Rivista Anarchica Online
1 luglio 1997: prima e dopo
di Jean-Jacques Gandini
Scritto appena prima del passaggio alla Cina, questo resoconto di viaggio di un anarchico francese, docente
univeristario ed esperto sinologo, aiuta a comprendere quello che sta succedendo nell'ex-colonia britannica
Da circa un anno i media hanno cominciato a interessarsi più da vicino alla
situazione di Hong Kong, con un
ritmo sempre più affrettato a partire dal dicembre del 1996, cioè da quando Pechino ha installato
di sua iniziativa
a Shenzhen, la città cinese limitrofa a Hong Kong, un'assemblea legislativa provvisoria, senza aspettare
la
scadenza del 1° luglio e risvegliando in questo modo i timori dei «difensori dei diritti dell'uomo». Una profusione
di commenti di tale genere, per certi aspetti caleidoscopica, rischia di trascinare il lettore in uno stato di
confusione e di non fornire una vera informazione. Per questo mi è sembrato importante cercare di
spiegare la
situazione attraverso lo sguardo degli abitanti del territorio, direttamente coinvolti nel processo storico in
corso.
L'alternativa E' la terza volta che mi fermo a Hong Kong, dopo le visite del
1986 e del 1994. Appena arrivato uno dei miei
contatti, Lenny, un personaggio dei locali ambienti alternativi, mi propone di partecipare, il pomeriggio di
domenica 20 aprile, a una manifestazione organizzata dal collettivo «Hong Kong People Association for Human
Rights» per la difesa delle libertà pubbliche, dopo le dichiarazioni appena velatamente minacciose su
questo
argomento fatte da Tung Chee-hwa, il prossimo capo dell'esecutivo che deve entrare in carica il 1° luglio. In un
recesso del Victoria Park una dozzina di oratori e di oratrici si succedono al microfono di una tribuna
improvvisata: sono studenti, membri di associazioni di difesa dei diritti umani, di sindacati indipendenti e di
partiti democratici. Gli interventi sono intervallati da canzoni interpretate da Lenny e dal suo trio «Black Bird».
Diverse reti televisive di Hong Kong ed estere, soprattutto anglosassoni, riprendono l'avvenimento. Subito dopo
si snoda un corteo di circa millecinquecento manifestanti, con vessilli multicolori e stendardi al vento, brandendo
cartelli bilingui: «Avanti per i diritti dell'uomo!» «No alle restrizioni del diritto di manifestazione!». Il corteo
attraversa il quartiere commerciale di Wanchai, sotto l'occhio compiacente della polizia, che comunque non
trascura di filmare i dimostranti. Lungo il percorso la folla sui marciapiedi osserva il corteo con una certa
simpatia e qualcuno arriva addirittura
a ingrossarne i ranghi. All'arrivo davanti alla sede del parlamento locale, il Legislative Council, si presenta uno
scena sbalorditiva - il palazzo in stile neocoloniale è letteralmente serrato e sovrastato dalla massa
imponente dei
grattacieli che lo circondano: il Ritz-Carlton, la Hong Kong and Shanghai Bank, la Banca di Cina, tutto un
simbolo. Qui si succedono gli interventi che nuovamente denunciano violentemente Tung Che-hwa e lanciano
