   
                  Chi ha credute queste cazzate è morto da cent’anni, 
                   
                  I mercanti d’armi hanno sempre bei bambini.  
                Piccola se sei kurda fuggi via  
                  I bambini morti non possono più crescere  
                  Andremo in Europa se è l’unica speranza  
                  Laggiù non si uccide la gente che col lavoro.  
                L’attenzione, che sin dall’inizio della sua carriera 
                  lo ha contraddistinto, per il mondo dei bambini, la sua innata 
                  capacità di parlarvi assieme, senza ricorrere alle insulse 
                  scempiaggini dell’infantilismo di chi, da adulto, si ritiene 
                  in una posizione superiore, gli ha permesso di essere spesso 
                  utilizzato come autore di riferimento finanche nelle scuole 
                  elementari. Mal si calcola l’apporto di una canzone come 
                  Lily sulla coscienza degli antirazzisti francesi, chi potrà 
                  mai comprendere come, meglio di migliaia di pagine di articoli 
                  e saggi, tale canzone sia una barriera contro il dilagare dei 
                  fascisti del Front National di Le Pen (non a caso bersaglio 
                  favorito del nostro che gli ha dedicato recentemente la canzone 
                  la belva è ritornata).  
                 Lily  
                  C’è da dire che era proprio carina, Lily  
                  Quando arrivò dalla Somalia  
                  In una nave di immigrati  
                  Venuti dal loro altopiano  
                  Per vuotare le spazzature dei parigini  
                  Credeva che fossimo tutti uguali  
                  Nel paese di Voltaire e di Hugo  
                  Ma per un Debussy all’assalto  
                  Un nero vale solo la metà  
                  Ed è una bella differenza  
                Amava tanto la libertà, Lily  
                  Sognava di fraternità  
                  Ma un albergatore di via Secrétan  
                  Gli ha in fretta precisato  
                  Che non affittava che ai bianchi  
                Così ha scaricato le cassette Lily  
                  Ha fatto tutti i peggiori lavori  
                  Ha gridato per vendere cavolfiori  
                  Nella via i suoi fratelli di colore  
                  L’accompagnavano col martello pneumatico  
                E quando la chiamavano “Biancaneve”, Lily  
                  Non si lasciava prendere in trappola  
                  Imparò a sorridere sempre  
                  Anche se bisognava stringere i denti  
                  Sarebbero stati troppo contenti  
                Amava un bel biondo riccioluto, Lily  
                  Che era pronto a sposarla  
                  Ma la “buona famiglia” disse di no  
                  “Non siamo mica razzisti  
                  Però non esageriamo”  
                Così scelse l’America  
                  Questo grande paese democratico  
                  Non avrebbe creduto senza vederlo  
                  Che il colore della disperazione  
                  Anche laggiù era il nero  
                E in un meeting a Memphis  
                  Vide Angela Davis  
                  Che gli disse “vieni sorellina  
                  Unendoci avremo meno paura  
                  Del lupo che guarda il gregge”  
                È fu per scongiurare la paura, Lily  
                  Che alzò un pugno rabbioso  
                  In mezzo a questi “Ragazzacci”  
                  Che incendiano gli autobus  
                  Proibiti a quelli di colore  
                Ma nella tua lotta quotidiana, Lily  
                  Conoscerai uno per bene  
                  E il bambino che nascerà un giorno  
                  Avrà il colore dell’amore  
                  Contro cui non si può fare niente.  
                Sarà la miliardesima volta che ascolto questo pezzo 
                  e sul finale non riesco mai a trattenere i brividi.  
                  Proveniente da una famiglia proletaria, ma con qualche velleità 
                  artistica, di Castelsarrazin presso Tolosa, Pierre salì 
                  a Parigi nella prima metà degli anni cinquanta. Lì 
                  si legò d’amicizia a Gorges Brassens, le cui prime 
                  canzoni l’avevano folgorato, spingendolo a intraprendere 
                  anche lui il mestiere e intrattenne un sodalizio intellettuale 
                  con Paul Leauteaud, grandissimo scrittore libertario e animalista, 
                  rievocato nel bel libro dello stesso Perret Adieu monsieur 
                  Leauteaud.  
                Io sono il bambino cattivo  
                  Chiuso in punizione nella stanza buia  
                  Io sono il nonno fortunato sbattuto all’ospizio  
                  Io sono il ramo innocente che regala ombra al boscaiolo  
                  La cartuccia difettosa che disonora il plotone. (Je suis 
                  le vent)  
                  
