Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 7 nr. 57
maggio 1977


Rivista Anarchica Online

Lotta armata e "delinquenza"
di Luisito

Attentati e terrorismo non sono proponibili come arma strategica nell'attuale realtà italiana, come possono invece esserlo (e lo sono stati) in condizioni ben diverse dall'attuale - Perché non è vero che "siamo tutti detenuti politici"

Cari compagni, mi pare che in questi ultimi mesi si stia facendo, da parte del potere e delle forze che ormai ad esso sono caudatarie (o che gli baciano il culo, per metterla giù più o meno colta) una confusione temibile proprio perché non viene rintuzzata sul piano teorico da nessuno. A ogni nuova uscita di un Cossiga, di un Bufalini, si continuano le diatribe tra buoni gesuiti di Nostra Marxista Chiesa, senza cogliere il punto del dibattito vero. Poi tutto tace, i mezzi d'informazione ufficiali e ufficiosi ripresentano i loro mostri, le loro analisi folli e ignoranti e tutti acqua in bocca. Autonomi, P 38, radio Alice, morti, 'proletari poliziotti' ete. etc., in un cocktail efficace: la gente (basta muoversi in giro, parlare con gente che ignora il sinistrese) becca, prende tutto per buono: leggi come quelle tedesche, è inutile nasconderselo, fra pochi mesi saranno accettate tranquillamente dall'opinione pubblica, dalla gran massa della gente. Né aiutano certo a chiarire le cose i vaneggiamenti ignoranti e presuntuosi dei documenti degli autonomi, di alcune frange "neoleniniste", di "spontaneisti" in cerca di un nuovo '68. Nella confusione, io non pretendo di versare il balsamo della verità, ma solo di accennare ad alcuni punti per provocare un confronto di opinioni e la nascita di qualche idea chiarificatrice.

1) Terrorismo e attentati. non c'è bisogno di citare Arbasino per dire che l'Italia ha una tradizione di terrorismo e attentati da fare invidia a molti e che non si vedono molte novità in materia, oggi. Quanti di noi abitano in una via Felice Orsini? Eppure il terrorista repubblicano Orsini, che condivideva l'ideologia di La Malfa e Reale, non riuscì neanche a far fuori Napoleone III, con la sua bomba, ma ammazzò otto persone assolutamente innocenti. Ve li immaginate i titoli del "Messaggero", dell'"Unità", se il fatto fosse accaduto oggi? e le caute prese di distanza di anarchici, L.C; Av. Op. etc.? E quante vie Guglielmo Oberdan esistono? In questo caso, almeno teoricamente, la violenza terroristica è vista all'acme (dice la Canzone di Oberdan: "... con le bombe... il veleno... il pugnale alla mano...").

E Monti, Tognetti? Agesilao Milano? Perché questi fior di terroristi non venissero uccisi dalla vendetta statale si mossero re, primi ministri, ministri degli esteri italiani, scrittori.... Questo gran casino che si sta facendo, oggi, per qualificare come "fascista" e "reazionario" il terrorismo è deviante e frutto di ignoranza. A questo proposito si possono prendere solo, a mio avviso, due atteggiamenti: o quello, pacifista e non-violento, di rifiuto totale verso la lotta violenta, oppure quello, non etico ma politico, di giusta metodologia per raggiungere alcuni obiettivi. Lasciando da parte il primo atteggiamento, che si spiega da solo e può avere i suoi sostenitori e detrattori, addentriamoci nel secondo. Il terrorismo vero e proprio non ha più l'impatto psicologico che aveva nell'Ottocento. Troppe torture, morti strane, massacri, ha visto la generazione che ha come minimo quarant'anni, perché pochi morti in più possano smuoverla davvero. Se non esistesse (ma esiste!) una ragione morale per non buttare una bomba allo stadio, o su un treno, o in banca, basterebbe a sconsigliarlo la riflessione che il potere assorbirebbe i morti per utilizzarli per la successiva repressione; e inoltre ci si alienerebbe l'appoggio popolare (la popolazione oggi non è fatta di enormi maggioranze di reietti, bensì di terziari addormentati, pronti a difendere quel che credono di avere e che contrasta con la miseria ricordata ancora, e situata nei decenni precedenti). E poi la violenza ha perso gran parte della sua eccezionalità: come sempre avviene ai topi sovraffollati in una gabbia, gli istinti omicidi trovano libero sfogo, morte e dolore sono divenuti non eccezione ma compagne comuni della vita metropolitana.