un appello alla solidarietà internazionale. Più tardi rivedo Lenny e i suoi amici a Lan Kwai
Fong, la Pigalle locale, al «Club 64». Il sei sta per giugno e il
quattro ricorda il giorno del massacro di piazza Tienanmen, il 4 giugno 1989, un evento che qui aveva prodotto
una notevole emozione, con più di un milione di hongkonghesi in piazza. Questo club è il luogo
di ritrovo degli
«attivisti», dei membri dei piccoli gruppi «radicali» (1), soprattutto di orientamento libertario o trotzkista, che,
data la scarsità del numero e il comune antagonismo al colonialismo britannico, hanno imparato a
rispettarsi a
vicenda. Martedì incontro Mok, nel quartiere popolare di Causeway Bay. Col suo casco di lunghi
capelli bianchi su un viso
che si è conservato giovane nonostante sia vicino ai cinquant'anni fa uno strano effetto. Responsabile di
progetto
in un istituto privato per bambini con handicap fisici e mentali favorevole al reinserimento sociale e non alla
separazione, Mok dedica il proprio tempo libero all'Asian People Theatre di cui è direttore e che gode
di una certa
fama. Tra l'ottobre del 1994 e il gennaio del 1995 il teatro ha fatto una tournée nell'Asia sudorientale con
uno
spettacolo intitolato «Grande vento», scritto a più mani da otto autori originari dei paesi attraversati, che
aveva
come riferimento la San Francisco Mime Troupe e si basava sui lavoratori emigrati vittime del processo di
globalizzazione. Lo scorso aprile il teatro ha prodotto all'Hong Kong Art Centre uno spettacolo realizzato
dall'Alternative Living Theatre di Calcutta, «Vostro rispettosissimo», che parla della situazione degli indiani fatti
venire per fungere sostanzialmente da ausiliari della polizia e dell'esercito britannici - i temibili Gurkha - per
controllare la popolazione cinese che a sua volta li disprezzava e li aveva soprannominati «scimmie pelose». Lo
spettacolo mischia la danza tradizionale indiana e le arti marziali del Tai-chi, oltre a una notevole parte gestuale
nel solco della Commedia dell'Arte, cosa che consente di seguire i dialoghi in cui si alternano il cantonese,
l'inglese e il bengali. Ogni volta per Mok si tratta di operare sul cambio di mentalità con un lavoro di
«grass-root
democracy» (2) per restituire alle persone la propria dignità e spingerle a prendere in mano le proprie
scelte, nello
spirito delle sue convinzioni libertarie. Attivista dagli anni settanta, all'inizio faceva parte di una rete di soccorso
alle ex-guardie rosse che fuggivano dalla Cina comunista, è tra i fondatori della rivista alternativa
«Minus» (3)
oggi non più pubblicata. Sa di essere schedato e segnalato dall'amministrazione britannica che alla
partenza non
tralascerà di consegnare copia delle proprie schede alla nuova amministrazione cinese... E' comunque ben
deciso
a rimanere e sarà anche in grado di fare dei confronti!
Uno sguardo calmo e vigilante Mercoledì mi vedo con Jean-Philippe
Béja e Michel Bonnin, che dirigono la rivista «Perspectives chinoises» (4),
la cui redazione è al 18° piano dell'Oriental Crystal Building, nella parte alta di Central, il quartiere degli
affari.
