rivista anarchica
anno 47 n. 419
ottobre 2017






Donne e altri umani

Parliamo di donne.
C'è stato un tempo, anni fa, in cui il discorso sulle donne era importante. Si portavano avanti battaglie, probabilmente anche eccessive nei toni, ma sono quelle battaglie che ci hanno condotte ad alcune non trascurabili conquiste. È evidente, come spesso accade, che le battaglie sono state diverse in paesi differenti, perché le tradizioni occidentali divergono, e se in Gran Bretagna la tutela delle madri sole, per esempio, esiste, almeno sulla carta, da tempo, in Italia esiste solo il biasimo delle madri sole, che - proprio in quanto incapaci di procurarsi un capo-famiglia e in palese violazione della legge dei padri biblici – hanno sempre costituito un argomento da evitare nella conversazione comune. Ciò non toglie che esse si siano moltiplicate nel tempo, e siano arrivate a rappresentare una componente non trascurabile della nostra comunità di appartenenza. Però attenzione: come molte cose in Italia, anche le madri sole sono strutturate gerarchicamente.
Una mia conoscente, intellettuale di successo e nota opinionista di sinistra (qualunque cosa questo voglia dire), ha deciso a un certo punto di avere un figlio senza avere un marito. Questo figlio è cresciuto benissimo, senza privazioni e con uno sguardo sul mondo che è certamente, immagino, sereno e privilegiato. La madre sola ha proseguito con altrettanta serenità la sua carriera e vigilato sull'ordinato farsi adulto del figlio. Un'altra mia conoscente, anche lei intellettuale ma di condizioni economiche e di prestigio molto diverse, si è trasformata anche lei in una madre sola molto presto, abbandonata suo malgrado, e le durezze pratiche e simboliche della vita hanno reso malfermo il suo equilibrio, e strampalata la crescita dei due figli. Altre donne delle quali conosco a malapena la storia sono madri sole senza mezzi, e vivono negli interstizi di una comunità che si autodefinisce equa e bilanciata. I casi son tanti, e non starei qui a enumerarli: non mi piacciono i discorsi che sconfinano nel patetico. Piuttosto, il punto è: il biasimo sociale e la fatica economica sostenuti da una madre sola sono proporzionali alla posizione di prestigio occupata nella comunità, almeno in Italia. Non vi è protezione istituzionale: solo una situazione florida di partenza, o in alternativa la carità del buon samaritano, se il buon samaritano esiste.

Parliamo di donne.
In università, dove lavoro, ci sono docenti di sesso femminile in ogni dove. Esse lavorano e si danno da fare, indifferentemente in ambito umanistico e nel contesto delle scienze dure. Man mano che risaliamo la piramide dei posti di responsabilità, le quote rosa diventano il solo motivo per cui qualche donna c'è (e, intendiamoci, non è che le donne in posizione di potere siano necessariamente “amiche“ delle politiche femminili). Nel mio dipartimento, su 5 posizioni di responsabilità istituzionale, due sono ricoperte da uomini, nonostante la percentuale di uomini e donne nel dipartimento sia sbilanciata, e potentemente, al femminile. Magari siamo più stupide e meno capaci, ma insomma, noto un dato e lo riporto.
Di sicuro, quando prendiamo posizione, continuiamo a essere percepite – da uomini e donne in ugual misura – come isteriche e vittime inani della nostra emotività. Una mia collega in posizione istituzionale rilevante, dopo aver preso posizione in modo deciso in un consesso accademico prevalentemente maschile, si è vista soggetto principale di una voce di corridoio che la etichettava come “lesbica“, ammesso che questo sia, come veniva inteso, un penoso insulto. La collega, mentre lo raccontava, rideva, dicendo che suo marito aveva reagito alla notizia offrendosi volontario per una dimostrazione pubblica. Son cose belle, nei nostri sfavillanti anni 2000.

Parliamo di donne, e parliamone nell'industria editoriale italiana.
Qui è più difficile, perché la cosa mi riguarda, e non vorrei che venisse fraintesa. Scrivo fantascienza da sempre, e ho pubblicato un romanzo in Urania, all'inizio degli anni '90. Non era bello e non era brutto: era, suppongo, semplicemente adatto alla collana. Quest'anno, come lo scorso anno, 3 dei 5 finalisti del Premio Urania erano donne (e quest'anno, di qui il motivo dell'imbarazzo, una delle 3 ero io). Sia l'anno scorso che quest'anno, il romanzo vincitore è risultato scritto da un uomo.
Nella storia del premio Urania, che esiste dal 1989, solo una volta ha vinto una donna. Le statistiche in sé non vogliono dir nulla: un romanzo viene pubblicato se è congruente con le caratteristiche della collana. Sono certa che la giuria abbia scelto su questa base, non sul genere sessuale dell'autore.
E però quel che mi ha stupita è ciò che ne è venuto fuori: un dibattito infinito, per ora solo via social network, che sembrava datato anni '90 per il disagio riportato da molte scrittrici e per le reazioni ferite, infastidite, spesso sconsolate degli scrittori e anche di alcune fan e scrittrici. In altri termini, di nuovo, chi ha manifestato il dubbio che vi fosse una qualche discriminazione del femminile nella fantascienza è stato, tacitamente o esplicitamente, tacciato di isteria.
Con la differenza che ora è chiaro a tutti che le quote rosa sono una bufala, una pezza cucita su una situazione culturale che, ahimé, non è mai cambiata.

Allora parliamo di donne ma parliamo anche di uomini. L'emancipazione non si fa da una parte sola, e neanche a colpi di nuove norme. Si lavora sulla cultura. Che di nuovo è il problema che ci dovrebbe interessare ma del quale non ci occupiamo.

Nicoletta Vallorani