Rivista Anarchica Online
LETTURE
a cura di F.M. e Maurizio Antonioli
Sulla tradizione libertaria, di Domenico Tarizzo, Edizioni Ottaviano, Milano 1977, pp.166, L.2.500.
Domenico Tarizzo, dopo il lussuosissimo e costosissimo "L'Anarchia - Storia dei Movimenti Libertari"
torna sulla scena con questo più modesto "Sulla tradizione libertaria".
Nel breve saggio il Tarizzo approfondisce quanto già emergeva da "L'anarchia": la revisione critica
delle esperienze storiche dell'anarchismo e del marxismo per tentare un'unificazione fra marxismo
"puro" e anarchismo "non dogmatico" ed arrivare ad un "riformismo rivoluzionario" che sia
"socialista, libertario, laico". Per sostenere questa tesi l'anarchismo viene presentato come un
movimento teoricamente "insufficiente" col merito, però, di rimanere sempre su posizioni
rivoluzionarie e di svolgere la funzione di cattiva coscienza del marxismo, completo teoricamente, ma
spesso preda di involuzioni autoritarie e burocratiche che ne tradirebbero il reale spirito
rivoluzionario.
In questa linea si situa ad esempio questa "perla": "Il conflitto Marx-Proudhon, e successivamente
quello che oppose Marx a Bakunin rivelano (...) la radicalità di Marx ed il relativismo di Proudhon
e Bakunin. Marx voleva eliminare l'alienazione del salariato, Proudhon cercava in pratica di
migliorarne la sorte mediante l'associazione di mutuo soccorso. Bakunin voleva abolire l'ereditarietà
dei patrimoni, Marx intendeva distruggere la proprietà privata" (pagg. 42). Perla dalla quale
apprendiamo che l'anarchismo non è affatto quell'idea rivoluzionaria complessiva per cui gli anarchici
han sempre combattuto, ma altro non è che un insieme di varie idee per riformare blandamente il
sistema capitalistico. È proprio questo filone interpretativo che toglie validità al libro. Nessuno nega
infatti, al Tarizzo come a chicchessia, il diritto di propugnare unioni (impossibili per noi anarchici)
fra marxismo ed anarchismo, ma un po' di onestà è nostro diritto pretenderla. Ed è solo la mancanza
di onestà che può far affermare quanto riportato sopra.
Certamente il pensiero di Proudhon aveva dei limiti, e gli anarchici sono stati fra i primi a criticarli,
ma dire che voleva solo migliorare le condizioni dei lavoratori, lasciando invariata la loro condizione
di sfruttati è pura menzogna; così come è meschino ridurre il multiforme, e spesso preveggente,
pensiero bakuniniano alla sola richiesta di abolizione del diritto di eredità (richiesta che, fra l'altro,
era compresa in un insieme di proposte rivoluzionarie ben più vasto e complessivo).
A questa mancanza di onestà si accompagna spesso la saccenteria e la boria di chi, presumendo di
aver capito tutto, non è disposto ad accettare critiche di alcun genere. Solo in questo modo si può
infatti spiegare l'accusa di "illibertarismo" che Tarizzo rivolge al recensore che, criticando
"L'anarchia" su questa rivista, ne ha consigliato la lettura principalmente a coloro che hanno già una
conoscenza abbastanza chiara delle idee anarchiche. Questo non certo per censura preventiva, come
Tarizzo afferma, ma al solo scopo di evitare che si acquisiscano altre idee distorte sull'anarchismo di
cui, salvo forse il Tarizzo, nessuno sente il bisogno.