L'editoriale del numero 1 della rivista, apparso nel marzo del 1992, ne indicava la vocazione a «gettare lo sguardo
sul mondo cinese contemporaneo, nell'ottica delle importanti trasformazioni che si profilano alla svolta del
millennio, senza trascurare lo spessore del tempo, l'unico che ci consente di mettere nella giusta prospettiva i fatti
che si svolgono sotto i nostri occhi e che, ricordiamocelo, riguardano il destino di un quarto dell'umanità
e quindi
il nostro.» Per questo sono contrariati dall'attuale frenesia che si manifesta sui media, perché all'indomani
del
1° luglio l'attenzione si dirigerà universalmente sul nuovo punto caldo del momento. «Per giunta - mi
spiega
Jean-Philippe - è proprio inaudito che si metta in primo piano il gran lupo cattivo cinese nascondendo
in questo
modo le responsabilità del finto agnello britannico. Da dove vien fuori Hong Kong? Dal traffico d'oppio
della
combriccola dei Jardine e dei Matheson, che guardando con occhio voglioso, dalla propria base indiana, il
favoloso mercato cinese, provocarono direttamente la prima guerra dell'oppio, conclusa nel 1842 col Trattato di
Nanchino, che attribuiva alla Gran Bretagna l'assoluta sovranità sull'isoletta di Hong Kong. La seconda
Guerra
dell'oppio, nel 1860, ha poi portato all'annessione della penisola di Kow-loon e finalmente, nel 1898
all'acquisizione dei Nuovi Territori con affitto enfiteutico di 99 anni, che è alla base dell'attuale
restituzione del
1° luglio 1997, preceduta dalla firma, il 19 dicembre 1994, della dichiarazione congiunta anglo-cinese. Questa
rappresenta l'applicazione pratica della parola d'ordine di Deng Hsiao-ping, «un paese due sistemi»,
originariamente pensata per Taiwan. Gli Esteri e la Difesa sono già sotto la responsabilità del
governo centrale
cinese, ma la Regione autonoma di Hong Kong conserva un alto grado di autonomia: indipendenza del potere
esecutivo, del legislativo e del giudiziario; diritti e libertà pubbliche garantite per legge; resta in uso il
dollaro di
Hong Kong; il territorio mantiene il proprio statuto di porto franco e il sistema di economia capitalista. Nessuna
modifica per cinquant'anni. Un unico neo: la popolazione non è stata interpellata. Ci si rende allora conto
che non
solo per il regime comunista cinese, ma anche per il governo britannico gli abitanti di Hong Kong sono cittadini
di seconda categoria. Fino al 1984 il governatore era affiancato da un consiglio esecutivo di 14 membri nominati
e presiedeva un consiglio legislativo i cui 60 membri erano anch'essi nominati da lui. Ai sensi della
Dichiarazione, in occasione delle prime elezioni legislative che ci sono state nel 1985, dei 57 membri previsti solo
quattro sono stati eletti, per giunta indirettamente, da diversi gruppi professionali. Siamo ben lontani dal classico
modello di democrazia parlamentare! Ma per molti funzionari britannici con alle spalle 140 anni di colonialismo,
l'introduzione di una politica democratica era parsa la maniera più rapida e più sicura di
distruggere l'economia,
facendo nascere l'instabilità sociale e politica.» «Il fatto che fa precipitare il corso degli eventi -
continua a sua volta Michelet - è il movimento democratico che
sorge nell'aprile-maggio 1989 in Cina e che si conclude nel bagno di sangue di piazza Tienanmen, nella notte tra
il 3 e il 4 giugno. Qui provoca la costernazione e un milione di abitanti di Hong Kong, uno su sei, sfila in silenzio
per le strade. La colonia è in crisi: è una corsa frenetica all'emigrazione. Rendendosi conto, un
po' in ritardo, della
posta in gioco, il governo tenta di metterci una pezza adottando nel 1990 una «dichiarazione dei Diritti
dell'uomo»
(Bill of Rights), con gran scorno di Pechino. Inoltre, mentre fino a quel momento la carica di governatore era
affidata ad alti funzionari, in luglio diventa governatore un politico, Chris Patten, ex-presidente del partito
conservatore, che nel suo discorso del 13 ottobre annuncia una serie di riforme costituzionali che allargano la base
elettorale del parlamento. Pechino insorge contro questa violazione della Dichiarazione congiunta, ma nel 1995,
quando si tengono le successive elezioni con una parziale applicazione del suffragio universale diretto, è
quasi
un plebiscito per il Partito democratico dell'avvocato Martin Le, sostenuto dai democratici indipendenti, mentre
i candidati di Pechino mordono la polvere.» «Ciò nonostante - riprende Jean-Philippe - arriva il
nuovo boom. I prezzi dei terreni salgono alle stelle, la borsa
piglia il volo e le imprese della Cina continentale investono a più non posso. Il fatto è che le due
economie sono
sempre più legate tra loro. Hong Kong rappresenta il 60% degli investimenti diretti in Cina, la
metà delle
esportazioni cinesi e il 40% delle importazioni. I gruppi continentali, dominati dal «partito dei principi» -
cioè
dal clan dei figli dei dirigenti, quelli di Deng Hsiao-ping in testa - hanno un peso equivalente a 45 miliardi di
dollari, molto più avanti del Giappone, che è secondo con 20 miliardi, e rappresentano il 10%
della
capitalizzazione in Borsa. Grazie alle partecipazioni incrociate, i loro interessi si intrecciano sempre di più
con
quelli dei "tycoons", i miliardari rossi locali, che, come Henry Fok o Li Kashing , sono apertamente pro-Pechino.
