rivista anarchica
anno 48 n. 427
estate 2018




Dibattito/ A proposito di sionismo

Da quando ho forse memoria, un po' per storia familiare e per militanza politica poi, ho sempre seguito con apprensione le varie fasi del conflitto israelo-palestinese. In considerazione anche degli ultimi tristi eventi occorsi nella regione, ritengo che il dibattito su di esso debba iniziare a svilupparsi su una decostruzione dei concetti ormai abusati, e più volte distorti e ontologicamente discordanti, di sionismo e antisionismo, dialettica che almeno nel discorso politico attuale andrebbe progressivamente abbandonata perché ambigua e priva di senso corrente.
Sintetizzando un iter storico-culturale sul sionismo e sul suo significato, mi limiterei ad affermare che più che di sionismo dovremmo parlare innanzitutto di più e diversi sionismi. Poiché al sionismo classico di natura laica proposto da Theodor Herzl alla fine del XIX secolo se ne vennero ad affiancare altri, che seppur proponendo sempre un ritorno del popolo ebraico a Sion, divergevano sulle modalità, sugli obiettivi e sulle eventuali relazioni con la popolazione araba autoctona.
Dal sionismo teorico predominò almeno sino al 1977 la corrente “socialista” teorizzata in origine da Moses Hess. Per inserirsi in seguito il sionismo revisionista e reazionario di Vladimir Jabotinskij, quello religioso e minoritario influenzato soprattutto dal rabbino Abraham Y. Kook, e quello infine forse più interessante in un'ottica libertaria del sionismo “culturale” di Ahad Ha'am e di Martin Buber il quale alla stregua del pensiero dell'anarchico Gustav Landauer proponeva il comunitarismo e la stretta coabitazione con i vicini arabi all'interno di una federazione binazionale.
Nella contingenza che va al di là dei diversi sionismi, la storia – attraverso la Shoà, le persecuzioni staliniste, l'esodo palestinese e quello ebraico dai paesi arabi – ha lasciato spazio unicamente a un'ideologia creata in mimesi agli altri nazionalismi europei e a un Israele fondato sul modello degli altri stati, tagliando la strada ad altre alternative. Senza trascurare inoltre che tutto ciò che si conosce come Medio Oriente non è altro che il prodotto di uno smembramento dell'Impero Ottomano operato dall'Occidente al termine del primo conflitto mondiale per riconfigurarlo tramite stati artificiali. Il mio assunto parte dal presupposto che se il sionismo era diretto alla costituzione di un'entità ebraica in Palestina, il suo ruolo con la fondazione di uno stato nel 1948 si è estinto, poiché Israele è diventato un fatto incontrovertibile, così come l'antisionismo formatosi esclusivamente come critica ebraica in seno al bundismo (Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituania, della Polonia e della Russia) e all'ortodossia religiosa. Sempre che non si voglia riconsiderare un sionismo irrealizzato come quello di Buber o l'idea espansionistica della “Grande Israele” ormai accantonata persino dagli ultimi revisionisti, perché continuare a parlare di sionismo e di antisionismo?

Nuovo sionismo”?
Il sionismo originario e idealistico di Herzl o quello di Israele dei primordi resta l'ideologia costruttrice della società e dell'identità israeliana, rievocata soprattutto nella diaspora europea e nostalgicamente nella sinistra parlamentare ponendosi adesso come fine la “normalizzazione” di Israele, ma in un paese sempre più eterogeneo e a tratti frammentato, l'unico “sionismo” aggressivo e colonialista rimasto, non è né quello delle origini e neppure quello revisionista, è quello che i new historians chiamano “nuovo sionismo” il quale fonde in sé istanze nazional-religiose (ma non di tutto il mondo ortodosso), esclusiviste, e di difesa dei confini e degli insediamenti senza concessioni territoriali ed è rappresentato dai partiti attualmente al governo.
Può allora una concezione politica di gran lunga minoritaria rappresentare in toto un'entità nazionale e il sionismo in quanto tale, consolidando così la sua opposizione nel resto del mondo? Se la definizione di sionismo è divenuta incerta ed ambivalente, come si può pretendere che un israeliano possa considerarsi antisionista più che semplicemente anti-nazionalista o internazionalista come in qualunque altra parte del mondo? A un francese, a un argentino o a un australiano viene richiesta continuamente la rivalutazione critica della propria identità e storia nazionale e di come essa è stata costruita dall'alto?
Da un punto di vista libertario e anti-nazionalista esiste un'opposizione verso qualunque stato-nazione come tale, e Israele dunque non può rappresentare un caso a parte, una prospettiva che anche da sinistra invece concepisce l'esistenza degli stati nazione non dovrebbe applicare nessuna distinzione o non riconoscimento nei confronti di Israele (almeno entro i confini del 1948) perché anche in chiave antimperialistica qualunque stato occidentale e non, si è creato sempre sul mito di una etnia dominante e sul misconoscimento di quelle minoritarie.
L'abbandono forzato o meno di migliaia di arabi palestinesi intorno al 1948, ciò che prende il nome Nakba, rientra nel processo di riordinamento etnico del mondo avvenuto a metà secolo scorso, non differendo in sostanza dagli altri drammatici esodi e spostamenti di popolazione in Turchia con armeni e greci, in Grecia con turchi e slavi, nell'est Europa con i tedeschi nel dopoguerra, con italiani dalmati o con gli indiani musulmani in India, ecc. Una responsabilità che dovrebbe riguardare non solo Israele ma anche i paesi confinanti dove sovente il popolo palestinese continua a vivere in campi profughi come cittadini di serie B soggetti a violenze e discriminazioni.

