Rivista Anarchica Online
AL CINEMA
a cura di Rozac
Padre Padrone di Paolo e Vittorio Taviani
Sono sorte molte polemiche tra chi dedica la sua vita al semplice eloquio riguardo a questo film ma
mai come questa volta simili critiche appaiono vuote: l'ultima fatica dei fratelli Taviani - dei quali
dobbiamo ricordare due opere come "San Michele aveva un gallo" e "Allonsanfan" estremamente
critiche verso le voci di sinistra estrema del passato (e quindi del presente) - resta tra i più bei film che
questa stagione cinematografica potrà offrirci. Pellicola povera tratta dal libro di un povero - un
pastore sardo analfabeta sino a venti anni - e girata con un rigore lirico tipico solo dei Taviani, è film
da non perdere per molti motivi, primo tra tutti una regia che non manovra, si lascia manovrare dalla
storia stessa, facendo ergere lentamente questo personaggio al suo vero rango, titano contro una
società ostile, società che batterà e che mai ammetterà di essere battuta ma che da questa sconfitta
imparerà a guardarsi dentro, a giudicarsi in silenzio. Cenno particolare merita l'uso del suono: si
"sente" tutto il silenzio della campagna, si "sente" la fisarmonica che lacera un mondo taciturno e
scorbutico da millenni, si "sente" la voce degli emigranti che urlano, cantano, la loro disperazione di
braccia destinate al macello comunitario, nei campi, nelle miniere, nelle fabbriche di tutta Europa.
Nulla è gratuito, nulla è lasciato al facile romanticismo e "strapaese" nel quale si sarebbe potuti
facilmente cadere, tutto è rigoroso e le poche smagliature riscontrabili scompaiono dinanzi ad un
prodotto che consacra - nonostante la brutta parola - i fratelli come i veri nomi nuovi della
cinematografia italiana stanca di ciarpame miliardario e sempre alla ricerca del messaggio. Qui non
vi è messaggio, vi è una storia vera, narrata, e basta: ma simile narrazione è ben più di un messaggio,
è una accusa spietata ad un mondo, ad una ideologia che, difficilmente, ma si può e si deve battere.
Una giornata particolare di Ettore Scola
Finalmente ci siamo riusciti: abbiamo fatto un film - in Italia - nel quale si vede il duce ed il suo
alleato, l'assassino nazista, per quello che erano realmente, due tragici buffoni pieni di boria omicida,
e, quel che più conta, li si vede per poco tempo e in filmati d'epoca, vere comiche finali. Mussolini e
Hitler sono i protagonisti sonori della vicenda - durante tutta la giornata si ascolta la tronfia voce di
un annunciatore che fa la radiocronaca di un loro storico incontro romano - ma i veri protagonisti
sono la casalinga e l'omosessuale che si incontrano per caso e per caso passano una giornata insieme.
L'Italia in camicia nera applaudiva, la vera Italia aveva ben altri problemi a cui pensare ed il lento
cambiamento della casalinga Antonietta a contatto dell'annunciatore omosessuale allontanato
dall'EIAR perché "vizioso e antifascista" è forse una delle pagine più belle che il nostro cinema abbia
dedicato appunto a quest'altra Italia, nella quale le camicie nere se non facevano schifo poco ci
mancava. La stupidità italica viene rappresentata con ferocia - magistrale è il progressivo, rapido
svuotamento di un enorme palazzo per assistere alla parata dei due criminali - mettendo bene in risalto
la volgarità omicida che aveva colpito l'intero paese: Antonietta e Gabriele ne sono immuni perché,
seppur con enormi differenze tra di loro, sono due esseri pensanti e, soprattutto la donna, prende
coscienza del suo ruolo, anche se alla fine abdica al suo destino di donna-madre-casalinga-fattrice
di prole. La giornata particolare germoglierà nel ricordo della fine del "suo" Gabriele ed il seme
gettato non resterà senza frutti, perché le si è schiuso dinanzi un mondo nel quale il duce mascelluto
non è ombelico del mondo ma squallida comparsa in un dramma più grande di lui. Loren, Mastroianni
magistrali, il fotografo De Santis decisamente nella sua forma migliore, il regista Scola calibrato,
valentissimo e, quel che più conta, antifascista sul serio, senza camicie nere e sfilate, come tanti, troppi
altri.
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