Rivista Anarchica Online
Ampliamo e consolidiamo l'area
rivoluzionaria
di Franco Melandri
Dibattito sulla nuova sinistra e la criminalizzazione delle lotte. In contrasto con chi sostiene la necessità impellente che l'opposizione rivoluzionaria imbocchi la
via della lotta armata, bisogna riaffermare la priorità di un lavoro di ampliamento e di
consolidamento dell'area rivoluzionaria, senza cedimenti al mito operaista né a quello della P38
Prendo spunto da "Ascia di guerra e P38 contro lo Stato" per fare alcune considerazioni sull'attuale
situazione del "movimento" e della sinistra rivoluzionaria, sperando che servano come contributo e
pungolo per un dibattito sulla situazione attuale. Innanzitutto dovrebbe essere chiaro a tutti come la
situazione italiana, sull'onda del "rapimento di regime" di Guido De Martino (giunto "ad hoc" per
sbloccare una situazione parlamentare di stallo), stia marciando a grandi passi verso un "nuovo" assetto
politico basato sull'aperto accordo di governo fra DC e PCI (accordo di fatto già operante da prima del
20 giugno '76 e del "governo delle astensioni", ma non ancora santificato ufficialmente).
La base principale di questo accordo, che ora ha avuto il "placet" degli U.S.A. e del santone Moro, è
altrettanto chiara: la crisi pagata, per ora quasi silenziosamente, dai proletari e dagli emarginati in genere
(questi ultimi, fortunatamente, non altrettanto silenziosi), e l'ulteriore inasprimento della repressione
"democratica" verso tutti i "devianti" ed i rivoluzionari.
In questa situazione gli unici fatti giunti ad interrompere la marcia verso l'applicazione del compromesso
storico sono state le azioni guerrigliere dei gruppi armati, la nascita del Movimento con le conseguenti
ribellioni di Bologna e soprattutto Roma.
Ed è proprio su questi ultimi fatti e sulla realtà del Movimento che occorre, a mio avviso, focalizzare
l'attenzione e l'analisi.
La realtà del Movimento è caratterizzata dal netto rifiuto e dallo smascheramento della funzione
opportunista e recuperatrice dei sedicenti rivoluzionari di A.O., P.d.U.P., M.L.S. ecc., così come dal
rifiuto della politica verticistica, burocratica, conservatrice dei partiti della sinistra "ufficiale"; rifiuto cui
si accompagna il tentativo di concretizzare una nuova e "totale" visione della vita e della militanza
rivoluzionaria (da qui il rifiuto della figura del militante tutto libri, sede ed intervento). Questo
patrimonio libertario ed unificante rischia però di essere messo in crisi soprattutto dai fatti di Roma.
A questi ultimi è infatti seguito un momento di stasi di cui sono, in parte, prove sia la frattura all'interno
del Movimento seguita agli "incidenti" del 12 marzo (frattura preannunciata dallo spaccamento in due
tronconi della prima assemblea nazionale del Movimento degli studenti, sempre a Roma) sia la situazione
di stallo che (in molte situazioni) il Movimento sta vivendo, dopo l'esplosione iniziale.
I motivi di questa empasse sono tanti, non ultimi l'ottica partitica e verticistica, e quindi disgregatrice,
di alcuni gruppi dell'area dell'"autonomia" (dirette filiazioni dei defunti P.O., P.C.m-l, ecc.) e la capacità
di recupero delle burocrazie dei partiti "di sinistra" e dei sindacati.
Ma, oltre a questi motivi, bisogna non sottovalutare (cosa che molti compagni fanno) che il Movimento
stenta, nella gran parte dei casi, a dare sbocchi pratici alle sue istanze costruttive; questo soprattutto
perché, a mio avviso, sono emerse al suo interno delle grosse differenziazioni sul cosa, e soprattutto sul
come, si vuole costruire (vedere al proposito quanto emerge dagli ultimi numeri di "Rosso").
Ed è appunto sul "come" che, sempre a mio avviso, si sta giocando il futuro di tutto il movimento
rivoluzionario.
All'interno del Movimento le tendenze sono, grosso modo, due: chi sostiene che è necessaria ora la
scelta della lotta armata, sia a livello di guerriglia sia con momenti "insurrezionali"; e chi invece, pur non
bollando certo come "provocatori" gli autori delle azioni armate e rifiutando decisamente la
criminalizzazione del movimento, ritiene necessario e prioritario un ampliamento, un consolidamento
ed un chiarimento, tanto interno che esterno, dell'area rivoluzionaria.