Rispettivi fantasmi
Una contestazione a determinate politiche degli stati contemporanei e capitalistici, non può esentare nessuno in particolare, ma nei confronti di Israele sembra che in alcuni ambienti della sinistra radicale e non ci sia un accanimento particolare, a differenza di quegli anarchici dove rigurgiti antisemiti e complottisti sono stati negli ultimi tempi più volte condannati. Questo non per sostenere che chiunque contrasti lo stato di Israele sia inevitabilmente razzista e antisemita, ma per ribadire che chi abbraccia l'antisionismo lo fa il più delle volte sposando un altro pericoloso nazionalismo volto alla creazione di un altro stato con un' etnia dominante, assimilando i cittadini israeliani, i quali molto spesso subiscono al loro interno le stesse dinamiche conflittuali di altrove, alle scelte dei propri governi.
La solidarietà al popolo palestinese non deve significare l'inevitabile ostilità verso quello israeliano o viceversa, come per esempio l'appoggio al popolo curdo non può esprimersi nell'odio contro il popolo turco, ciò nel caso preso a riferimento conduce solo all'inasprimento del conflitto, facendo il gioco dei rispettivi fanatismi, ottenendo che chi ne è coinvolto non possa mai scorgere una soluzione all'orizzonte, che non sia la continua diffidenza e l'annientamento dell'altro.
La repressione, il conflitto di classe, le politiche di marginalizzazione, le violazioni dei diritti fondamentali sono riscontrabili in qualunque luogo del globo dove è presente uno Stato, dalle banlieues parigine ai centri d'espulsione italiani. Inoltre la supposta “occidentalità” di Israele, per la quale molti giustificano la sua eccezionalità di entità “europea” incastonata in un mondo medio-orientale, è ormai liquida e vacillante visto che oltre la metà della popolazione ebraica è di origine asiatica o nordafricana (considerando poi la popolazione araba interna), e sia dal punto di vista socio-culturale che politico Israele sembra adottare sempre più caratteristiche degli stati limitrofi.
Nella diaspora, la retorica antisionista di qualunque colore, adesso come allora, ha finito per ripercuotersi spesso contro la popolazione ebraica locale, specialmente in concomitanza con alcuni eventi occorsi in Medio Oriente, molti ebrei senza distinzione hanno subito attacchi fisici o verbali, questo naturalmente ha fomentato una maggiore pressione da parte del governo Netanyahu per far sì che gli ebrei del resto del mondo lascino definitivamente i propri paesi di residenza emigrando per il timore di nuove aggressioni e per un bisogno di maggiore “sicurezza”.

Spirito internazionalista, libertario e cosmopolita
Come causa effetto anche le consuete tesi reazionarie e xenofobiche si sono rafforzate seguendo una tendenza globale, legittimando la tesi nazionalistica della completa assimilazione dell'intero popolo ebraico, diasporico o israeliano, alle scelte governative di Israele, alle quali sarà richiesto di volta in volta “come ebrei” di aderire o di smarcarsi. La possibilità di un tertium non datur è difficilmente contemplata.
Scrisse su queste pagine in un articolo dal titolo “sionismo e anarchismo” pubblicato sul numero 237 dell'anno 1997 Pascal Touch: “Il diritto che hanno gli ebrei di vivere in Israele non è, d'altra parte, diverso dal diritto che ha ogni individuo di scegliersi una propria terra d'elezione. E se la storia ha lasciato in eredità un conflitto tra Stati, nulla impone all'anarchico di allinearsi all'estremismo dell'un campo o dell'altro, né a cercare la legittimità storica dell'uno o dell'altro contendente. [...] Se l'anima ebraica trova quello che cerca in Israele, l'anarchico non ha niente da ridire. Egli combatte per la giustizia e per la ricerca della pace, opponendosi in questo ai militaristi come agli integralisti, vincitori o sconfitti che siano.”
Dal canto mio aggiungo che nella rivendicazione pur sempre di uno spirito internazionalista, libertario e cosmopolita non trovo in antitesi ad esso una connessione emotiva con Israele, che chiunque come me o diversamente potrebbe sentire altresì per qualunque altro luogo della terra senza accezioni scioviniste o “idolatriche”. Nella speranza che al più presto in Medio Oriente, come altrove, i popoli possano finalmente incontrarsi per un progetto condiviso nel nome della comunità e del confederalismo.

Moises Bassano
Livorno



Pane, Amore e Anarchia

Un noto testo di Giorgio Gaber provava anni fa a definire il “comunista” elencando una serie di caratteri genericamente riferiti a chi è o viene ritenuto tale.
Se tentiamo di fare lo stesso con l'anarchia, le cose si complicano parecchio: l'anarchia per molti è un concetto talmente astratto o deviato mediaticamente da risultare sfuggente a definizioni precise.
Ci siamo divertiti un po', ripescando dalla memoria, dai luoghi comuni, dai sentimenti e dai pensieri sparsi.
È venuto fuori così:

Qualcuno è anarchico perché è disordinato.
Qualcuno è anarchico perché non vota, ma non va nemmeno al mare.

Qualcuno è anarchico perché prima era comunista.
Qualcuno è anarchico perché non è mai stato comunista.
Qualcuno è anarchico perché non guarda la TV, e men che meno Raitre.
Qualcuno è anarchico perché la TV non ce l'ha proprio.

Qualcuno è anarchico perché il papà era democristiano.
Qualcuno è anarchico perché non crede in dio,
figuriamoci in un presidente del consiglio.
Qualcuno è anarchico perché è libertino,
qualcuno perché lo vorrebbe essere.
Qualcuno è anarchico perché ha letto Chomsky e non ha capito molto,
ma gli è rimasto.

Qualcuno è anarchico perché dentro di sè ospita un condominio.
Qualcuno è anarchico perché portatelo dove vi pare,
ma non ad una riunione di condominio.

Qualcuno è anarchico finchè non arriveranno tempi migliori.
Qualcuno è anarchico perché c'è stata Ventotene.
Qualcuno è anarchico perché ha come modello due eroi
che facevano uno il pescivendolo l'altro l'operaio.

Qualcuno è anarchico perché ascolta De Andrè.
Qualcuno è anarchico perché De Andrè non gli piace,
e ha il coraggio di dichiararlo.
Qualcuno è anarchico perché la libertà, il rispetto, la solidarietà.

Qualcuno è anarchico perché è ostinato;
nonostante tutto non smette di provarci, ancora e ancora.

