rivista anarchica
anno 49 n. 434
maggio 2019





La lotta per il diritto alla festa. Storia del movimento rave

intervista a Tobia D'Onofrio

Nell'arco di un trentennio, la scena dei rave e del movimento free tekno ha forgiato nei circuiti underground generi musicali innovativi come jungle, grime, dubstep. Nonostante la natura utopica, questa cultura pirata, tra azione diretta, neotribalismo e cyberpunk, si è concretizzata in un crogiolo di istanze politico-esistenziali, unendo in una danza collettiva sognatori di comunità liberate, sperimentazione artistica, lotte per i diritti dei gay e controvertici.
Il libro di Tobia D'Onofrio, Rave new world (Agenzia X, nuova edizione 2018) raccoglie le testimonianze e gli spunti più interessanti degli studiosi e dei protagonisti a livello internazionale, offrendo al lettore un'inedita panoramica storica che include le numerose idee realizzate, i punti critici e le possibili prospettive di una delle ultime controculture. Ci siamo incontrati per discutere quelli che secondo me sono i temi centrali della sua ricerca.

Da antropologo sono molto interessato ai rituali della cultura underground, nel tuo libro analizzi in un interessante paragrafo la ritualizzazione nel mondo raver. Puoi approfondire questa tematica?
Ci sono alcuni rituali che sono necessari affinché la magia della festa rave funzioni al punto di generare nella mente del raver una sorta di epifania, che spesso coincide con l'incontro con la trance, che è un particolare stato alterato di coscienza, un'esperienza totalizzante. Ho scoperto, ad esempio, dopo anni di rave, che è impossibile riprovare le stesse emozioni e sensazioni all'interno di una discoteca. I motivi sono molteplici e legati probabilmente alle aspettative del soggetto, al set and setting, fino alla presenza inibente dei buttafuori, ai drastici orari di chiusura, ma forse il più importante di tutti è che manca la caccia al tesoro per scoprire dov'è la festa segreta: la rituale attesa in compagnia di amici, di sabato sera, il passaparola, il trillo di telefoni, i preparativi, la scelta di vestiti creativi e adatti ad affrontare l'apocalisse, la carovana di macchine e camion tra le campagne o nelle zone industriali, la ricerca sempre inebriante del capannone in cui si terrà la festa, il tutto vissuto con l'imprevisto sempre dietro l'angolo.
Questa parte del rituale rave è quella fondamentale in cui la coscienza inizia a destrutturarsi, predisponendosi al salto nella trance che avverrà più tardi sulla pista da ballo. Ma andando a scavare ancora più in profondità, potremmo dire che tutto, nello spazio rave, viene poi ritualizzato: l'assunzione di sostanze psicoattive diviene spesso e volentieri una cerimonia collettiva di piccoli gruppi di affinità; montare il sound system e le scenografie è anch'esso un rituale a cui è dedita la tribù che organizza la festa; ripulire lo spazio dall'immondizia alla fine del party è un altro momento collettivo intenso che di solito coinvolge buona parte dei partecipanti e aiuta nella ristrutturazione della coscienza; la danza liberatoria sotto il muro di casse è quasi sempre una celebrazione tra amici e creature simili consapevoli di condividere un mondo segreto “altro“, precluso ai più.

Quali sono gli antenati di questo movimento? Ci sono dei riferimenti? Ci puoi fare una panoramica quasi archeologica?
Partendo dall'esplosione della acid house inglese di fine anni '80, che rappresenta la miccia che ha fatto esplodere il fenomeno rave per come lo conosciamo oggi, si può procedere a ritroso, sempre nel Regno Unito, incontrando i free festival organizzati nelle campagne dai traveller nomadi, che dagli anni '70 fino al 1985, ogni estate si riunivano per settimane attorno al circolo dei megaliti di Stonehenge, danzando al ritmo della psichedelia ipnotica degli Hawkwind e del punk rock di Clash e Crass.
Poi troviamo alcune emanazioni della cultura punk/industrial dei primi anni '80 e infine la nascita di house e techno in America negli anni '70, fino a risalire ai primi circoli privati di musica disco. Stiamo parlando di musica con presenza di beat ripetitivi, ideale per ricercare la trance nel ballo e a questo punto includerei nell'elenco alcuni festival anni '60 a base di musica beat/rock psichedelica. Tornando ancora indietro nei decenni, fino agli anni '50 in Salento incontriamo la tradizione del tarantismo che ruotava attorno al ballo della pizzica, una sorta di danza di possessione che coinvolgeva intere comunità, anche qui per giorni. In altre parti del globo si ritrovano cerimonie collettive di trance e possessione nelle danze degli Gnawa in Marocco, nello stambeli in Tunisia, nel vudù in varie parti dell'Africa e dell'America, nelle cerimonie tradizionali sudamericane con l'hayahuasca, nella macumba brasiliana e così via fino ad arrivare all'antica Grecia con le celebrazioni dei culti bacchici e dionisiaci e dei cosiddetti Misteri, in particolare quelli eleusini che, a detta di autorevoli testimoni come Platone, Aristotele e Cicerone, duravano per giorni, riunivano migliaia di persone tra musica, danze e sostanze psicoattive. L'iniziato avrebbe dovuto mantenere il segreto su quanto appreso, anche lì una sorta di epifania, ovvero una visione estatica che lo avrebbe liberato dal timore della morte.

