Rivista Anarchica Online
Detenuti comuni e progetto
rivoluzionario
di Luisito
Dibattito sulla nuova sinistra e la criminalizzazione delle lotte. Proseguendo il suo precedente intervento, il compagno Luisito approfondisce la sua critica di
quelle posizioni che ritengono rivoluzionari e "compagni" tutti i detenuti in quanto tali
Il mio intervento precedente ("A", anno VII, n.5, giugno-luglio '77) si fermava su una cruda (ma
purtroppo, quanto reale! e le vicende quotidiane come lo confermano!) dichiarazione di sfiducia nel
criminale comune, cioè, in genere, nei delinquenti e nel loro concetto di violenza. Affermava anche che
il militante politico rivoluzionario corre un rischio gravissimo ad affidarsi ai delinquenti comuni, per le
caratteristiche caratteriali di questi ultimi, la instabilità tipica del loro carattere, la loro costante necessità
di mostrarsi "uomini", "duri". Vi sarebbe, come ultimo codicillo, da aggiungere che la ricattabilità, da
parte di forze mercenarie statali, dei "comuni" è enorme. E le vicende di tutti i giorni lo dimostrano. È
di lì che le polizie traggono i loro informatori e gruppi (come le B.R.) che hanno "aperto" ai "comuni"
negli ultimi tempi, hanno visto crescere geometricamente delazioni, soffiate, e, quindi, perdite. In effetti,
se la polizia ha prove o forti indizi sulla partecipazione di XY a una rapina a mano armata con
conseguente morto, e gli dice: 'Caro mio, o fai la spia per noi o noi ti mettiamo al fresco per vent'anni',
è ben difficile che XY non ceda, soprattutto perché, come la massima parte dei "comuni" non è
"motivato" (mi dispiace usare questa brutta parola ma mi pare l'unica) in ciò che fa. Cioè a dire: rapina
per far su grana, perché è l'unico modo di vivere che sa, perché i suoi amici lo fanno, perché teme di far
cattiva figura tirandosi indietro etc. etc. Ma non ha un'idea precisa di quel che vuole e ciò lo rende molto
fragile, e insicuro per i suoi compagni politici.
Naturalmente, un discorso può essere aperto per il "comune" che fa un lungo apprendistato politico. A
questo punto egli può perdere le caratteristiche precedenti e si confonde, naturalmente, con i politici che
gli sono accanto. Ma, di questi tempi, è un caso raro: gli apprendistati sono brevi, e terminano spesso
tragicamente. Quello che è necessario capire, da parte di tutti i compagni, è che siamo in un'epoca
fondamentalmente diversa, per quel che concerne la delinquenza violenta, da quelle precedenti. Il
mutamento è a cavallo degli Anni Sessanta: la mescolanza rende fluido un calderone. I professionisti del
Nord Italia e della Francia cessano di esistere. Il gioco dei servizi segreti, la guerra d'Algeria, la
penetrazione corsa e mafiosa, il legame sempre più stretto con i governi e le polizie parallele
"sicilianizzano" (se mi si consente un termine improprio ma che rende l'idea) il gioco. E così:
organizzazioni ferree, ma anche briglia sciolta a inutili crudeltà e sopraffazioni, fine del rispetto fra le
bande e lotte sanguinose di predominio, fine di molti tabù. È in questa situazione che nascono spontanee
rivolte più o meno violente ('67-'68). Ed è solo dopo di allora che alcuni politici propugnano l'abbraccio
con i "comuni" (dopo aver conosciuto le carceri, ma solo superficialmente, ed avere idealizzato il mondo
della mala il quale, in realtà, è fatto di paure e ricatti, sopraffazione e crudeltà, piacere nell'umiliare e
umiltà del più debole; da quando si è "sicilianizzato") e alcuni "comuni" si dichiarano politici. Sulla
politicizzazione dei "comuni" sospendo il giudizio in attesa di vederne i risultati concreti: ne dubito
fortemente ma la brevità del tempo trascorso mi impone di rinviare il giudizio globale.