Claudia Ceretto
Torino





Attualità dell'anarchismo/ Ribellarsi non basta

La detronizzazione dei Romanov era stata accolta in Italia positivamente da quasi tutte le forze politiche. A parte i Savoia, preoccupati di fare la stessa fine. Alla Camera tutti gli schieramenti inneggiarono alla Russia. La mia opinione su quegli avvenimenti è condizionata dal fatto che, da quasi cinquant'anni, sono (cerco di essere) un anarchico. Come me socialisti e pacifisti hanno sempre visto, nelle vicende russe, una occasione forte per imporre la cessazione della guerra.
L'atteggiamento degli anarchici italiani verso il bolscevismo era stato di forte simpatia. C'era la comune condivisione della condanna del primo conflitto mondiale, e la sfiducia nella socialdemocrazia, considerata complice dell'imperialismo guerrafondaio. Anarchici e bolscevichi, tra il febbraio e l'autunno del 1917, si trovarono quindi insieme contro il governo provvisorio di Kerenskij, che si era affermato mettendo fuori legge i «massimalisti». Lenin era dovuto fuggire in Finlandia. In Italia questi avvenimenti vennero vissuti come l'avanzamento della controrivoluzione borghese. Ma presto, con la notizia che il governo di Kerenskij era stato abbattuto dai rivoluzionari, tornò il sorriso.
Le posizioni espresse da Lenin, dopo il suo ritorno in Russia, insieme alle parole d'ordine di abolizione dell'esercito di leva, dell'azzeramento della burocrazia statale, dell'eguaglianza salariale, della trasformazione della guerra in lotta rivoluzionaria per la difesa dei più deboli, accomunarono il primo bolscevismo alle aspettative dei libertari. La rivoluzione sembrava ormai inarrestabile. Il popolo si era armato, vigilava coi soldati. I contadini avevano aderito al movimento. Socialisti e anarchici italiani ancora non immaginavano che Lenin, e il gruppo dirigente del partito bolscevico, dopo il trattato di pace, si sarebbero invece rivolti al fronte interno per azzerare le opposizioni di sinistra.
Nella primavera del 1918, Lenin dichiarò guerra ai gruppi anarchici che, nelle grandi città, controllavano quartieri e caseggiati. Lo scontro fu durissimo, con vittime da entrambe le parti. Gli anarchici ebbero la peggio. Diverse centinaia vennero incarcerati. Come gli anarchici, in precedenza, sempre in difesa dei più deboli, avevano combattuto il regime zarista, passarono così a opporsi a quello di Lenin. Il 1917 è la risposta, nei fatti, a quanto aveva scritto Nietzsche nel suo Così parlò Zaratustra: «La società degli uomini è un tentativo, una lunga ricerca: essa però cerca colui che comandi!». Non a caso, di lì a poco, entrò in scena Stalin, per confermare che la dittatura del proletariato era solo dittatura, pura e semplice. Era la fine dell'illusione che la rivoluzione potesse unire tutti, sotto la stessa bandiera.
Poco più tardi, quando Simone Weil incontrerà Trotsky nel suo appartamento di Parigi, e gli ricorderà la spietata repressione della rivolta di Kronštadt, accuserà lui e Lenin di aver avuto un ruolo paragonabile a quello dei capitalisti «che prosperano grazie a grandi carneficine».
Ad un secolo di distanza la cultura e le basi ideali del bolscevismo si sono del tutto esaurite. Quelle dell'anarchismo – certo minoritarie, ancora poco incisive – sono invece ancora lì. Animate da giovani, uomini, donne, che, lontani dai grandi media, ne diffondono ancora le ragioni e la necessità. Sembrerebbero idee irrilevanti, eppure, da quasi due secoli, è su queste basi che la ricerca teoretica e i cambiamenti sociali si confrontano per la difesa degli ultimi, per l'affermazione di nuove libertà sociali e individuali, per loro possibili sperimentazioni nella realtà collettiva. È anche grazie a queste idee che la società degli uomini, come aveva scritto Nietzsche, continua ad essere «un tentativo, una lunga ricerca».
Dove procederemo? Dov'è l'approdo? L'interrogativo, da un paio di secoli, resta questo.

Alfredo T. Antonaros
Imola (Bo)



Dibattito Catalogna/Dalla parte delle vittime, sempre

“In Catalogna, oggi, aspirare all'impossibile è la cosa più realistica”, scrive sul blog di Solidaridad Obrera, la storica rivista della CNT, un membro della Federaciòn Anarquista de Gran Canaria, Ruyman Rodríguez (https://lasoli.cnt.cat/25/05/2018/catalunya-y-las-anarquistas/).
Vorrei contribuire al dibattito sull'indipendentismo catalano traducendo alcuni passi di questo testo che viene da lontano: è sempre dai margini che si capisce il centro dei problemi. A 1.800 km da Madrid, 2.400 da Barcellona, le Canarie sono un'altra comunità autonoma dello stato spagnolo, anch'essa attraversata da pulsioni indipendentiste; ma la loro posizione geografica di fronte alle coste dell'Africa, e in particolare davanti al Sahara Occidentale occupato dal Marocco, rende i suoi attivisti particolarmente sensibili alle questioni coloniali e postcoloniali.
Sono passati oltre sei mesi dalle violenze della polizia spagnola contro il referendum; il rapper Valtonyc, che in una canzone si permetteva di insultare il re, è fuggito per evitare il carcere; molti politici sono incarcerati o in esilio, e tra di loro Puigdemont, che a sua volta si è distinto per un tweet a sostegno di Israele proprio durante l'aggressione a Gaza.
L'enorme fermento popolare contro il governo spagnolo non può lasciare indifferenti; ma la frattura tra i vertici di CUP e Comuns si riflette su tutta la sinistra anticapitalista, compreso chi cerca di tenersi fuori dal processo istituzionale, mentre dal canto suo il movimento okupa di Barcellona affronta per la prima volta le divisioni legate alla negoziazione e alla regolarizzazione, che i centri sociali italiani hanno subito vent'anni fa. Insomma, è un momento in cui prendere posizione è difficile per tutti; ma più che mai per anarchici e anarchiche, perché in gioco c'è sia il rifiuto di uno stato che la fondazione di uno nuovo.
“Sembra che uno metta a rischio il proprio prestigio, ad immischiarsi in temi così caldi, in cui si scontrano due fronti chiari, anche all'interno dell'anarchismo. Io però non ho nessun prestigio da difendere”, scrive Rodríguez, che prende nettamente le distanze dall'indipendentismo canario e si definisce apatrida. Nelle Canarie, spiega, quando gli anarchici lottavano contro sfratti e sgomberi, gli indipendentisti erano troppo impegnati con proclami astratti di liberazione per offrire un sostegno più che simbolico. Ma non c'è bisogno di essere indipendentisti per sostenere i catalani contro le violenze dello stato. “Credere che dobbiamo adottare le idee di una vittima per riconoscerla come tale significa unire la nostra voce a quella del boia”. Il linciaggio del 1 ottobre avrebbe dovuto svegliarci: “Davanti a noi c'è un popolo disarmato e la polizia che lo schiaccia: non possiamo avere dubbi su quale sia il nostro lato della barricata”; “Opporci alla persecuzione di una minoranza religiosa non ci converte in credenti, come opporci alla persecuzione degli indipendentisti catalani non ci trasforma in nazionalisti”;
“Negli anni 30 e 40 del secolo scorso anarchici e anarchiche stavano con gli ebrei e le ebree, come oggi siamo con le palestinesi; senza identificarci in bandiere, stati, credenze religiose e culturali, il nostro posto è sempre a fianco di perseguitati e oppressi, e contro chi perseguita e opprime. Siamo mapuche quando caricano contro i mapuche, kurdi quando bombardano i kurdi, artisti quando arrestano gli artisti, e così via; perché la nostra carne è fatta di tutte coloro che subiscono la repressione in qualunque parte del mondo. Perché siamo anarchici? Perché chi carica, bombarda, incarcera, è sempre il potere. Oggi, per la stessa ragione, ci tocca essere catalani”.