Personalmente propendo per questa seconda ipotesi, sostenuta da alcune semplici considerazioni. 1) Il
Movimento si è espresso e "conta" in alcune realtà specifiche (Roma, Bologna, Milano, in minor misura
Torino e Napoli) ma non sì è, fino ad ora, allargato alla realtà delle province. Realtà che, di fatto,
rappresentano un terreno importantissimo ed irrinunciabile per una trasformazione rivoluzionaria e che
sono ancora gestite (anche se non sempre tranquillamente) dai nuovi padroni della sinistra "ufficiale" e
dei sindacati. 2) La scelta della lotta armata ora rischia di distruggere più di quanto riesca
contemporaneamente a costruire. Rischia, cioè, di impedire, ed in questo senso lavorano i sindacati, un
qualsiasi contatto fra studenti ed emarginati e quel movimento operaio che, pur se ancora sottomesso
alle burocrazie delle organizzazioni "storiche", sta ovunque cominciando a dar segni di insofferenza.
Credo che tutti ci rendiamo conto che oggi è assurdo pensare ad una trasformazione rivoluzionaria che
escluda la presenza attiva delle masse operaie, vale a dire di quelle masse che, pur con un salario sempre
più scarso, risentono meno della crisi che non i disoccupati e gli emarginati, ma che certo non vivono
negli agi e nelle mollezze.
È chiaro quindi che una scelta che ci separasse ulteriormente ed irrimediabilmente da esse sarebbe una
scelta suicida. Suicida soprattutto ora che il potere, per giustificare l'inasprimento della repressione e per
mostrare come necessario l'embrassons-nous storico, cerca il morto (Lo Russo e l'allievo di P S morto
negli scontri del 21/4 a Roma ne sono gli esempi più recenti), cerca cioè di spingere i compagni allo
scontro aperto sicuro di vincere (non bastano le molotov e le P 38 contro i carri armati) riuscendo così
a schiacciare il Movimento prima che si rafforzi, sicuro anche che ben pochi muoveranno un dito in sua
difesa.
A queste considerazioni se ne aggiunge un'altra più "specifica". Mi sembra infatti che "l'ottica della P 38"
tenda ad assumere, in chi ne fa la sua principale attività rivoluzionaria, un aspetto di gratificazione ed
auto-incensamento. Molti compagni, delusi dal mito della "rivoluzione domani" e data anche,
ovviamente, la quasi inevitabile situazione sociale sono portati all'auto-emarginazione ed alla convinzione
che bastino pochi gruppi che sparano contro le sedi della DC e contro la polizia per fare la rivoluzione.
Ma le cose non stanno così; le rivoluzioni le fanno le masse ed accettare di staccarsi da esse significa (in
una situazione che ancora presenta spazi agibili, anche se sempre più ristretti, al di fuori dello scontro
armato) votarsi alla sconfitta con la coscienza di non lasciare nulla, o ben poco, di costruttivo dietro di
sé.
Chiaramente questo discorso, che non vuole certo essere un invito ad accettare un becero codismo
operaista, non vuole neanche dire che i compagni devono rinunciare a difendere con ogni mezzo, se
necessario, la propria vita ed il proprio spazio politico. Vuole solo esser un invito a riflettere sul dove
ci porterebbe una scelta non approfonditamente meditata.
Concludendo, concordo pienamente con l'autore di "Ascia di guerra e P 38 contro lo Stato" quando
afferma che è necessario "provocare i provocatori". Occorre "provocarli" e "provocarci", ad un dibattito
e ad un'azione che giunga necessariamente alla volontà ed alla pratica di allargare l'area rivoluzionaria,
portando avanti contenuti coerentemente rivoluzionari ed anti-autoritari, ed in quanto tali unificanti pur
nella specifica diversità delle situazioni. E allora potremo praticare fattivamente, e ad ogni livello, lo
scontro col potere. Quel potere che, già più volte messo alle corde, oggi usufruisce anche degli errori
e delle incertezze dei rivoluzionari per ridipingere la sua faccia che, nonostante le verniciature vecchie,
nuove e nuovissime, è sempre la stessa.
|