2) Azioni criminali di tipo "comune" compiute da rivoluzionari. Su questo punto credo che in molti si
possa essere d'accordo: se alcuni compagni ritengono utile e giusto, in determinati momenti, fare azioni
criminali che di solito vengono compiute dai "comuni" (rapine, furti, etc.), purché seguano alcuni
imperativi non rinunciabili (non coinvolgere chi non vuole essere coinvolto, predisporre gli elementi per
scagionare i compagni che vivono nella zona prescelta per l'operazione, evitare di fare vittime inutili,
usare tutta la sicurezza possibile, non farsi incastrare da spioni e provocatori della polizia etc.) non
dovrebbero venire né condannati né vilipesi né rinnegati dal movimento. È chiaro che chi è contrario a
tali azioni deve avere la piena libertà di dichiararlo, e a voce alta, senza paura di essere a sua volta
vilipeso o minacciato (ecco un punto, per esempio, sul quale talvolta sbagliò Severino Di Giovanni), così
come un pacifista non può essere tacciato di viltà se disapprova la rivolta armata. Del resto tutta una
tradizione di rivoluzionari espropriatori è lì a indicarci che se ne occuparono compagni eccezionali,
basterebbe fare il nome di Durruti e Ascaso. Ma, e qui bisogna mettere gli ultimi puntini sulle "i", non
dimentichiamo che un "colpo" può rientrare in questa categoria unicamente se tutto l'incasso va per scopi
politici; intascarne anche solo una parte snatura tutto: ricordiamoci che noi libertari abbiamo sempre
sostenuto che mezzi sporchi sporcano il fine.
3) Veniamo infine all'ultimo punto: la presenza del manifestante armato. È di rigore, da questa
primavera in poi, con tutte le menate sulle P 38 etc. etc. Intanto diciamo subito che non è una figura
nuova, checché ne dicano i giornalisti "democratici". Dopo la repressione sabauda di fine secolo, e fino
al consolidamento del fascismo, i compagni andavano spesso armati alle manifestazioni. Lo dimostra
l'alto numero dei morti fra gruppi politici contrapposti e fra i mercenari statali. Questo in Italia. In
Spagna, poi, era una rarità che un compagno cenetista sfilasse senza protezione armata, anche negli Anni
Venti e Trenta, in piena epoca di pistoleros pagati da padroni e governo. Lasciando da parte la Spagna,
dove non vi furono più manifestanti "legali" fino a poco fa, in Italia il primo ultimo dopoguerra vide un
certo sfoggio di armi, poi, dopo la decisione di PCI e PSI di rinunciare alle prospettive rivoluzionarie,
queste scomparvero. Non certo, però, dall'altra parte: e i massacri compiuti dai mercenari statali negli
Anni Cinquanta e Sessanta lo dimostrano. Non ho idee ben precise, ancora, sui motivi di ricomparsa
delle armi; mi limito a constatare che i dimostranti armati sono saltati fuori dopo un anno di grilletto
facilissimo e impunito da parte dei mercenari, dopo la famigerata legge del repubblicano Reale. Cioè,
ho la sensazione che, tutto sommato, sia stata una reazione di tipo difensivo. In ogni caso, anche qui mi
sembra che il discorso possa essere sfumato: se un gruppo di manifestanti intende usare armi contro chi
è presumibile che gli spari addosso, credo che abbia il diritto di farlo. Ciò che non può fare, però, è
coinvolgere altri manifestanti disarmati, o usarli come scudo, o minacciarli per farsene complice, e
insultarli se questi dicono che non intendono starci. Insomma, la regola del gioco è semplice: chi vuol
rischiare, rischi, ma la pelle sua, non quella altrui. Altrimenti si arriva ai deliri dei poeti che innalzano inni
all'odio, unico vero creatore etc. etc., e che poi se ne stanno tranquilli a cena in trattoria mentre altri
ragazzi che hanno "recepito il messaggio" maneggiano faticosamente pistoloni assolutamente inadatti
alla guerriglia urbana e si fanno uccidere e uccidono. Ritengo che, almeno noi libertari, non dovremmo
avere come motrice l'odio o l'ansia di morte (lasciamola ai fascisti l'esaltazione della "bella morte" e del
"sangue lavacro universale"), ma tendenze positive, costruttive: la rivoluzione non è sfrenamento
sadomasochista, se è rivoluzione. La violenza è una triste necessità in certi momenti storici, certo, ma
non è bella, né allegra, né dolce. Utilizziamola, sicuro, quando è necessario, quando non se ne può fare
a meno, ma senza esaltarla, per favore.
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