In difesa di un'identità nazionale?
Ma come possono gli anarchici e le anarchiche lottare in difesa di un'identità nazionale? Secondo Rodríguez, la posizione “ortodossa” che impone di rimanere fuori dal conflitto catalano, è viziata da due grandi impliciti: il primo è “uno sguardo indulgente verso lo stato spagnolo”. “Alcuni nostri intellettuali sono sorpresi e spaventati perché tanti catalani e catalane vogliono abbandonare la nave spagnola naufragata, mentre ciò che dovrebbe sorprenderli è che altri vogliano rimanervi dentro. Fanno riferimento ad un internazionalismo impreciso, che in realtà serve come paravento per non ammettere un peccato inconfessabile: che si sentono a loro agio in una Spagna la cui oppressione considerano tollerabile.
Hanno più paura e usano più inchiostro contro uno stato ipotetico che contro uno reale che ci opprime ogni giorno”. Il secondo vizio è il richiamo ad un'idea di purezza: “L'idea che l'anarchismo sia troppo grande e perfetto per poterlo togliere dal suo piedistallo di cristallo di Swarovski e mescolarlo con cause spurie non mi appartiene. È per questo che in gran parte delle proteste sociali, come la lotta per la casa nell'ultimo decennio, l'anarchismo ha avuto solo un ruolo da comparsa, tranne in alcuni casi isolati. Per intervenire in queste battaglie bisogna lavorare insieme ad abitanti che magari votano per il PP, che sono carichi di mille pregiudizi e che ignorano le idee anarchiche [...]. Crediamo di poter partecipare solo in lotte perfette, con gente perfetta, con una percentuale del 100% di coerenza e dello 0% di contraddizioni. Sappiamo bene che queste condizioni non esistono, per questo non partecipiamo più a niente”. Nell'anarchismo storico, continua, si prendeva sempre parte alle proteste locali, anche a quelle riformiste (è il caso dei martiri di Chicago!), così si entrava in contatto con i bisogni del popolo, cercando di orientare l'azione collettiva in senso antiautoritario. “Non sono diventato militante anarchico per fare il monaco che vigila sulla purezza di un dogma”, conclude.
Rodríguez fa un esempio importante: “Quando emerse il 15M, molte anarchiche disprezzavano il fenomeno considerandolo riformista e pacato, e si rifiutavano di partecipare. L'analisi forse era giusta, ma non la decisione di tenersene fuori. Le cose diventano ciò che lasciamo che diventino, e questo 'lasciamo' include anche noi. Le cose si istituzionalizzano, si politicizzano, in senso negativo, e si sgonfiano via dai livelli rivoluzionari, proprio perché noi rivoluzionari e rivoluzionarie incrociamo le braccia e permettiamo che accada”. Una riflessione simile sul 15M era emersa nel 2011 da alcuni anarchici di Madrid: http://www.alasbarricadas.org/noticias/node/18697, che parimenti suggerivano di lasciar perdere i dubbi e di coinvolgersi nel movimento. Durante il 15M, gli anarchici delle Canarie non furono certo compiacenti, e molti Indignados li consideravano dissidenti se non disturbatori. Ma la loro partecipazione permise loro di radicalizzare alcune posizioni, anche partecipando a mobilitazioni decisamente di classe media, come quelle della PAH (Plataforma de Afectados de la Hipoteca, la rete contro gli sfratti creata da Ada Colau). “La PAH era refrattaria all'occupazione, disinteressata verso gli affittuari, e secondo noi piuttosto istituzionalizzata; non pareva il luogo giusto per depositare il seme dell'anarchismo. Eppure in alcune assemblee dove ci autoinvitavamo per esporre la nostra forma diversa e contrastante di intendere la lotta per la casa, molte persone iniziavano a contattarci”; “chi aveva un ordine di sfratto già firmato lì sentiva che l'occupazione, un tabù per gli attivisti di classe media, era una possibilità molto migliore che andare a dormire per strada”. Citando Malatesta, Rodríguez insiste che “è nostro dovere partecipare alle rivendicazioni parziali e portarle verso luoghi più lontani e più profondi. Da lì vengono le esplosioni sociali, anche se a piccola scala e come allenamento per il futuro. Potrebbero giocare un ruolo simile anche gli attuali CDR?” (Comitati di Difesa del Referendum, ora Comitati di Difesa della Repubblica). (...)