Alle suddette interpretazioni distorte seguono le affermazioni gratuite e le falsità come, ad es., che
l'evoluzione più probabile di una grossa parte dell'anarchismo italiano - definito "anarchismo vecchio
stile" - è la socialdemocrazia (citando come esempio probante l'isolata involuzione di Pier Carlo
Masini) che i nemici principali degli anarchici sarebbero gli antistalinisti di sinistra: "Lelio Basso è,
in Italia, il loro (degli anarchici - ndr) bersaglio preferito" (pag. 10) o, dulcis in fundo, che: "con lo
scoppio della II Guerra Mondiale, infine, anche il movimento anarchico prende la stessa decisione
delle forze socialiste e comuniste, scegliendo di stare al fianco di uno degli imperialismi in lotta -
quello americano - senza sviluppare un antifascismo di classe, autonomo, non subordinato ai piani
anglo-americani" (pag. 41). Unitamente al saggio troviamo poi una raccolta di documenti il cui ampio
spazio (più di metà delle pagine) è tuttavia vanificato dalla poca cura usata nella scelta. Così, insieme
ad una discutibile selezione di brani di autori anarchici o libertari vediamo, con dubbio accostamento,
un articolo de "La Repubblica" e un brano di Wright-Mills. La stessa incuria è usata dal Tarizzo nel
compilare la bibliografia consigliata, in cui la divisione dei testi è completamente arbitraria ed è
inutilizzabile per chi voglia realmente approfondire i temi trattati.
In questo contesto anche l'invito ad adattare l'anarchismo alla realtà odierna, cosa peraltro già in atto
senza il suggerimento di Tarizzo, perde valore sommerso come è dalle inesattezze, dalla saccenteria
e dalla boria di chi, novello messia, vuole annunciare il nuovo verbo e finisce col parlare il marcio
linguaggio dei capi-partito, o aspiranti tali.
F. M.
La sconfitta della rivoluzione russa e le sue cause,
di Emma Goldman, La Salamandra, Milano 1977,
p.76, Lit. 1.000.
Facendo seguito ad Anarchia, femminismo e altri saggi, una raccolta di testi della Goldman tratti, per
lo più, dalla sua rivista "Mother Earht", La Salamandra di Milano ha recentemente presentato il breve
pamphlet La sconfitta della rivoluzione russa e le sue cause. Scritto nel 1922, subito dopo l'abbandono
da parte della Goldman della nuova "realtà" sovietica, a cui era approdata alla fine del 1919 assieme
ad altri 248 prigionieri politici espulsi dagli Stati Uniti, si tratta della testimonianza "vissuta" di uno
dei periodi più densi e cruciali della storia della rivoluzione russa. Uno spaccato, insomma, anche se
visto attraverso la limitata angolazione del singolo, di una società in rapida trasformazione e
assestamento. Proprio per questo sarebbe inutile attendersi un qualcosa di "dimostrato", una parola
in qualche modo definitiva. La sconfitta della rivoluzione russa e le sue cause non può prescindere dalla
totale disillusione subita dalla Goldman in quei due anni, una disillusione costruitasi quotidianamente
attraverso il contatto con la macchina del nuovo Stato in formazione: il ricostituirsi del potere
burocratico, la liquidazione delle esperienze di base, anche le più innocue come le cooperative, il
soffocamento del dissenso, l'uso premonitore del manicomio (vedi il caso della socialista rivoluzionaria
Spiritonova, già attentatrice alla vita dello zar) come "terapia" politica, ecc.
Certo, dalle pagine della Goldman, in cui la condanna è senza appello, non traspare la complessità
del fenomeno sovietico, sul quale non tutti gli anarchici erano d'accordo o, quanto meno, d'accordo
nella stessa misura; non emerge né il dramma dei cosiddetti anarco-bolscevichi né di coloro che
tentarono fino all'ultimo di non frantumare l'illusione rivoluzionaria. Prevale, indubbiamente, la
tentazione moralistica, ritorna a galla quel particolare "settarismo" che aveva impedito alla Goldman,
già negli Stati Uniti, di aprire un dialogo costruttivo con altre forze rivoluzionarie, come ad esempio
gli IWW. Ma è indubbio, però, che proprio nell'attività tipicamente "femminile" svolta dalla Goldman
in Russia, educazione e assistenza sociale e sanitaria, le ragioni della "grande" politica, le scelte
complesse e complessive, finivano per stemperarsi, per perdere di significato. Ma proprio il
quotidiano, il personale, il loro deteriorarsi da un punto di vista libertario, fornivano conferme forse
più precoci e significative di un'involuzione senza possibilità di correzione.
Utile, quindi, per capire anche "l'altra faccia" della politica, per capire poi Kronstadt e il resto; un
testo come quello della Goldman, che ci offre una lettura libertaria della rivoluzione russa "da parte
di una donna", di una rivoluzionaria.
Maurizio Antonioli
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