Rivista Anarchica Online
Palinodia con citazione
di Carlo Oliva
Ancora sull'attentato al municipio di Milano
Sono passati soltanto quattro mesi ma, a quanto pare, dell'attentato preelettorale
del 25 aprile al municipio di
Milano, quello rivendicato da una "Azione rivoluzionaria anarchica", non si ricorda nessuno. Non se ne ricordano
i cittadini milanesi, che, con il sindaco che nel frattempo hanno eletto, si ritrovano ben altre gatte da pelare. Non
se ne ricordano, evidentemente, polizia e magistratura, che dopo aver prontamente incarcerato, senza prove e -
per quanto si riesce a saperne - senza una vera motivazione, una militante anarchica e aver chiuso, visto che
c'erano, il centro sociale in cui lei era attiva, non sembra stiano ulteriormente lavorando al caso. Non se ne
ricordano i vari sostenitori milanesi del garantismo a oltranza, cui evidentemente sembra del tutto ovvio e naturale
che Patrizia Cadeddu resti in galera fino chissà a quando senza processo. Il garantismo, evidentemente,
oggi
funziona soltanto per Berlusconi e i suoi collaboratori immediati: nella sinistra istituzionale, nonostante tutto, il
"partito dei giudici" è ancora, troppo forte perché qualcuno abbia il coraggio di muovere la
minima critica alla
magistratura, a rischio di essere additato come nemico di "mani pulite" e sostenitore residuo di tutte le turpitudini
della prima repubblica. Ma tutto questo, in fondo, è abbastanza normale. Le uniche iniziative
anarchiche degne di un certo interesse
dedicate alla questione negli ultimi mesi sono consistite in alcune manifestazioni e una serie di polemiche, a mio
avviso piuttosto futili, dirette, l'una e le altre, anche e soprattutto contro Radio Popolare, i cui dirigenti avranno
fatto malissimo, figuriamoci, a consegnare agli inquirenti il nastro dell'impianto video di sorveglianza in base
al quale costoro sostengono di aver individuato la "postina" che avrebbe rivendicato l'attentato, ma non avrebbero
potuto - in fondo - farne a meno e in ogni caso, per quanto la cosa possa sembrare strana a qualcuno, non sono
per questo responsabili dell'arresto e della detenzione della compagna (se è lecito a chi, come me, a Radio
Popolare collabora da vent'anni definire per tale Patrizia Cadeddu). Ciò premesso, non vorrei turbare
questa confortevole situazione di oblio generale, ma mi sento spinto a riaprire
la questione da un'esigenza squisitamente individuale, cosa che poi non dovrebbe dispiacere ai tanti estimatori
di Max Stirner che hanno avuto modo di criticare la mia posizione in merito. Il fatto è che non sono
contento di
quanto ho scritto, a botta abbastanza calda, sul numero 237 di "A". Se il termine non avesse assunto delle valenze
processuali che qui non ci riguardano, direi che ne sono pentito. E siccome errare è umano e perseverare
diabolico
(è un modo di dire, eh: non vorrei che un domani qualcuno mi accusasse di utilizzare delle
argomentazioni
religiose su una rivista che, in quanto impegnata al rifiuto del divino, non può ovviamente ospitare
riferimenti
al demonio) mi permetto di fare qualche sommessa precisazione. Vedete, io avevo scritto, più o
meno, che sul cupo fin di questo secolo morente la rivendicazione anarchica di un
attentato "dinamitardo" è roba, in sostanza, da far ridere i polli. E ciò perché, a mio
avviso, la pratica terroristica,
che pure (in forme generalmente diverse da quelle della strage casuale) ha caratterizzato l'anarchismo in una
stagione della sua storia, non vi è connaturata di necessità, tanto è vero che ne è
stata storicamente abbandonata
e oggi è patrimonio di tutt'altre correnti, diciamo così, di pensiero. L'identificazione
terrorismo/anarchia, che pure ha una sua diffusione nella cultura corrente, è una identificazione