Trasformare l'impossibile in fattibile
E qui si entra in una questione cruciale: la differenza tra l'indipendenza politica e quella economica. “Alla borghesia catalana interessa solo l'indipendenza politica, delle sue istituzioni e delle sue strutture di potere. Per il popolo lavoratore catalano invece quello che conta è l'indipendenza economica e sociale, senza le quali quella politica è inutile, è pura estetica. L'esempio doloroso dell'Africa ci mostra che la presunta decolonizzazione di metà Novecento è stata puramente formale, e ha mantenuto inalterata la struttura coloniale. I paesi africani si vantano della loro indipendenza politica (piuttosto parziale), ma quella economica è completamente proibita. I profitti delle loro risorse non rimangono sulla terra che li produce, sono tuttora spediti alla vecchia metropoli, mentre le loro economie dipendono ancora dalle vecchie potenze coloniali. Gli imperi di allora cedettero l'indipendenza politica solo dopo essersi assicurati che le loro compagnie tenevano ben strette il monopolio dell'economia. La Catalogna potrebbe ottenere domani stesso l'indipendenza senza che la situazione della sua classe operaia cambi per nulla: la sua economia può rimanere dipendente dallo stato spagnolo e dall'Unione europea, e di qui la paura che ha la destra nazionalista catalana di rompere con l'Europa. Qualunque tentativo di indipendenza che consideri solo gli aspetti politici e non quelli economici otterrà solo istituzioni libere con cittadini schiavi”.
La sua posizione, che condivido, non è una posizione di ottimismo o di fiducia, bensì di adesione con grandi riserve. “Noi anarchici e anarchiche dobbiamo approfittare quasi di ogni momento di malcontento popolare per creare tensione e introdurre pressione nella pentola sociale, evitando che le persone si sottomettano alla lealtà istituzionale e alla disciplina di partito. Perché il conflitto si esternalizzi e la sfida al governo si estenda in altre parti dello stato spagnolo, è fondamentale che esso trascenda la sua dimensione nazionale e affronti definitivamente la questione sociale. Durante questo processo il popolo catalano ha dimostrato più volte la sua forza di ribellione e di disobbedienza alle imposizioni, agli ordini e alle leggi. Tutte le forze extraparlamentari attive nelle strade dovrebbero spingere perché disobbedisca anche ai suoi leader, e perché inizi a prendere decisioni sulla società, sulla produzione, sulla distribuzione, sul pane e sulla casa, sul proprio destino, senza delegare a nessuno tranne a se stesso. Sembra complicato, quasi impossibile, ma questo è il nostro terreno: trasformare lo straordinario in quotidiano e l'impossibile in fattibile”.

Stefano Portelli
LAICA (Libera associazione italo-catalana antifascista)
Barcellona





Pergola (Pu)/ Quella bacheca anarchica


Cara redazione,
vi allego la foto di una bacheca che ritengo abbia almeno 70 anni. È in legno, modellata a mano, bellissima. Sta inutilizzata, da decenni sotto la pioggia, sulla parete della casa di un assicuratore di Pergola (PU), sul corso principale. Ho chiesto al sindaco di quella città che la faccia portare dentro il museo (è un pezzo di storia del paese) ma purtroppo il sindaco è di Fratelli d'Italia, quindi di destra estrema, quindi non gli importa nulla di questo pezzo di storia libertaria.
È un vero peccato.
Grazie e ciao.

Alfredo Taracchini
Imola (Bo)




Psicofarmaci e psichiatria/Attenzione all'epidemia

L'istituzione psichiatrica è uno dei principali strumenti che il sistema usa per ostacolare l'autodeterminazione degli individui, per arginare qualsiasi critica sociale e normalizzare quei comportamenti ritenuti “pericolosi” poiché non conformi al mantenimento dello status quo, intervenendo nel complesso ambito della sofferenza.
Assistiamo oggi ad una sistematica diffusione della crisi, sia sociale sia economica e personale; le cui cause vanno ricercate nella società in cui viviamo e nello stile di vita che ci viene imposto e non nei meccanismi biochimici della mente. La logica psichiatrica sminuisce le nostre sofferenze, riducendo le reazioni dell'individuo al carico di stress cui si trova sottoposto a sintomi di malattia e medicalizzando gli eventi naturali della vita.
La psichiatria moderna è diventata una tecnica di repressione tramite psicofarmaci. Che bisogno c'è della camicia di forza quando oggi basta una pillola oppure una siringa?
La psichiatria ha rimodellato, in profondità, la nostra società. Attraverso il suo Manuale Diagnostico e Statistico (DSM), la psichiatria traccia la linea di confine tra ciò che è normale e ciò che non lo è. La nostra comprensione sociale della mente umana, che in passato nasceva da fonti di vario genere, ora è filtrata attraverso il DSM. Quello che finora ci ha proposto la psichiatria è la centralità degli “squilibri chimici” nel funzionamento del cervello, ha cambiato il nostro schema di comprensione della mente e messo in discussione il concetto di libero arbitrio. Ma noi siamo davvero i nostri neurotrasmettitori?
Gli psicofarmaci, oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi e ideativi contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza ed assuefazione del tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti, dalle quali si distinguono non per le loro proprietà chimiche o effetti, ma per il fatto di essere prescritti da un medico e commercializzate in farmacia. Siamo qui a chiedere dunque: qual è la vera differenza fra le droghe illegali e gli psicofarmaci?
Sappiamo bene che le persone trattate con psicofarmaci aumentano la probabilità di trasformare un episodio di sofferenza in una patologia cronica. Molti tra coloro che ricevono un trattamento farmacologico vanno incontro a nuovi, e più gravi, sintomi psichiatrici, a patologie somatiche e a una compromissione cognitiva.
L'allargamento dei confini diagnostici favorisce il reclutamento, in psichiatria, di un numero sempre più alto di bambini e adulti. Oggi a scuola sono sempre di più i bambini che hanno una diagnosi psichiatrica e ci è stato detto che hanno qualcosa che non va nel loro cervello e che è probabile che debbano continuare a prendere psicofarmaci per il resto della loro vita, proprio come un “diabetico che prende l'insulina”.
Poiché la risposta psichiatrica è sempre la stessa per tutte le situazioni - diagnosi-etichetta e cura farmacologica - crediamo che rivendicare il diritto all'autodeterminazione in ambito psichiatrico significhi “riappropriarsi” della follia e della molteplicità di modi per affrontarla, elaborandola in maniera autonoma.
Siamo contro l'obbligo di cura e contro il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), non condanniamo a priori l'utilizzo di psicofarmaci ma pensiamo che spetti all'individuo deciderne in libertà e consapevolezza l'assunzione.
Il TSO, la cui applicazione avviene nei reparti ospedalieri preposti (i cosiddetti SPDC), ha effetti coercitivi che vanno ben oltre le mura della stanza d'ospedale: è usato, presso i CIM o i Centri Diurni, anche come strumento di ricatto quando la persona chiede di interrompere il trattamento o sospendere/scalare la terapia; infatti oggi l'obbligo di cura non si limita più alla reclusione in una struttura, ma si trasforma nell'impossibilità effettiva di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico per la costante minaccia di ricorso al ricovero coatto cui ci si avvale alla stregua di strumento di oppressione e punizione.
Per questo ancora una volta diciamo no ai TSO, perché i trattamenti sanitari non possono e non devono essere coercitivi, affinché nessuno più debba morire di psichiatria. Sentiamo pertanto l'esigenza di contrastare ancora una volta il perpetuarsi di tutte le pratiche psichiatriche e di smascherare l'interesse economico che si cela dietro l'invenzione di nuove malattie per promuovere la vendita di nuovi farmaci.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org
335 7002669