La democrazia e i diritti umani sono le ultime cose che li preoccupano. La loro prima e unica regola è il
profitto.
In ogni modo, non è il caso di drammatizzare in anticipo, anche se si deve di sicuro stare con gli occhi
aperti,
perché il rischio è piuttosto quello di un'erosione lenta e progressiva. Ma Pechino non
vorrà uccidere subito la
gallina dalle uova d'oro (5), e in ultima analisi resta il punto interrogativo di Taiwan. Per cercare di convincere
i dirigenti di Taiwan a rientrare in grembo alla patria, il regime comunista dovrà pur dimostrare, almeno
per un
certo tempo, che la politica di "un paese due sistemi" è abbastanza realistica.»
Drammatizzare la situazione? Invece dipingere la situazione come drammatica
è il cavallo di battaglia di Minky Worden, l'assistente di Martin
Lee e responsabile del Partito democratico, che mi riceve giovedì al settimo piano dell'Admiralty Centre,
nel
cuore del quartiere degli affari di Central. Minky si presenta come una persona che fa appello a un'autentica
solidarietà internazionale e a un'effettiva mobilitazione delle organizzazioni di difesa dei diritti umani.
Infatti,
secondo lei, tutti i segnali che arrivano da Pechino, dopo la nomina, nel dicembre del 1996, di Tung Che-hwa a
capo dell'esecutivo della futura Regione a statuto speciale, tutti i segnali vanno nel senso di un irrigidimento che
non lascia presagire niente di buono. «Tung Che-hwa non può certo ispirarci fiducia. Fa parte della
Commissione Consultiva del Popolo Cinese dal
1993, è un armatore di origine di Shanghai, la cui azienda si trovava in difficoltà ed era stata
salvata con un
mutuo di 120 milioni di dollari ottenuto indirettamente grazie all'intervento di Pechino, per l'intermediazione di
Henry Fok, che gli fa anche da mentore. Questa palla al piede non è di sicuro una garanzia
d'indipendenza, tanto
più che l'assemblea legislativa provvisoria designata da Pechino è già in funzione. E' vero
che per il momento
si riunisce a Shenzen (6), ma si tratta di una violazione dell'accordo del 1984 e di un affronto per noi democratici,
perché tra i suoi membri figurano tutti i candidati favorevoli a Pechino sconfitti alle elezioni del 1995.
