rivista anarchica
anno 48 n. 423
marzo 2018


arte

“L'arte è libertà”

di Franco Bunčuga

Con questo titolo si è tenuta recentemente a Milano una bella mostra di Enrico Baj. Pezzo forte, il suo gigantesco I funerali dell'anarchico Pinelli, con una storia alle spalle che parte dal 1972 e, dopo 45 anni, non si è ancora conclusa. Troppo sovversivi.

Galleria Marconi (Milano), 2000 - Enrico Baj e Franco Bunčuga
alla prima esposizione de I funerali dell'anarchico Pinelli


La mostra 'L'arte è libertà', che la Fondazione Marconi ha dedicato ad Enrico Baj dal 7 novembre scorso al 17 febbraio di quest'anno, organizzata in collaborazione con l'Archivio Baj di Vergiate (Va), ha questa volta privilegiato un taglio decisamente politico e posto l'accento sull'intento di denuncia sociale dell'artista milanese contro ogni forma di potere e sopraffazione. Il titolo dell'esposizione rende piena giustizia all'opera di un artista che amava affermare che “La pittura è una via – una via che ho scelto – verso la libertà. È una pratica di libertà.” Libertà che per Baj significava espressamente anarchia.
In un'intervista del 1999 a Cristiano Gilardi, Baj così recitava: “Io penso che l'arte moderna in se stessa nasca da una pulsione anarchica, da quella famosa frase di Dante: libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta, Purgatorio, primo Canto, quando Virgilio incontra Catone che si era tolto la vita per non sottostare all'imperatore Cesare. Io ho fatto un grande monumento a Bakunin, di cui è stato realizzato un piccolo multiplo di quaranta esemplari, il basamento reca questa frase.” Si riferiva al progetto di monumento a Bakunin del 1996, frutto di un concorso a Berlino (un blocco fessurato di marmo di Carrara con il nome di Bakunin), pensato per il lago Maggiore, nei pressi della villa della Baronata, la dimora ticinese dell'anarchico russo. Uno dei tanti omaggi di Baj alla storia e all'idea anarchica.
Assiduo frequentatore dello Studio Marconi, Enrico Baj è stato uno degli artisti più rappresentati e amati da Giorgio Marconi, suo amico e gallerista, che più volte ha organizzato sue mostre personali. Fu proprio Giorgio Marconi che acquistò l'opera I funerali dell'anarchico Pinelli versando alla vedova Pinelli, su indicazione di Baj, il corrispettivo del valore del quadro in segno di solidarietà. E in questa esposizione, l'installazione dedicata a Pinelli non poteva non essere il culmine del percorso espositivo.
Per evidenziare che l'intera opera di Baj è un accorato grido di denuncia contro gli abusi del potere la mostra si apriva con il “Personaggio urlante” (1964), recentemente esposto al Cobra Museum di Amstelveen (Paesi Bassi). Denuncia forte e decisa e spesso veicolata dall'ironia beffarda del maestro della Patafisica che amava ricordare come il termine baj in polacco significasse “cantastorie”.
L'esposizione di Milano ha seguito un ordine più tematico che cronologico. Dai primi meccano degli anni Sessanta si passava a una selezione dei suoi famosi Generali e alla Parata a 6 (1964), mentre nell'ultima sala al pianoterra campeggiava l'opera monumentale dal titolo: I funerali dell'anarchico Pinelli (1972). Contigui ai funerali erano esposti alcuni teli tratti dal ciclo dell'Apocalisse, concepito da Baj come un'opera composita che rimanda ai suoi maestri Picasso, Arp, Pollock, Seurat e tanti altri. Nato dopo l'esperienza della Pittura Nucleare, il ciclo prende le mosse dagli Otto peccati capitali della nostra civiltà secondo le teorie di Konrad Lorenz e rappresenta lo specchio di un mondo in degrado, “la rivelazione del male etico ed estetico della nostra società” (Gillo Dorfles 2001).
Il percorso si concludeva al secondo piano con una selezione di opere del periodo nucleare (tra cui Due personaggi notturni e Piccolo bambino con i suoi giochi del 1952), tema particolarmente caro a Baj sin dagli esordi, perché “non si può rimanere indifferenti alla bomba atomica, percepita come mostruosità e contrabbandata come futura fonte di energia”.
Dal pericolo nucleare a quello del militarismo, dagli abusi del potere ai molti mali della contemporaneità, si passano così in rassegna tutte le grandi paure del nostro tempo, alcune delle quali tristemente attuali.
Nel testo di presentazione della mostra si usa per i funerali di Pinelli il termine installazione, forma artistica che Baj non apprezzava, così come non amava i quadri grandi che considerava non a scala umana, troppo vicini alle esigenze celebrative di un qualsivoglia potere, politico, religioso o di casta. E invece quest'opera, composta da diverse parti assemblate, ha richiesto tre anni di lavoro ed è lunga 12 metri e si espande nello spazio attraverso gli stracci deposti davanti alla tela sino a coinvolgere gli spettatori. L'opera dialoga alla pari con i due grandi capolavori dell'arte moderna ai quali rimanda: i Funerali dell'anarchico Galli di Carrà e Guernica di Picasso da cui Baj riprende alcune figure rivisitando in chiave grottesca personaggi reali. Come molti grandi artisti, Baj in questa che si può definire la sua opera più importante per dimensione, intensità ed unità stilistica contraddice molti dei suoi principi basilari, ma con uno scopo preciso: fissare per sempre nel tempo la vergogna dell'uccisione di Pinelli per mano dello stato, con un'opera di denuncia e contemporaneamente celebrativa della potenza dell'idea di libertà. Come nella dedica al monumento a Bakunin.

