Rivista Anarchica Online
Lotta armata e "delinquenza"
di Luisito
Attentati e terrorismo non sono proponibili come arma strategica nell'attuale realtà italiana, come
possono invece esserlo (e lo sono stati) in condizioni ben diverse dall'attuale - Perché non è vero
che "siamo tutti detenuti politici"
Cari compagni, mi pare che in questi ultimi mesi si stia facendo, da parte del potere e delle forze che
ormai ad esso sono caudatarie (o che gli baciano il culo, per metterla giù più o meno colta) una
confusione temibile proprio perché non viene rintuzzata sul piano teorico da nessuno. A ogni nuova
uscita di un Cossiga, di un Bufalini, si continuano le diatribe tra buoni gesuiti di Nostra Marxista Chiesa,
senza cogliere il punto del dibattito vero. Poi tutto tace, i mezzi d'informazione ufficiali e ufficiosi
ripresentano i loro mostri, le loro analisi folli e ignoranti e tutti acqua in bocca. Autonomi, P 38, radio
Alice, morti, 'proletari poliziotti' ete. etc., in un cocktail efficace: la gente (basta muoversi in giro, parlare
con gente che ignora il sinistrese) becca, prende tutto per buono: leggi come quelle tedesche, è inutile
nasconderselo, fra pochi mesi saranno accettate tranquillamente dall'opinione pubblica, dalla gran massa
della gente. Né aiutano certo a chiarire le cose i vaneggiamenti ignoranti e presuntuosi dei documenti
degli autonomi, di alcune frange "neoleniniste", di "spontaneisti" in cerca di un nuovo '68. Nella
confusione, io non pretendo di versare il balsamo della verità, ma solo di accennare ad alcuni punti per
provocare un confronto di opinioni e la nascita di qualche idea chiarificatrice.
1) Terrorismo e attentati. non c'è bisogno di citare Arbasino per dire che l'Italia ha una tradizione di
terrorismo e attentati da fare invidia a molti e che non si vedono molte novità in materia, oggi. Quanti
di noi abitano in una via Felice Orsini? Eppure il terrorista repubblicano Orsini, che condivideva
l'ideologia di La Malfa e Reale, non riuscì neanche a far fuori Napoleone III, con la sua bomba, ma
ammazzò otto persone assolutamente innocenti. Ve li immaginate i titoli del "Messaggero", dell'"Unità",
se il fatto fosse accaduto oggi? e le caute prese di distanza di anarchici, L.C; Av. Op. etc.? E quante vie
Guglielmo Oberdan esistono? In questo caso, almeno teoricamente, la violenza terroristica è vista
all'acme (dice la Canzone di Oberdan: "... con le bombe... il veleno... il pugnale alla mano...").
E Monti, Tognetti? Agesilao Milano? Perché questi fior di terroristi non venissero uccisi dalla vendetta
statale si mossero re, primi ministri, ministri degli esteri italiani, scrittori.... Questo gran casino che si sta
facendo, oggi, per qualificare come "fascista" e "reazionario" il terrorismo è deviante e frutto di
ignoranza. A questo proposito si possono prendere solo, a mio avviso, due atteggiamenti: o quello,
pacifista e non-violento, di rifiuto totale verso la lotta violenta, oppure quello, non etico ma politico, di
giusta metodologia per raggiungere alcuni obiettivi. Lasciando da parte il primo atteggiamento, che si
spiega da solo e può avere i suoi sostenitori e detrattori, addentriamoci nel secondo. Il terrorismo vero
e proprio non ha più l'impatto psicologico che aveva nell'Ottocento. Troppe torture, morti strane,
massacri, ha visto la generazione che ha come minimo quarant'anni, perché pochi morti in più possano
smuoverla davvero. Se non esistesse (ma esiste!) una ragione morale per non buttare una bomba allo
stadio, o su un treno, o in banca, basterebbe a sconsigliarlo la riflessione che il potere assorbirebbe i
morti per utilizzarli per la successiva repressione; e inoltre ci si alienerebbe l'appoggio popolare (la
popolazione oggi non è fatta di enormi maggioranze di reietti, bensì di terziari addormentati, pronti a
difendere quel che credono di avere e che contrasta con la miseria ricordata ancora, e situata nei decenni
precedenti). E poi la violenza ha perso gran parte della sua eccezionalità: come sempre avviene ai topi
sovraffollati in una gabbia, gli istinti omicidi trovano libero sfogo, morte e dolore sono divenuti non
eccezione ma compagne comuni della vita metropolitana.