Ben diverso è il discorso da fare sugli attentati. Questi colpiscono una o più persone determinate, che vengono incolpate (dagli attentatori) di crimini. Non vedo come uno che si chiami, non dico rivoluzionario, ma anche riformista, possa stracciarsi le vesti davanti, per esempio, alla eliminazione di Coco fatta dalle Brigate Rosse, o dei giudici tedeschi da parte della "2 Juni". Ciò non vuol dire condividere la strategia e la tattica dei gruppi sopraccitati, ma solo rendersi conto che metodi simili sono vecchi come il mondo e, in una radicalizzazione (da tutte le parti: i morti del '60 che fecero cadere Tambroni in Italia, oggi fanno ridere; il tiro al bersaglio contro manifestanti e oppositori e, viceversa, contro gendarmi, è generalizzato) della lotta paiono assolutamente giustificabili. In alcuni casi sono ben proficui: dopo la sua morte violenta, non è saltato fuori nessun nuovo Calabresi in Italia e la polizia è molto meno di mano pesante negli interrogatori, nonostante il ruolo sempre più notevole che vi riveste Schiavone che, nei primi Anni Sessanta, venne sospeso dal servizio e processato per aver torturato un parcheggiatore, a Milano, per ragioni di posteggio. Sparare alle gambe a un nemico vero e proprio del popolo come un Theodoli, in cosa moralmente urta (salvo nel caso predetto dell'accettazione di un'etica non-violenta) contro il senso di giustizia? Ma, attenzione, il giudizio politico deve spesso prendere il sopravvento su quello di vendetta. E il primo ci dice che, storicamente, la catena "attentati - repressione - attentati - più feroce repressione" ha sempre finito per portare alla sconfitta dei rivoluzionari, alla persecuzione massiccia dei riformisti, all'impiantarsi di regimi mostruosi (basti dare un'occhiata ad Argentina e Uruguay, ricordarsi la Russia 1918-19 etc.). E perché, questo? Perché gli attentati sono un'ottima arma in mano al popolo quando si tratta di abbattere un potere isolato, internamente e internazionalmente, debole, oppure in momenti di debolezza particolari (guerra, carestia, lotte interne ad altissimo livello). Così come il terrorismo funziona in paesi occupati da truppe straniere, o coloniali, o da usurpatori universalmente odiati. Il primo e il secondo metodo sono inefficaci in un paese come l'Italia nel quale circa il 70% della popolazione rivela di aver assorbito il necessario condizionamento, e di avere quella dose di consenso indotto per il regime, oppure di criticare questo solo marginalmente ("... Rubano... che porci... sempre tasse..." etc. etc.).

Da questo lungo discorso mio scaturisce l'idea, che propongo agli altri: non siamo neppure lontanamente in una situazione storica nella quale l'insurrezione di minoranze armate possa avere neppure la minima possibilità di avere successo (dove? in un paese con tali legami internazionali? in un paese assolutamente non autosufficiente neanche dal punto di vista alimentare? e dopo vent'anni di abitudine popolare a consumare?) e per creare un fatto rivoluzionario ci vogliono molti, tanti anni, di preparazione non militare (a combattere si impara, e bene, in tre mesi al massimo) ma culturale, morale, politica immersa nella realtà e non nel segno di ideologie dogmatiche più o meno destramente interpretate.