Palazzo Reale (Milano), 2012 - Particolare
dell'installazione de I funerali dell'anarchico Pinelli

Profondo impegno sociale e politico

L'opera doveva essere esposta nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale il 17 maggio 1972 ma come sappiamo per una fatale coincidenza (o imprevista sincronicità) il giorno stesso dell'inaugurazione fu ucciso il commissario Luigi Calabresi e la mostra fu rinviata.
Ci sono voluti quarant'anni prima che fosse esposta nuovamente a Milano in quella stessa sede. Lo stato non dimentica: l'opera che Marconi ha proposto più volte di donare ai musei milanesi, non trova una sede, ancora oggi il potere trema difronte all'urlo di denuncia che reclama la verità.
Tutta l'opera di Baj è intrisa di un profondo impegno sociale e politico, elemento per lui imprescindibile per un'opera d'arte veramente moderna, che affonda in quelle radici che lui ben descrive nei suoi testi teorici, dalla feconda sintonia di Courbet e Proudhon, passando per Pissaro, gli impressionisti, i neo-impressionisti Seurat, Signac, per arrivare al Novecento dei primi Futuristi e passando attraverso il Dada ed il Surrealismo giunge sino al Situazionismo e all'esperienza dei Co.Br.A. Tutti movimenti permeati da un forte spirito libertario se non addirittura da una diretta militanza anarchica.
Sperimentatore di inedite tecniche e soluzioni stilistiche, Enrico Baj promuove nel 1951, assieme a Sergio Dangelo, il Movimento Nucleare. Nel 1953 conosce Asger Jorn con il quale fonda il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista, schierandosi contro la forzata razionalizzazione e geometrizzazione dell'arte. A partire dagli anni Cinquanta è presente sulla scena internazionale e, in particolare, espone regolarmente a Parigi. Fa il suo debutto negli Stati Uniti dove espone nel 1960 e sin dal 1967 inizia a collaborare con lo Studio Marconi che oggi ospita la sua retrospettiva. In Francia André Breton lo invita a esporre con i surrealisti e nel 1963 gli dedica un saggio pubblicato sulla rivista “L'oeil” di Rosamond e George Bernier.
Baj era permeato da un forte spirito caustico ed ironico nel giudicare le deviazioni degli artisti contemporanei e non perdonava niente a nessuno. Sempre nell'intervista citata così afferma: “Molte avanguardie si sono perse, invece, in giochi formali. E tutta l'arte moderna è quasi sempre avulsa da un pensiero rappresentativo di tipo socio-antropologico. Le grandi opere, tipo il mio Pinelli, si contano sulle dita di una mano. Perché l'altra grande opera a cui il Pinelli si rifà completamente è Guernica di Picasso: la luce della finestra o le figure del Pinelli, della moglie e delle figlie, sono tratte da quell'opera. Ma tanti hanno fatto opere pretestuosamente o date con titoli di tipo politico-sociale, ma che non hanno nulla a che vedere con questo. Beuys, per esempio, ha fatto una performance raccogliendo dei volantini durante una manifestazione. Ma sono tutti gesti formali di accumulazione di detriti in cui largamente consiste l'arte moderna. Andare a raccogliere dei volantini di un corteo che inneggia, metti, alla sinistra, non vuol dire fare opera diffusionista, vuol dire che lui, nella sua posizione di artista concettuale elitario, approfitta per smerciare questo come opera d'arte. Fa l'opera dello spazzino, solo che lui può proporre di esporla a un museo. Così succede spesso.
Come quando ho letto un articolo sulla rivista Libertaria diretta da Luciano Lanza in cui un anarchico parlava alla Biennale di Harald Szeemann. Io ho subito protestato: Harald Szeemann anarchico? Ma questo ha diretto cento comitati delle mostre più ufficiali del mondo; fa parte del sistema nel modo più assoluto, e non basta che lui mi racconti che è anarchico, perché questo può confondersi con una pulsione casinista; con un certo esser liberi, che poi piace anche ai borghesi avere l'artistoide matto che si ubriaca, vocia un po' e osa dire delle cose non troppo per bene. Però, anche un suo predecessore, Pontus Hulten, si dichiarava anarchico, ed era un anarchico che a Stoccolma aveva accesso permanente in Casa reale.
È vero che le Case reali svedesi sono molto meno noiose di quelle che noi conosciamo, cioè hanno una non pretesa di esibizione continua dei loro privilegi (è già qualcosa), ma lui si dichiarava anarchico di Casa reale, e a me ha fatto un bello scherzo, quando nel '72 il mio Pinelli è stato censurato, mi ha detto di volerlo esporre al museo di Stoccolma, come di fatti è stato. Ma quando vado all'inaugurazione trovo, nella stanza vicina, una banda che suona Jazz in modo fragorosissimo, e lui, vedendomi molto sgomento, si avvicina e mi dice che era una manifestazione già prevista e che non poteva evitarla, ma secondo me l'aveva fatto apposta, per distrarre il pubblico dall'opera. La cosa è stata poi confermata perché alla mostra si è presentato un italiano che era fuggito in Svezia per i fatti di Piazza Fontana: magro, vestito appena nonostante il freddo di quel luogo,... aveva l'aria del vecchio libertario, e il direttore si avvicina e mi dice: ma adesso non verranno anche gli anarchici a questa mostra?! Io sono rimasto talmente di merda, ma lasciam perdere”.