Ben diverso è il discorso da fare sugli attentati. Questi colpiscono una o più persone determinate, che
vengono incolpate (dagli attentatori) di crimini. Non vedo come uno che si chiami, non dico
rivoluzionario, ma anche riformista, possa stracciarsi le vesti davanti, per esempio, alla eliminazione di
Coco fatta dalle Brigate Rosse, o dei giudici tedeschi da parte della "2 Juni". Ciò non vuol dire
condividere la strategia e la tattica dei gruppi sopraccitati, ma solo rendersi conto che metodi simili sono
vecchi come il mondo e, in una radicalizzazione (da tutte le parti: i morti del '60 che fecero cadere
Tambroni in Italia, oggi fanno ridere; il tiro al bersaglio contro manifestanti e oppositori e, viceversa,
contro gendarmi, è generalizzato) della lotta paiono assolutamente giustificabili. In alcuni casi sono ben
proficui: dopo la sua morte violenta, non è saltato fuori nessun nuovo Calabresi in Italia e la polizia è
molto meno di mano pesante negli interrogatori, nonostante il ruolo sempre più notevole che vi riveste
Schiavone che, nei primi Anni Sessanta, venne sospeso dal servizio e processato per aver torturato un
parcheggiatore, a Milano, per ragioni di posteggio. Sparare alle gambe a un nemico vero e proprio del
popolo come un Theodoli, in cosa moralmente urta (salvo nel caso predetto dell'accettazione di un'etica
non-violenta) contro il senso di giustizia? Ma, attenzione, il giudizio politico deve spesso prendere il
sopravvento su quello di vendetta. E il primo ci dice che, storicamente, la catena "attentati - repressione -
attentati - più feroce repressione" ha sempre finito per portare alla sconfitta dei rivoluzionari, alla
persecuzione massiccia dei riformisti, all'impiantarsi di regimi mostruosi (basti dare un'occhiata ad
Argentina e Uruguay, ricordarsi la Russia 1918-19 etc.). E perché, questo? Perché gli attentati sono
un'ottima arma in mano al popolo quando si tratta di abbattere un potere isolato, internamente e
internazionalmente, debole, oppure in momenti di debolezza particolari (guerra, carestia, lotte interne
ad altissimo livello). Così come il terrorismo funziona in paesi occupati da truppe straniere, o coloniali,
o da usurpatori universalmente odiati. Il primo e il secondo metodo sono inefficaci in un paese come
l'Italia nel quale circa il 70% della popolazione rivela di aver assorbito il necessario condizionamento,
e di avere quella dose di consenso indotto per il regime, oppure di criticare questo solo marginalmente
("... Rubano... che porci... sempre tasse..." etc. etc.).
Da questo lungo discorso mio scaturisce l'idea, che propongo agli altri: non siamo neppure lontanamente
in una situazione storica nella quale l'insurrezione di minoranze armate possa avere neppure la minima
possibilità di avere successo (dove? in un paese con tali legami internazionali? in un paese assolutamente
non autosufficiente neanche dal punto di vista alimentare? e dopo vent'anni di abitudine popolare a
consumare?) e per creare un fatto rivoluzionario ci vogliono molti, tanti anni, di preparazione non
militare (a combattere si impara, e bene, in tre mesi al massimo) ma culturale, morale, politica immersa
nella realtà e non nel segno di ideologie dogmatiche più o meno destramente interpretate.