“A”/La rivista che disseta
Milano, 2 giugno 2018 - Nella sede dell'Ateneo Libertario,
in viale Monza 255





Dal carcere di Massama (Or)/ Io, ergastolano ostativo

Non si sente più vergogna, da quando!? Abbiamo perso del tutto il pudore?
A noi miseri mortali dovrebbe essere lo stato a indicarci la via giusta della rettitudine, dell'onestà, del pudore, le cose migliori e giuste per rendere il popolo fiero di appartenere a quella società rappresentata da “galantuomini!!” Ma non è il caso del nostro stato... ma voi ve lo immaginate uno stato che si annovera fra i paesi “civili” che si permette di tenere per quasi quarant'anni di fila un uomo rinchiuso nelle sue patrie galere!?
Bene io sono da oltre 38 anni in carcere essendo stato arrestato nel maggio 1979, carcerazione interrotta solo da dieci mesi di latitanza, periodo che va dal giugno 1986 ad aprile 1987. Dov'è la civiltà, dov'è l'orgoglio di uno stato? Per me esiste solo quella vergogna che lui non sente.
Essendo un ergastolano ostativo, io sono escluso da qualsiasi beneficio. A me e a quelli come me hanno tolto la speranza. Bene, vi chiedo, ma voi la vedete una persona vivere senza speranza? E c'è da chiedersi anche in che modo può vivere uno senza speranza. Quali trasformazioni può subire vivendo senza speranza? Essendo la speranza il sale di ogni cosa, della vita stessa. Non sono cose per cui uno dovrebbe vergognarsi?
Io vi sto parlando del mio caso, del mio paese, ma il mondo intero oggi vive nella menzogna senza sentirla. Abbiamo perso dignità, rispetto, viviamo senza decoro, viviamo in una società persa, dannata, dove gli uomini sono destinati ad aggredirsi gli uni con gli altri senza distinzione di razza o ceto...
Ma, tornando alla nostra “ostatività”... questa è parte a tutti gli effetti della tortura. Da decenni continuano senza sosta a torturarci la mente e l'anima, e in alcuni di questi “musei” di viventi la tortura è anche fisica. Ormai, anche se dicono che c'è una legge sulla tortura che dice di regolamentarla, questa continuerà a essere parte, come lo è sempre stata, della costituzione mentale delle persone, mentre nelle carceri non si osserva il vivere civile di cui parla la vera costituzione.
Lo stato ci ha tenuti per anni appesi alla riforma dell'ordinamento penitenziario, annunciando modifiche a tutto campo, dalle regolamentazioni a proposito dell'art. 4 bis (ostatività), alle pene alternative, al prolungamento del tempo delle telefonate, a quello della liberazione anticipata ecc. ecc. Siamo stati illusi fino alla vigilia delle votazioni del 4 marzo. Poi tutto si è concluso con un nulla di fatto. Tutti hanno avuto paura di perdere voti e allora... meglio non aprire le porte dell'inferno-carcere, tanto a esserci rinchiusi sono i poveracci, una razza inferiore, appartenenti quasi tutti al sud del mondo, una razza da eliminare. E chi se ne frega!!!?
Quante spese inutili, i lavori per un'idea di riforma, per arrivare a delle conclusioni che sono ora lasciate a marcire in un cassetto. La prossima legislatura, sono sicuro, farà lo stesso: nuove spese per arrivare nuovamente a una conclusione di nulla di fatto come oggi.
Anche oggi si parla a sproposito di costruire nuove carceri, della necessità di pena certa... se avessero conosciuto di persona la pena di Mario Trudu si sarebbero accorti che la pena è più che certa, è talmente certa che di tanta certezza oggi si muore. Io in questi “pochi” anni di carcerazione, circondato dal nulla e dalla solitudine, per non impazzire del tutto ho cercato di tenermi impegnato, ho scritto vari libri come la mia autobiografia “Totu sa beridadi” (tutta la verità), “Cent'anni di memoria” racconto epico del mio paese (usanze e costumi) casa editrice Stampa Alternativa, e vari altri racconti che ancora non ho pubblicato. Ho anche fatto tanti scarabocchi che molti chiamano disegni,che sono stati esposti in mostre... (cito solo le ultime, quelle della Galleria il Transito, ad Arco, nel palazzo Libera di Villa Lagarina, tutte e due in provincia di Trento), organizzate da miei amici che così riescono a farmi evadere nell'unico modo possibile, dando libertà alle mie parole e alle mie strampalate opere, rendendo anche me dopo quasi quarant'anni di carcere un uomo libero.