di matrice poliziesca, reazionaria (possiamo spingerci a dire "borghese"?) e, in quanto tale, è stata spesso
utilizzata
allo scopo di nuocere al movimento anarchico e, in genere, ai tentativi di riscossa popolare e proletaria. Per
sostanziare questa mia non originalissima tesi facevo l'esempio, che supponevo noto ai lettori di "A", delle bombe
di piazza Fontana, traendone l'implicita conclusione che, anche in questo caso, si potesse supporre di trovarsi di
fronte a una qualche forma di (ingenua) "provocazione". Ingenua appunto perché, dopo che la
macchinazione di
piazza Fontana è stata smontata a furor di popolo (e questo non è un modo di dire: è pura
e semplice verità) questo
tipo di meccanismo è ben noto a tutti e solo qualche nemico del popolo particolarmente analfabeta poteva
avere
il coraggio di ricorrervi. Be', è evidente perché debba pentirmi di questa semplicistica analisi,
anche se, a dire il vero, non mi risultano
elementi in base ai quali considerarla sbagliata. Ho commesso l'errore di dare per acclarato sul piano storico
quella che, in definitiva, era solo una mia opinione, o meglio, una mia speranza: l'idea che il movimento libertario
abbia acquisito nella sua globalità le metodologie nonviolente alle quali, personalmente, sono fedele da
una vita.
Ma non bisogna mai dare per scontata un'ipotesi, neppure la più attraente (anzi, soprattutto la più
attraente). E
non bisogna mai assolutizzare un'opzione: se personalmente ritengo nell'attuale situazione storico-socio-politica
che le "azioni dimostrative" siano moralmente deprecabili e politicamente dannose, non posso escludere che in
altra situazione siano lodevoli o necessarie o addirittura che qualcuno, più intelligente di me, abbia capito
che
sono utilissime e giovevolissime adesso. Per cui s'impone un dibattito approfondito nel merito, sul come, quanto
e perché le singole azioni, compresa quella del 25 aprile a Palazzo Marino possano giovare e a chi. Il
problema, in fondo, è soltanto questo. Non è certamente quello di negare (o affermare) l'ethos
dell'anarchismo
o la sua essenza rivoluzionaria, come se entrambi questi valori fossero inscindibilmente legati alla pratica
violenta. Il dovere di tutti noi è quello, infinitamente più semplice, di capire il significato di certe
azioni,
prendendo in considerazione, se ce ne sono, anche gli argomenti a favore. Le altre questioni, a pensarci bene, sono
collaterali e rischiano di essere devianti. Così, non importa un granché decidere se io che scrivo
sono o non sono
un "grande acculturato anarchico", come mi definisce, credo ironicamente, uno di coloro che non hanno gradito
il mio articolo precedente. Non ho difficoltà ad ammettere che non lo sono. E non ha importanza
nemmeno
decidere se il comportamento di questo o di quello sia stato o non sia stato "delatorio". Perché se è
vero che la
delazione, come atteggiamento, va per quanto possibile evitata (lo dice anche il generale austriaco in Senso, che
poi se ne giova...) è anche vero che non è correttissimo coinvolgere degli altri nelle proprie scelte
e pretendere
che questi altri, per non macchiarsi di quella colpa, ci stiano. Certe scelte, soprattutto quelle che hanno delle forti
implicazioni sul piano etico, bisogna sapere gestirsele in proprio, perbacco. Anche perché "chi si mette
in
cammino e sbaglia strada non va dove vuole andare, ma dove lo porta la strada percorsa". Sì, è
una citazione. Di
Malatesta, per di più. Ma non voglio pretendere di conoscerne l'opera a menadito: l'ho trovata per caso
in questi
giorni, sulle colonne, figuratevi un po', del Manifesto. Spero solo che la fonte non impedisca a
qualcuno di
apprezzarne il contenuto.
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