Inoltre
Tung, all'inizio di aprile, ha fatto una serie di proposte che limitano il diritto di riunione e di manifestazione, in
nome di un vago concetto di "sicurezza nazionale" e che mirano inoltre a vietare le donazioni economiche di
provenienza estera alle organizzazioni politiche, in quanto si tratterebbe di un'ingerenza intollerabile nella politica
interna di Hong Kong. In effetti chi è preso particolarmente di mira siamo noi, il Partito democratico,
soprattutto
dopo la serie di visite e incontri all'estero che Martin Lee ha appena effettuato e che gli ha fra l'altro dato
l'opportunità di incontrare il Presidente Clinton, che gli ha assicurato il proprio sostegno, e di raccogliere
un certo
numero di contributi economici dei quali abbiamo un bisogno essenziale. In effetti siamo soltanto un piccolissimo
partito di seicento membri, mentre i grandi magnati sono nella maggioranza favorevoli a Pechino. Tuttavia, come
ha recentemente ricordato Martin, "la democrazia è un principio di efficacia economica. Quello che fa
di Hong
Kong una città unica in cui gli affari prosperano è lo stato di diritto".» In quello stesso istante
Martin Lee varca
la soglia e, dopo avermi chiesto da che paese vengo, fa questa dichiarazione lapidaria: "Liberté,
égalité,
fraternité... ma Airbus!" (7)
I diritti dei lavoratori A proposito di prosperità, venerdì sento
un'altra campana. E' la voce di Apo Leung, redattore dell'Asian Labour
Update, un trimestrale pubblicato dall'Asian Monitor Ressource Centre, un'organizzazione non governativa
che
si batte per il rispetto dei diritti dei lavoratori. Leung mi riceve nel suo modesto ufficio sulla Nathan Road, la
principale arteria commerciale di Kowloon. «E' il paradiso del capitalismo, Hong Kong! Niente salario
minimo (8), nessuna protezione del posto di lavoro,
nessuna norma contro il licenziamento abusivo, nessuna tutela significativa del diritto di sciopero, nessuna
rappresentanza sindacale legale sul luogo di lavoro, nessuna copertura sociale obbligatoria per motivi di salute,
nessun sistema di pensionamento generalizzato. D'indennità di disoccupazione non se ne parla nemmeno!
Nemmeno le convenzioni internazionali del lavoro; pur riconosciute dal Regno Unito, sono applicate a Hong
Kong. La maggior parte delle imprese non riconosce l'esistenza dei sindacati (e d'altra parte la legge non le
obbliga a farlo) e le poche che lo fanno, in particolare la pubblica amministrazione e le imprese pubbliche,
rifiutano ogni tipo di contrattazione collettiva. E' un fatto che il tasso di sciopero è basso, circa del 3%,
soprattutto
in confronto a quelli europei, ma la delocalizzazione ha comportato una pressione sui livelli salariali e la perdita
di settecentomila posti di lavoro nell'industria in un decennio. Il delta del Fiume delle Perle fino a Canton
è
diventato il nuovo Eldorado dei businessmen locali. Nel luglio del 1996 abbiamo pubblicato un numero
speciale "Storia dei giocattoli", in seguito a un'inchiesta
condotta dal "Christian Industrial Committee" (9) sulle nuove fabbriche di giocattoli a capitale di Hong Kong
installate sul delta. Una sola praticava l'orario legale di 48 ore settimanali; per le altre si arrivava alle 56 ore. Sei
di queste imponevano più di 100 ore supplementari al mese e una 168 ore, vale a dire giornate lavorative
di più
di quindici ore! Certi operai sono letteralmente morti per lo sfinimento. I salari sono dovunque più bassi
del
minimo previsto e per giunta sono pagati con un ritardo che certe volte è di mesi. I due terzi delle
fabbriche non
rispettano nemmeno le norme igieniche e di sicurezza più elementari, per la mancanza di spazio e anche
per
contenere i costi. Capita che lo stesso edificio ospiti insieme la fabbrica, il magazzino, il dormitorio e il refettorio
(il "4 in 1"), cosa che è formalmente vietata per legge. E' il ritorno alla fabbrica-carcere della Shanghai
degli anni
trenta, o dell'Inghilterra degli albori della rivoluzione industriale.» La requisitoria è senza appello: ne
emerge il
volto nascosto del «successo» del modello di Hong Kong. Prima di separarci, Apo mi dà un
appuntamento per
domenica al Southorn Playground? del quartiere di Wanchai, dove è prevista una manifestazione per il
rispetto
dei diritti sindacali e il riconoscimento dei contratti collettivi. Alla fine del pomeriggio ritrovo S.K. Lee,
avvocato ed esperto di diritto della Cina popolare, che per vari anni
è stato docente di diritto internazionale a Montreal e a Toronto, prima di tornare a Hong Kong alla fine
degli anni
ottanta, per aprire un suo studio legale. La sua analisi della situazione è alquanto sferzante: «I
discorsi sui diritti umani sono un "imbroglio", perché chi
li ha appartiene a una minoranza del 10% di cittadini di Hong Kong di condizione sociale elevata, di cultura
anglosassone, gente che ha in tasca un passaporto britannico che le permette di lasciare il territorio e di stabilirsi
altrove in qualsiasi momento! Non bisogna poi dimenticarsi che il Bill of Rights risale soltanto al 1990. Prima
di quella data non si sapeva nemmeno che cosa fossero i diritti dell'uomo. La borghesia di Hong Kong ha fallito
la sua missione storica. Invece di affermarsi, ha preferito venire a patti col potere autocratico dominante, ieri col
colonialismo britannico, oggi col partito comunista cinese, al quale si chiede soltanto di garantire la pace sociale...