Enrico Baj, 1996 - Progetto di monumento a Bakunin

Il suo incedere curioso

Naturalmente ero io che parlavo nel mio articolo “l'anarchico biennale” nel numero 1 di Libertaria del 1999 del definirsi anarchico di Harald Szeeman che avevo intervistato nel suo studio di Maggia nel Canton Ticino in occasione della sua direzione della XLVIII Biennale di Venezia dello stesso anno. Baj era impietoso nei confronti di chi, nel mondo dell'arte, si definiva anarchico per vezzo, per opportunismo o per darsi un elegante patina di 'alternativo'.
Ho incontrato Baj casualmente un paio di volte negli ani '90 a Venezia in occasione delle vernici della Biennale. Ci frequentavamo abbastanza regolarmente in quegli anni in occasione di eventi collegati al Centro Studi ed al movimento milanese e nell'occasione della pubblicazione del numero monografico di Volontà sull'arte da me curato nel 1988 per il quale sollecitai un suo contributo. O in Svizzera in occasione della presentazione del suo monumento a Bakunin ed a volte nel suo studio di Vergiate mentre lavorava.
Ricordo con piacere le chiacchierate di arte e anarchia con Luciano Lanza, Arturo Schwarz e Jan Jaques Lebel davanti al suo Pinelli nella prima apparizione che fece a Milano nel 2000 sempre alla galleria Marconi. Nella maniera un po' caustica che gli era propria, quando lo incontrai all'interno della Biennale, nel 2001 mi disse: “Che cosa vuoi che ti dica, questo è il destino dell'arte oggi: divenire una qualche forma di maquillage del potere. Tutto questo non ha niente a che fare con le arti plastiche. Szeeman è stato un ottimo organizzatore di mostre, ma ormai fa parte anche lui degli ingranaggi del potere. È stato riconfermato perché l'edizione scorsa della Biennale ha fatto quasi centomila ingressi e si spera che in questa edizione ne faccia di più”. Voleva rinfacciarmi, col suo solito garbo, ma in modo diretto, ciò che avevo scritto su Libertaria e lui considerava del tutto inappropriato. E per conferma aggiunse: “Tutte queste opere sono immondizia, giochini del mercato, ma non voglio criticare troppo, so che a te questo genere di cose piacciono...”. Come a dire: “tu che sei più giovane mi consideri passato, anacronistico, ma ti dovrai ricredere...” O Forse semplicemente, vanesio come ogni artista che si rispetti, in realtà voleva dirmi “vedi anche stavolta non mi hanno invitato, non riconoscono il mio genio...”.
Proprio in quegli anni iniziava il recupero della 'pittura' nel mondo dell'arte e contemporaneamente la crisi dei video e delle varie forme di installazioni, non so chi fosse più moderno in quel momento, lui o io, ciò che è successo in seguito in parte gli ha dato ragione. Abbiamo dovuto aspettare il 2013, dieci anni dopo la sua morte per vedere le sue opere alla Biennale, la cinquantacinquesima, quella curata da Massimiliano Gioni come ho testimoniato nell'annuale di Libertaria del 2014, L'anarchismo oggi, un pensiero necessario.
Un po' rimpiangeva, credo, l'epoca felice – definitivamente tramontata già in quell'epoca – del connubio complice tra artista, mercante/gallerista colto e committenza privata, triangolo che aveva retto i destini dell'arte europea dalla seconda metà del XIX e buona parte del XX secolo. Connubio che si basava anche sull'affinità culturale, sull'amicizia ed il reciproco rispetto e collaborazione tra l'artista ed il suo gallerista, come fu il caso di Baj con Giorgio Marconi, uno degli ultimi splendidi dinosauri di quel mondo.
Ricordo in quell'occasione il suo incedere curioso nei locali della Biennale, istituzione che certo non amava, osservando tutto in silenzio per capire, conoscere e giudicare, con rispetto per la mia differente attitudine, che da buon maestro cercava dialogicamente di correggere. Un atteggiamento che ben lo definisce: il rispetto della differenza, la voglia di capire il contemporaneo, la coscienza – a volte messa a dura prova – di avere percorso una strada fondamentale nell'arte che non voleva abbandonare e di cui sino alla fine ha voluto dare testimonianza: l'arte della libertà. Pratica quella che in quegli anni era stata sommersa dall'arte del mercato, del conformismo, della sperimentazione formale e tecnica vuota di contenuti, da video, performances, dal vanesio post-moderno disposto a vendere il post-eriore a qualsiasi committente danaroso e ignorante. Estetica da Colpo Grosso o da Trump Tower, via olgettine berlusconiane.