Prigione di San Giminiano (Si), luglio 2015

Mi hanno mandato la registrazione di una serata d'inaugurazione della prima mostra: alla fine di una delle serate Laura, una socia del Circolo Cabana, ha letto una mia poesia interpretandola straordinariamente, e Stefano ha cantato una canzone accompagnato dalla sua chitarra. Credo che avesse scritto quelle parole su mia misura, dove oltre a tante altre cose diceva che: “La vita scorre ancora a un passo dal suo fosso”, e ancora “se potessi uscire da questa fortezza mi butterei nel fiume, con tutta la mia tristezza”. Infine la cosa più bella, che urlando mi ha dato la libertà: “stasera io mi son calato dalle sbarre di questo cesso”.
C'è stata l'amica signora Armanda e il suo splendido intervento, sono intervenuti anche tanti altri ragazzi e devo dire che sono stati tutti bravissimi, splendidi. Mentre li ascoltavo sono stato investito da una fortissima emozione.
Menomale che sono circondato da tantissimi amici che mi seguono, dandomi tanta forza da superare tanta indicibile disumanità.
Da pochi giorni mi è stata negata la mia richiesta di trasferimento nel carcere di Nuoro. Il motivo che da sempre recitano a memoria è che “per motivi di sicurezza non posso essere trasferito”. Come se ogni giorno stessi passando a ferro e fuoco il mondo!?!, E menomale che a Badu 'e Carros, il carcere di Nuoro, è stato costruito un braccio nuovo proprio per l'alta sorveglianza. Struttura ancora non riempita. Non vi sembra una contraddizione tirare in ballo la sicurezza? È come se lo avessero costruito, quel braccio nuovo, a truffa: non valido allo scopo!
Anche i permessi continuano a negarmeli dicendo che il mio ergastolo è ostativo, ma io da sempre ribadisco che non ho commesso nessun reato ostativo, per il semplice motivo che quando sono stati commessi i reati per i quali sono stato condannato non esisteva ancora nessun reato ostativo. La corte suprema di Cassazione le mie sentenze di condanna le mandò definitive prima che venisse varato l'art. 4 bis (quello che comporta appunto l'ostatività).
Senza contare che l'art. 4 bis è incostituzionale, com'è incostituzionale l'avermelo applicato retroattivamente, perché tradisce i principi dell'art. 27 e 25 della Costituzione, cioè la pena deve tendere alla rieducazione, al reinserimento del condannato, e nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso.
Ma dov'è tutto questo se l'art. 4 bis ti priva di qualsiasi speranza? Se dal giorno della tua sentenza sai che la tua cella sarà la tua tomba, che lì dovrai per il resto dei tuoi giorni vivere, mangiare e morire.
Se i miei reati li avessi commessi mentre l'art. 4 bis era già in vigore avrei avuto “poco”da lamentarmi perché avrei commesso il reato sapendo a quali conseguenze andavo incontro, anche se una condanna del genere è sempre tremendamente sbagliata...
Molti pensano che la pena di morte sia la condanna peggiore. Errore madornale! Non esiste altra pena che può uguagliare l'orribilità dell'ostatività. Come sempre dico, per affrontare la pena di morte ci vuole solo un attimo di coraggio, mentre per la pena dell'ergastolo ostativo ci vuole coraggio per il resto dei tuoi giorni.
Alla domanda: che cos'è l'ergastolo ostativo? Risposi: L'ergastolo ostativo è l'annientamento dell'individuo, se non hai il coraggio di affrontare la morte suicidandoti, ti rimarrà appiccicato addosso per anni, per decenni fino all'ultimo dei tuoi giorni, non illuderti pensando che un giorno possa morire ridandoti la libertà, non può essere, il suo respiro si spegnerà insieme al tuo, morirete nello stesso istante, tutti e due morirete in prigione, siete uno incatenato all'altro, uscirete insieme in una sola bara. Questo è l'ergastolo ostativo.
A gennaio 2017 ho presentato domanda di grazia al Signor Presidente della Repubblica, ma forse è finita su qualche altro pianeta, se qualcuno conoscesse l'indirizzo di qualche extraterrestre e volesse fornirmelo proverò a chiedere informazioni, anche se credo che parlino una diversa lingua e non sarà facile capirci. Magari per scrivere quella domanda di grazia ho usato una penna con una carica d'inchiostro invisibile all'occhio degli abitanti di questo pianeta... comunque sia non ho ancora ricevuto risposta.
Potrei parlarvi di tanta altra vergogna, ma continuare a insistere... è tanta la vergogna che sento, e questo accade perché io faccio parte degli umani con tutti i sentimenti a posto, a differenza di chi ancora continua a ostinarsi a tenermi dentro con le menzogne...
Cordiali saluti

Mario Trudu
Presone de Massama
su 23 de mau de su 2018





Ricordando Massimo Caroldi/ Quel flauto magico che non c'è più

Lo scorso 26 maggio è morto a Milano, dov'era nato 58 anni fa, Massimo Caroldi, musicista, disegnatore, con cui incrociammo i nostri percorsi quando “utilizzammo” alcuni suoi bei disegni per qualcosa di nostro su Fabrizio De André. Era persona cordiale, uno spirito libero. Lo incontrammo poi più volte alla libreria Odradek, quella milanese, gestita dai comuni amici (e compagni) Anna Rocco e Felice Accame. Ecco il ricordo che ci ha fatto avere Romano Giuffrida, altro comune amico e compagno.

Massimo “flauto magico” Caroldi, non c'è più. Dov'è andato? Se, come recita la canzoncina disneyana: “i sogni son desideri”, allora anche i desideri possono farsi sogni e quindi, desiderando e sognando, Massimo, noi che lo abbiamo conosciuto e che gli abbiamo voluto bene, lo vediamo in un luogo molto simile a una delle isolette greche che lui amava, dove, all'ombra del berceau di una taverna, con l'immancabile “panama” sul capo, suona il suo flauto finalmente insieme ad Astor Piazzola al quale, per anni, con il suo flauto aveva dato voce e cuore (insieme ai TangoSeis, il sestetto che aveva contribuito a fondare nel 1995 e che per anni ha eseguito in Italia e in Europa la musica del musicista argentino).