2) La criminalizzazione. Le B.R., all'inizio, sostenevano la necessità di basarsi sulle frange più incazzate degli operai di città. Lì, in effetti, avevano le loro basi. Nulla a che fare, in realtà, con il sottoproletariato suburbano. Le ragioni prima esposte hanno portato alla fine di questo disegno che, da un punto di vista blanquista (o leninista, come si vuole: è la stessa cosa), era abbastanza classico, ma si riferiva, nei testi del francese (e in quelli del russo) a situazioni di emergenza nazionale (guerra, lotta civile antimonarchica etc.) che presupponevano alleanze molteplici con diversi gruppi e anche strati sociali, come la piccola borghesia, che oggi, contrariamente all'epoca di Blanqui e di Lenin, costituiscono la maggioranza assoluta della popolazione dei paesi sviluppati. Il discorso dei N.A.P., come si sa, dette invece fin dall'inizio grande importanza alle avanguardie costituite da delinquenti comuni. Sono stati questi a fornire le nuove reclute e la commistione, oggi, tra N.A.P., nuove B.R. e "delinquenti comuni-rivoluzionari" è totale. È questo il più grande errore, a mio avviso, fatto da movimenti di opposizione violenta al regime, in Italia. Presuppone ignoranza storica, rivoluzionaria, sociologica, psicologica; non può non portare al disastro. Gli unici criminali che abbiano sempre avuto, almeno in parte, simpatie a sinistra, sono sempre stati i ladri puri (quelli, cioè, che preferiscono venire arrestati piuttosto di usare la violenza). Il giro della prostituzione (puttane e magnaccia) ha sempre storicamente fornito i suoi informatori alle polizie. I delinquenti "violenti" (ne escluderei i rapinatori "scientifici", tipo la Banda di via Osoppo; quelli, insomma, che non hanno mai torto un capello a nessuno), dagli scippatori ai rapinatori, dai sequestratori agli omicidi a pagamento, sono sempre stati reazionari, fascisti, alleati delle polizie nella lotta contro la crescita rivoluzionaria. Non occorre andare indietro ai lazzaroni del 1799 a Napoli: Mafia, Camorra, Cosa Nostra, per limitarci al nostro paese, sono sempre state ferocemente alleate dei reazionari. I delinquenti comuni, alleati ai governi, alle chiese, alle polizie, agli eserciti, sempre hanno schiacciato o combattuto i movimenti di liberazione popolare. Ricordiamo l'ultima guerra mondiale: chi torturava i partigiani francesi? Membri del mitan corso-francese. E quanti criminali comuni c'erano nelle Brigate Nere della R.S.I.? Ma, d'altro canto, criminali comuni erano già stati molti dei più attivi squadristi in Italia nel '19-'26 e delle SS ed SA tedesche tra il '30 e il '37. Negli U.S.A. la Mafia ha svolto un lavoro pluridecennale di eliminazione di sindacalisti, rivoluzionari, oppositori, soprattutto quelli espatriati dall'Italia durante il fascismo. In U.R.S.S. le prime CeKà in funzione furono composte di delinquenti comuni, soprattutto lettoni ed estoni; nei campi di concentramento e nelle prigioni di tutto il mondo sono criminali comuni i kapò che "controllano" i detenuti politici: lo stesso avvenne in Germania durante il nazismo. In Sudamerica il discorso non cambia. Criminali comuni uccisero e torturarono al soldo dei generali nella "década infame" Argentina, gli stessi imperversarono agli ordini di Peron, oggi essi costituiscono il nerbo della AAA. In Brasile i documenti di Amnesty International dimostrano l'intervento dei criminali nella repressione dal '64 a oggi: se criminali comuni vennero uccisi dai Battaglioni della Morte, ciò fu dovuto a regolamenti di conti con altri criminali entrati nelle "squadre speciali" della polizia.

E, infine, non dimentichiamo l'aspetto psicologico del fatto. A parte i suoi condizionamenti sociali ed educativi, il criminale comune violento è un individuo assai fragile, mutevole, ombroso, ambizioso di affermare la propria personalità (lo diremmo un concentrato di tutta la morale capitalistica competitiva) virilista fino al ridicolo, infantile fino al punto di sentire il bisogno di provare continuamente la propria forza. Solo chi non conosce i criminali può idealizzarli: come si fa a basare la fortuna delle proprie lotte su elementi così difficili, sfuggenti, "fascisti caratteriali" se altri ve n'è?

La fasullaggine del "siamo tutti detenuti politici", riposa, a mio avviso, su queste minime considerazioni che in me non scaturiscono da idee preconcette, ma dall'esperienza pratica: direttamente o indirettamente ho vissuto in mezzo alla mala, o a contatto con questa, dal 1953 al 1966.

Questo dovrebbe valere da promemoria per aprire una discussione fra compagni.