e i relativi profitti! (10) Quanto al Bill of Rights, basta soltanto citare i diritti politici e civili, senza dare i
mezzi necessari perché siano
applicati. E nemmeno una parola, ovviamente, sui diritti economici, sociali e culturali che pure riguardano
direttamente il 90% della popolazione...
Macao... Eppure quello che più interessa all'uomo della strada
è il diritto al lavoro, il diritto di vivere del proprio lavoro,
il diritto a un salario equo, a condizioni di lavoro rispettose della sicurezza e della salute, ma anche il diritto al
tempo libero, al rispetto dell'ambiente... Finché queste cose elementari non saranno ottenute, tutto il resto
non
è altro che polvere negli occhi!» Sabato di relax a Macao, dall'altro lato del delta, a cinquanta minuti
di aliscafo. L'approdo è del tutto privo di
fascino. Una muraglia di cemento sfigura il lungomare e nasconde alla vista l'antica città portoghese.
D'altra parte
non ne rimane più tanto, malgrado quattro secoli di presenza lusitana, oltre l'immagine della cattedrale
devastata
da un incendio e della quale rimane soltanto la facciata. Come osserva Charles Reeve: «Il fascino di Macao
è dato
dal fallimento della colonizzazione: i portoghesi si sono dissolti tra i cinesi, che danno una nuova dimostrazione
della loro capacità di assorbire i valori stranieri che fanno loro comodo: ritmi capitalisti a Hong Kong,
lentezza
meridionale quaggiù.»(11) Macao, inferno del gioco d'azzardo. Dietro questa immagine mitica si
nascondono una ricchezza di due miliardi
di dollari e un uomo, Stanly Ho, che detiene il monopolio delle sale da gioco dal 1962 e regna indisturbato sul
territorio. Assicura da solo il 40% delle entrate fiscali del governo, controlla la televisione locale, una banca, la
compagnia degli aliscafi e il 40% del nuovo aeroporto internazionale sull'isola di Taipa... per il momento,
perché
la concessione più volte rinnovatagli, scadrà nel 2001. E questo fa venire l'acquolina in bocca alle
mafie locali,
che controllano il lavoro nero e la prostituzione, letteralmente esplosa negli ultimi anni, con l'ondata dilagante
di ragazze sempre più giovani che emigrano dalla Cina popolare. La popolazione, che vive essenzialmente
di
turismo, non si preoccupa affatto dell'avvicinarsi della scadenza del dicembre 1999, perché ai posti di
comando
c'è già di fatto la Cina, mentre l'amministrazione portoghese si fa di giorno in giorno sempre
più evanescente. Una Cina che ha interesse a preservare lo statuto esistente, perché al
passaggio dei poteri potrà così prelevare i
suoi balzelli e riciclare quei serbatoi di corruzione che la sua nomenclatura ha eretto a istituzione!
(traduzione dal francese di Guido Lagomarsino)
 
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