Una via d'uscita al sistema

Che influenza hanno avuto la teorizzazione di Hakim Bey e il suo libro TAZ su questi movimenti?
Credo che specialmente nel nostro paese l'influenza sia stata enorme. Già nei primi anni '90 in alcune realtà italiane di provincia, lo spazio underground dei centri sociali era già saturo, oppure era già stato in qualche modo neutralizzato dal sistema, al punto da non rappresentare più una reale alternativa. Per un adolescente alla ricerca di avventure, invece, con in mente l'idea di un totale drop-out dalla società, l'idea di una forza collettiva in grado di dileguarsi e riapparire al momento opportuno era proprio una salvezza, oltre che nuova strategia di lotta.
La TAZ rappresentava la via d'uscita da un sistema di repressione che andava a toccare le occupazioni illegali e il camper/casa mobile era la soluzione logistica ideale per chi celebrava il nomadismo psichico, prima ancora che fisico. Si parlava di una scena e una prospettiva internazionaliste. Era, ed è stata per molti, la via della liberazione dal capitalismo globalista. Fu questa la visione rivoluzionaria di Hakim Bey, oltre ad aver annunciato la rivoluzione telematica in arrivo e indicato la strada della lotta per il diritto alla festa. E gli esempi che venivano offerti nel libro come ispirazione non erano niente male: “i raduni tribalisti stile anni Sessanta, i conclavi forestali degli eco-sabotatori, l'idillico Beltane dei neo-pagani, le conferenze anarchiche, i circoli gay fairy... Le feste in affitto di Harlem degli anni Venti, nightclub, banchetti, i vecchi picnic libertari, dovremmo capire che tutte queste sono già “zone liberate“, o almeno potenziali TAZ.

Tobia D'Onofrio

Crescita e commercializzazione

Parlo di movimenti perché non possiamo usare il singolare, concordi? Ci puoi raccontare qualche differenza che si è mossa all'interno della grande casa dei raver?
La frammentazione sociale prodotta dal sistema in cui viviamo non poteva non colpire anche il movimento dei raver. Varie spaccature si sono create nella scena nel corso degli anni, prima di tutto per questioni strettamente musicali, visto il continuo ingresso sulla scena di generi sempre nuovi, dall'hardcore alla jungle, dalla drum'n'bass al dubstep, ognuno che si portava dietro un immaginario ben definito con dei codici di vestiario, di comportamento, eccetera. Il tormentone di questi ultimi anni, per farti un esempio, è quello della divisione techno con la “h“ contro tekno con la “k“. Grossomodo, diciamo che la tekno è quella più underground e massimalista dei rave, mentre la techno è quella più hipster e minimale che va per la maggiore nei club.
Allo stesso modo, negli anni '90 c'era questo neanche troppo celato snobismo da parte dei raver che vivevano su quattro ruote nei confronti dei raver che vivevano in case occupate, considerati meno “tosti“. Fino ai primi anni del duemila, inoltre, la scena era totalmente spersonalizzata e i dj non avevano neanche nomi d'arte. Con la crescita e la commercializzazione del fenomeno, invece, molti hanno cominciato a tenere i piedi in due scarpe e suppongo che l'ingresso del fattore economico/lavorativo non abbia fatto bene al movimento.
Anche le droghe hanno creato divisione, penso alla fine degli anni '90 quando in Inghilterra alcune tribe tentavano di organizzare party senza ketamina, perché ritenevano che avesse distrutto la vibrazione positiva dell'ecstasy... Infine una grossa spaccatura è quella che ha diviso, seppur non in compartimenti totalmente stagni, la scena dei classici teknival illegali (i grossi festival con più sound system che suonano anche generi differenti) da quella dei festival psy-trance, o goa-trance, più fricchettona, più solare, se vogliamo, almeno nella scelta delle scenografie e delle musiche, ma forse anche meno nichilista e più “consapevole“ in merito all'utilizzo di sostanze.