2) La criminalizzazione. Le B.R., all'inizio, sostenevano la necessità di basarsi sulle frange più incazzate
degli operai di città. Lì, in effetti, avevano le loro basi. Nulla a che fare, in realtà, con il sottoproletariato
suburbano. Le ragioni prima esposte hanno portato alla fine di questo disegno che, da un punto di vista
blanquista (o leninista, come si vuole: è la stessa cosa), era abbastanza classico, ma si riferiva, nei testi
del francese (e in quelli del russo) a situazioni di emergenza nazionale (guerra, lotta civile antimonarchica
etc.) che presupponevano alleanze molteplici con diversi gruppi e anche strati sociali, come la piccola
borghesia, che oggi, contrariamente all'epoca di Blanqui e di Lenin, costituiscono la maggioranza
assoluta della popolazione dei paesi sviluppati. Il discorso dei N.A.P., come si sa, dette invece fin
dall'inizio grande importanza alle avanguardie costituite da delinquenti comuni. Sono stati questi a
fornire le nuove reclute e la commistione, oggi, tra N.A.P., nuove B.R. e "delinquenti comuni-rivoluzionari" è totale. È questo il più grande errore, a mio avviso, fatto da movimenti di opposizione
violenta al regime, in Italia. Presuppone ignoranza storica, rivoluzionaria, sociologica, psicologica; non
può non portare al disastro. Gli unici criminali che abbiano sempre avuto, almeno in parte, simpatie a
sinistra, sono sempre stati i ladri puri (quelli, cioè, che preferiscono venire arrestati piuttosto di usare
la violenza). Il giro della prostituzione (puttane e magnaccia) ha sempre storicamente fornito i suoi
informatori alle polizie. I delinquenti "violenti" (ne escluderei i rapinatori "scientifici", tipo la Banda di
via Osoppo; quelli, insomma, che non hanno mai torto un capello a nessuno), dagli scippatori ai
rapinatori, dai sequestratori agli omicidi a pagamento, sono sempre stati reazionari, fascisti, alleati delle
polizie nella lotta contro la crescita rivoluzionaria. Non occorre andare indietro ai lazzaroni del 1799 a
Napoli: Mafia, Camorra, Cosa Nostra, per limitarci al nostro paese, sono sempre state ferocemente
alleate dei reazionari. I delinquenti comuni, alleati ai governi, alle chiese, alle polizie, agli eserciti, sempre
hanno schiacciato o combattuto i movimenti di liberazione popolare. Ricordiamo l'ultima guerra
mondiale: chi torturava i partigiani francesi? Membri del mitan corso-francese. E quanti criminali comuni
c'erano nelle Brigate Nere della R.S.I.? Ma, d'altro canto, criminali comuni erano già stati molti dei più
attivi squadristi in Italia nel '19-'26 e delle SS ed SA tedesche tra il '30 e il '37. Negli U.S.A. la Mafia ha
svolto un lavoro pluridecennale di eliminazione di sindacalisti, rivoluzionari, oppositori, soprattutto quelli
espatriati dall'Italia durante il fascismo. In U.R.S.S. le prime CeKà in funzione furono composte di
delinquenti comuni, soprattutto lettoni ed estoni; nei campi di concentramento e nelle prigioni di tutto
il mondo sono criminali comuni i kapò che "controllano" i detenuti politici: lo stesso avvenne in
Germania durante il nazismo. In Sudamerica il discorso non cambia. Criminali comuni uccisero e
torturarono al soldo dei generali nella "década infame" Argentina, gli stessi imperversarono agli ordini
di Peron, oggi essi costituiscono il nerbo della AAA. In Brasile i documenti di Amnesty International
dimostrano l'intervento dei criminali nella repressione dal '64 a oggi: se criminali comuni vennero uccisi
dai Battaglioni della Morte, ciò fu dovuto a regolamenti di conti con altri criminali entrati nelle "squadre
speciali" della polizia.
E, infine, non dimentichiamo l'aspetto psicologico del fatto. A parte i suoi condizionamenti sociali ed
educativi, il criminale comune violento è un individuo assai fragile, mutevole, ombroso, ambizioso di
affermare la propria personalità (lo diremmo un concentrato di tutta la morale capitalistica competitiva)
virilista fino al ridicolo, infantile fino al punto di sentire il bisogno di provare continuamente la propria
forza. Solo chi non conosce i criminali può idealizzarli: come si fa a basare la fortuna delle proprie lotte
su elementi così difficili, sfuggenti, "fascisti caratteriali" se altri ve n'è?
La fasullaggine del "siamo tutti detenuti politici", riposa, a mio avviso, su queste minime considerazioni
che in me non scaturiscono da idee preconcette, ma dall'esperienza pratica: direttamente o indirettamente
ho vissuto in mezzo alla mala, o a contatto con questa, dal 1953 al 1966.
Questo dovrebbe valere da promemoria per aprire una discussione fra compagni.
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