                La sua carriera si costruì attraverso una gavetta durissima, 
                  osteggiato al principio per il tono grevemente rabelesiano dei 
                  testi, effettivamente poco più che bozzetti comici con 
                  osti scorreggioni e altre amenità al confine fra lo schifido 
                  e il surreale. Perret seppe in dieci anni, con un meraviglioso 
                  lavoro di lima, innalzare la sua scrittura a una ricchezza e 
                  a una forma così perfettamente compiuta, da essere oggi 
                  tenuto in considerazione come consulente per la riforma dell’ortografia 
                  francese. Di pari passo al lavoro di perfezionamento del linguaggio, 
                  andava in lui maturando un ampliamento dei temi: sulla barzelletta 
                  ruffiana andava prendendo piede il tema della tenerezza, che 
                  ora umoristica, ora pensosa, ha trovato nel nostro uno dei suoi 
                  massimi cantori.  
                  Tale tenerezza gli permette di affrontare a un livello altissimo 
                  canzoni poetiche per bambini e sui bambini, canzoni d’amore 
                  di un erotismo anche molto esplicito (Celui d’Alice, 
                  Mon Chibre, Ouvre,…), temi dolorosi 
                  e delicati quali lo stupro di una ragazzina in Mon p’tit 
                  loup o la lunga degenza in ospedale di vecchi e bambini, 
                  o ancora la noia mortale dei forzati del nostro mondo opulento. 
                 
                Questa hall di stazione tappezzata  
                  Di rossetto e di lotterie  
                  In cui batte il cuore delle periferie  
                  Non mi ha mai fatto prigioniero  
                  Questa hall di albergo tappezzata  
                  Di solitudine senza sconti  
                  E di marche di aperitivi  
                  E di felicità sintetiche  
                  Non mi ha mai fatto prigioniero(…)  
                  I fine mese i riposi andati a male  
                  Davanti ai televisori  
                  I telegiornali cloroformizzati  
                  E le pubblicità di schiume da barba.  
                  Di quest’aria di robot contento  
                  Di questa corsa con il tempo  
                  Di questi amori puntinati  
                  Che muoion prima d’esser nati  
                  Io me ne sono s-prigionato  
                  Segnatevi il mio nuovo indirizzo  
                  Vivo nel vento inzuccherato  
                  Delle isole di madreperla. (Ma nouvelle adresse)  
                In Perret, alla fine, coesistono perfettamente il compagnone 
                  di taverna i cui versi popolari, facilmente memorizzabili, vengono 
                  ripresi dal coro (dal cuore) di tutto il pubblico durante i 
                  concerti, e il poeta dalla penna incantata che sa raccontarci 
                  la favola dei nostri giorni e sa guardare in faccia all’orco, 
                  senza paura e con la chiave dell’oscura segreta, in cui 
                  siamo costretti, in mano. La sua vita e il suo sguardo sul mondo 
                  sono il monumento a un ottimismo pensoso, al rispetto della 
                  vita, alla meraviglia che s’intuisce oltre il carico gravoso 
                  delle nuvole.  
                Conosci la versione stereofonica  
                  Dell’ultimo successo di Malher?  
                  O i piantatori della Virginia  
                  A cui bisogna spiegare cos’è l’inverno… 
                   
                  Ne abbiamo di cose da vedere  
                  Fino alla Louisiana in festa  
                  Dove c’è gente che ogni sera  
                  Riempie di disperazione la tromba. (Mon P’tit Loup) 
                 
                  Pierre 
                  Perret 
                Negli ultimi tempi Perret ha rarefatto gli impegni canori, 
                  anche perché si è trovato sempre più assorbito 
                  dall’interesse per la scrittura che lo ha portato a pubblicare 
                  in pochi anni un’enorme antologia della poesia erotica 
                  francese, due libri di ricette, un’edizione per bambini 
                  delle favole di La Fontaine, un dizionario di argot, un grande 
                  libro (assolutamente imperdibile!) di memorie. La sua produzione 
                  discografica ha però approfondito ulteriormente i temi 
                  dell’ecologia e della globalizzazione, rivelando una coscienza 
                  sempre sveglia e critica, pronto a cogliere, dove sorge, l’urgenza 
                  e l’appello di una resistenza assurta al basilare compito 
                  di suonare a stormo le campane della vita contro la morte per 
                  tutto l’esistente.  
                Io sono il toro bastardo che incorna il valoroso torero 
                   
                  Sono il pollo a cui avete torto il collo e che vi lascia un 
                  osso in gola  
                  Sono il bouquet di rovi che graffia il piede al cacciatore  
                  Sono colui che rinuncia alle vostre battaglie, al vostro onore. 
                   
                  Io sono il tallone d’ Achille e l’occhio che guardava 
                  Caino  
                  E la pelle del coccodrillo che portate ai piedi  
                  Io sono il minatore che piange il sole dalla miniera  
                  Io sono solo una canzone lanciata contro un missile pershing 
                   (Je suis le vent).  
                  
                  Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
                 |