Tarantismo e ballo della pizzica

Eccoci al tema che non poteva mancare, che rapporto c'è tra sostanze, musica e questa controcultura? Nel tuo testo parli di riduzione del danno...
Per quanto abbia conosciuto molti raver che non fanno uso di droghe, è fuori da ogni dubbio il ruolo fondamentale che queste hanno come acceleratore del processo di trance. Credo che quella dell'approccio responsabile alle sostanze sia un'eredità degli hippy degli anni '60.
Anche nei party londinesi di fine anni '90, in cui si respirava un'atmosfera molto dark e violenta, i banchetti di riduzione del danno con foglietti informativi sulle sostanze, o le cartine al tornasole per testare le pastiglie di ecstasy, erano spesso offerti dai freak del Rainbow Gathering. Sembra paradossale che pratiche salvavita collaudate a livello internazionale siano ancora criminalizzate qui da noi in Italia. Nel libro ho fatto una panoramica insieme a Max del Lab57 di Bologna per evidenziare quanto sia importante la libertà d'informazione in questi contesti. Per fortuna in Italia gruppi di coraggiosi volontari continuano a svolgere un lavoro prezioso almeno sulla scena dei rave illegali.

Come ti sei mosso per la ricerca sul campo? Quanto eri o sei coinvolto in questo movimento? Come hai strutturato le interviste?
Dalla fine degli anni '90 sono stato coinvolto nel movimento, specialmente negli anni degli squat londinesi, fino al 2007. Poi mi sono allontanato dalle feste illegali per ricominciare a frequentarle qualche anno fa. Quello che avevo in testa erano anni di ricordi annebbiati e parlare con i vecchi amici è stato il primo passo per riattivare la memoria. Mi ero riaccostato alla musica elettronica dalla porta del giornalismo musicale e la prima intervista la feci ad Alec Empire degli Atari Teenage Riot dopo un concerto a Milano.
Gli dissi che volevo scrivere un articolo che raccontava dell'esodo del movimento rave dall'Inghilterra al resto dell'Europa. Poi è rimasto nel cassetto per un annetto, fino a quando ho proposto a Philopat di scrivere un libro con Agenzia X. Così ho iniziato a contattare gli Spiral Tribe e le persone che ritenevo testimoni importanti, a partire dai Mutoid che sono andato a trovare a Santarcangelo, fino al critico Simon Reynolds, raver della prima ora, del quale avevo già il contatto mail per un'intervista di qualche anno prima. Volevo intervistare anche il prof. Piero Fumarola, sociologo e compagno di ricerche di Georges Lapassade, protagonisti della stagione dei rave in Italia che ebbi modo di conoscere in Salento a metà anni '90, quando teorizzarono e lanciarono la cosiddetta techno-pizzica. Ma lui mi ha fatto piuttosto da guida spirituale fornendomi consigli preziosi e diversi libri da leggere dalla sua biblioteca. Avevo intenzione di sviscerare ogni aspetto dell'esperienza rave. Ho cercato di coinvolgere molti amici, ma è stato impossibile convincerli tutti a partecipare al libro, anche perché c'è gente che ha cambiato totalmente vita e non ha voglia di guardare indietro.

L'avvento del digitale

Il movimento rave è morto? Se non lo è, cosa è cambiato?
È vivo e vegeto. Ci sono ancora rave bellissimi, non tutti ovviamente, ma purtroppo gli impegni di lavoro non mi permettono di parteciparvi con l'assiduità di un tempo. Molti personaggi della vecchia guardia sono ormai impegnati lavorativamente nei festival di mezzo mondo. I giovani, invece, hanno sempre più sete di feste illegali. Purtroppo a volte è necessario spiegar loro che non dovrebbero postare i video del rave in diretta su facebook. L'avvento del digitale, oltretutto, ha stroncato il fiorente mercato di vinili e cassette autoprodotti. Un limite di molte feste odierne, forse, risiede nel fatto che il format, ormai collaudatissimo, sia una sorta di upgrade potenziato del classico teknival anni '90. È un po' come se non fosse rimasto molto altro da inventare e spesso manca l'aspetto performativo dirompente. Come se lo sguardo fosse comunque volto indietro a ricercare i momenti d'oro, anziché essere proiettato in avanti, a immaginare un nuovo futuro, un rave totalmente altro, folle e imprevedibile, come quando ancora questa controcultura non era stata decodificata.

Andrea Staid