Enrico Baj, 1965 - Meccano B-21,
courtesy Fondazione Marconi

Dis/fare l'arte

Nato nel 1924 Baj faceva parte di quella generazione che rifuggiva da ogni implicazione mistica, spirituale, esoterica o alta del fare artistico, che vedeva nella creatività ludica e nella pratica artigianale i fondamenti del mestiere. Ricordo quando criticò la Biennale del 1986 curata da Maurizio Calvesi e la sezione dedicata all'alchimia curata dall'amico Arturo Schwarz, contiguo alla sua vena provocatoria surrealista e patafisica con il quale condivideva le simpatie per l'ideale anarchico. Sulla rivista IMAGO dell'autunno 86 Baj nell'articolo Confusionismo alchemico alla biennale così scrive: “L'arte è forse quell'attività che oggi meglio di ogni altra si presta all'invenzione alchemica: infatti si tratta di tramutare in oro, ovverosia denaro, tele e colori spesso di cattiva qualità” e conclude: “La moderna scienza atomica e nucleare può, almeno in teoria, operare trasmutazioni e quindi porsi ai nostri occhi quale vera pietra filosofale definitiva. Ma in realtà la conoscenza non ci ha guidati verso la libertà, come sostiene Arturo Schwarz. Infatti la moderna scienza nucleare, che tanto vicina appare ai concetti alchemici, dopo Hiroshima e Nagasaki, ci ha offerto Three Miles Island e Chernobyl: oltre a molta energia per accendere quelle lampadine che potrebbero in teoria indicarci il percorso dalla nigredo alla luce. Fiat lux e... Fiat Uno.” Caustico ed incisivo, lui, fondatore dell'Arte Nucleare, non poteva avere una posizione più netta di rigetto di ogni tentativo di nobilitare il fare artistico attraverso discipline o teorie che gli erano a suo parere del tutto estranee.
Guardando dal punto di vista dell'oggi la sua opera ci si rende conto dell'importanza fondamentale del suo percorso per l'arte italiana, da grande solitario e come tutti i grandi difficilmente imitabile, prova ne sia che non ha dato seguito ad epigoni o scuole. Importante anche nella sua veste di critico impietoso del sistema contemporaneo dell'arte che riteneva irrimediabilmente degenerato. Estremamente attuali queste sue considerazioni tratte dal suo intervento su dis/fare l'arte, numero monografico di Volontà 4/88 pag.38 : “Il pubblico accorre numeroso alle mostre, perché così si usa, perché l'arte è status symbol che da promozione sociale e culturale e ha sostituito un po' quella che una volta era la pelliccia di visone per la moglie del bottegaio. Eppure il pubblico è separato dall'arte, oggi più che mai. La spiegazione è semplice quanto l'uovo di Colombo. Come l'anarchia non può e non deve essere confusa con l'abuso, con la licenza, col caos, così la libertà dell'arte non può tramutarsi in arbitrio. L'arbitrio non è spiegabile, non è comunicabile. Lo si può solo imporre con la sopraffazione. È proprio questo il rischio dell'arte attuale, è quel suo venir accreditata non dalla cultura ma dalla struttura pubblica, dai suoi funzionari e dalle pressioni politiche e burocratiche.”