Massimo Caroldi (anni 2000-2001)

Davanti a un calice di bianco e al suo pacchetto di Camel, lo vediamo poi discutere con i suoi amici, sia i frequentatori della taverna stessa – magari sconosciuti fino a un attimo prima: Massimo era capace di fare amicizia con tutti... meno che con i fascisti e i reazionari in genere – sia con quelli che aveva eletto “suoi amici” da sempre: Coltrane, Nono, Pazienza, Monteverdi, Fontana, Escher, Wittgenstein, Facchetti, Muddy Waters, Syd Barret, e con loro confrontare riflessioni su musica, pittura, grafica, politica, fumetti, rock, calcio, filosofia, vini, gastronomia. Lo vediamo poi ridere con Fabrizio De André mentre gli spiega i disegni che aveva dedicato alle sue canzoni (nel libro: “De André: Gli occhi della memoria”). Ecco dove vediamo Massimo, con i suoi quotidiani e con il tascabile di spy story nella tasca della giacca: in un luogo dove finalmente ha sciolto i nodi esistenziali che nemmeno la sua arte era riuscita a districare, quei nodi che gli avevano fatto acquistare sin da ragazzino, con data da definirsi, il biglietto per raggiungere quest'isola.

Romano Giuffrida





Dibattito antifascismo/ Il nostro “restare umani”

Cara Redazione,
anche se in ritardo, mi permetto d'inviarvi alcune riflessioni sul tema dell'antifascismo.
Mi ritrovo perfettamente nella titolazione della rivista di aprile: “l'antifascismo è innanzitutto una scelta etica” purchè, appunto, “praticata giorno per giorno sul territorio”, mentre alcuni articoli pubblicati mi sembrano un po' glissare su questo punto, sfumando in un'opposizione soprattutto culturale.
L'antifascismo significa, ovviamente, contrastare il fascismo e, riprendendo le parole di Sandro Pertini “il fascismo non è fede politica, come per la resistenza li ho combattuti e li combatterò... Con loro non puoi porti il problema se quello che faccio è legale o illegale, il fascismo non ha dignità d'esistere”. Se infatti si accetta l'idea demagogica che il fascismo sia un'opinione come un'altra e quindi meritevole di rispetto e cittadinanza, già significa aprire le porte all'ideologia della sopraffazione e, in teoria, contraddire i principi della democrazia.
Tale opposizione può percorrere strade diverse, ma la sua etica implica pratiche coerenti nella vita quotidiana, ben oltre paradossali petizioni. Sul piano culturale, banalmente, bisognerebbe iniziare confutando le affermazioni razziste che si sentono al bar, staccando gli adesivi nazisti davanti alle scuole, cancellando sotto casa le scritte inneggianti ai lager, protestando con l'edicolante che espone e vende il calendario di Mussolini, non accettando di ridere alle battute xenofobe o sessiste sul posto di lavoro...
Riguardo poi il confine tra una pratica violenta e una resistenza non-violenta, mi ritengo abbastanza laica pur senza mitizzare ne' l'una ne' l'altra; ma tornando all'etica, semmai rifletterei sul fatto che la superiorità morale di un comportamento ha come presupposto il fatto che la controparte abbia la stessa scala di valori. In altre parole, un nazista non riconosce alcuna dignità a chi adotta la resistenza passiva, anzi lo ritiene “spiritualmente” inferiore e quindi la pratica gandhiana non ha alcun possibilità di deterrenza nei confronti dei soprusi ed anzi finisce per incoraggiare le prepotenze. Uno dei resistenti del ghetto di Varsavia nel 1943, Marek Edelman, a tal proposito commentava che “la violenza è l'unico linguaggio che capiscono i fascisti”.
Per cui, la pratica deve essere all'altezza della nostra prospettiva di liberazione umana. Parlando con un'amica genovese riguardo le tre sedi nazifasciste che si sono installate in città, una delle quali in quella piazza Alimonda, dedicata ad un partigiano e che vide la morte di Carlo Giuliani, riconosceva che la colpa era collettiva. Ossia di quanti a sinistra hanno sottovalutato e tollerato le avvisaglie e le prime iniziative dell'estrema destra, nella città medaglia d'oro della Resistenza e della rivolta antifascista del luglio Sessanta.
Ogni iniziativa che vada nel senso di una diversa socialità, della solidarietà orizzontale, dell'autogestione dal basso è certamente l'alimento di ogni alternativa libertaria, ma tutto questo non può coesistere con strutture che a due passi da noi seminano quotidianamente odio e suprematismo, aggrediscono le diversità, fomentano guerre. Appunto, l'etica libertaria non è compatibile con una simile convivenza: il nostro “restare umani” va difeso, con ogni mezzo e intelligenza necessaria, anche per chi è più inerme e indebolito di noi.

Cordialmente e liberamente

Rosy Escalar
Bussoleno (To)




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Luca Vitone (Berlino – Germania) 100,00; Alessandro Spinazzi (Venezia Marghera), 50,00; Giulia Bianchi (luogo non specificato) 15,00; Marco Gottero (Torino) per versione pdf, 4,00; Roberto Chiacchiaro (Milano) 100,00; Alessandro Spinazzi (Venezia) 10,00; Piero Cagnotti (Dogliani – Cn) 10,00; Marco Buraschi (Roma) 60,00; Stefano Artibani (Roma) 10,00; Angelo Andreozzi (Roma) 10,00; Ermes Vedovelli (Boville Ernica – Fr) 5,00; Francesco Tomasin (Trieste) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Misato Toda, 500,00; Marc Rives (Firenze) 100,00; Roberto Braida (luogo sconosciuto) per Pdf, 4,00; Diego Guerrini (Roma) per Pdf, 4,00; Angelo Andreotti (Roma) 10,00; Roberto Guidi (Forlimpopoli – FC) 10,00; Antonio Abbotto (Sassari) 10,00; Settimio Pretelli (Rimini) in ricordo di Antonio Tarasconi, 20,00; Stefano Artibani (Torino) 10,00; Antonio Cecchi (Pisa) 10,00; Diego Fiorani (Concesio – Bs) 10,00. Totale € 1.072,00.

Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo anche le quote eccedenti il normale costo dell'abbonamento. Per esempio, chi ci manda € 50,00 per un abbonamento normale in Italia (che costa € 40,00) vede registrata tra le sottoscrizioni la somma di € 10,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo di cento euro). Valeria Nonni (Ravenna); Gianluigi Tartaull (Ravenna); Angelo Carlucci (Taranto); Alberto Castelli (Lecco). Totale € 400,00.