Enrico Baj, particolare dell'opera I funerali dell'anarchico Pinelli
La lanterna che illumina simbolicamente la scena tragica

Il disprezzo per il bronzo

Baj non si tira indietro nello stesso intervento neppure quando si tratta di fare i nomi, anche eccellenti, nel panorama dell'arte contemporanea, degli artisti che si spacciano per “rivoluzionari” per compiacere i mercati: “Artisti come Giovanni Anselmo, Giovanni Pennone e Tony Craig continuano ad esporre grosse pietre “artisticamente” disposte, oppure umiliano la vegetazione e l'agricoltura e la botanica, tramutandole in falsi alberi, false patate e false barbabietole, il tutto fuso in bronzo come nei cimiteri, e come abbiamo potuto ammirare alle Biennali veneziane del 1986 e del 1988. Su questa stessa via di falsificazione altri “artisti”, distribuendo piccole querce da rimboschimento o esibendo fascine e foglie secche miste e scritte al neon, pretendono di fare dell'arte povera in difesa della natura. In realtà si tratta di falsa ecologia da salotto, contrabbandata persino per “scultura sociale” (Joseph Beuys).”
Ancora una volta in queste righe Baj lancia frecciate alla Biennale di Calvesi ed alla seguente curata da Giovanni Carandente, e soprattutto alla Biennale in quanto istituzione, e non si preoccupa di ridicolizzare l'opera del grande Mario Mertz, che per lui non fa altro che mescolare fascine secche e scritte al neon. E continua sputtanando Richard Serra, Dennis Oppenheim, Jannis Kounellis e tutti i mostri sacri delle grandi esposizioni di quegli anni. “Le opere che prima abbiamo esemplificato, e che spesso si risolvono, lo ripetiamo, in una sistematica distruzione del territorio, come la cementificazione di Gibellina compiuta da Alberto Burri o la plastificazione di isolette, coste e vallate messa in atto da Christo, nulla hanno a che fare con l'amore per l'arte e con il collezionismo. Di fatto la più parte delle opere degli artisti approvati e sostenuti dal sistema è di dimensioni enormi. I quadri benché dipinti su tela e su telai e non ancorati quali affreschi alle mura di una basilica, sono talmente (e inutilmente) grandi da non entrare in nessun edificio o abitazione privata per quanto vasta essa sia.” “Queste opere possono solo entrare in quegli inceneritori della cultura” che sono il Beaubourg-Pompidou e i musei a questo assimilabili. La definizione è di Jean Baudrillard.”
È interessante notare il disprezzo di Baj per il bronzo, materiale per eccellenza delle statue celebrative e di regime, che definisce materiale cimiteriale, a differenza dei suoi materiali umili, trovati negli scarti della vita quotidiana e nei ricordi infantili: passamanerie, tessuti, tubi e giochi del “Meccano”, cascami di un surrealismo popolare che rifiuta qualsiasi snobismo o accademia. Per Baj comunque l'opera d'arte rimaneva il quadro da appendere al muro o la piccola scultura, e con questo rimaneva fedele a una visione tradizionale e borghese dell'arte forse definitivamente morta alla fine del secolo scorso. Per lui le dimensioni contano: piccolo è bello. Il “grande” è solo per i musei, i committenti ufficiali, gli spazi del potere, qualsiasi esso sia.
Con l'unica eccezione del suo I funerali dell'anarchico Pinelli, grande, pensato per uno spazio pubblico e non a caso non ancora esposto dopo tanti anni perché ancora oggi veramente 'sovversivo'.

Franco Bunčuga