rivista anarchica
anno 47 n. 418
estate 2017





Calcio e letteratura, educazione e retorica


1.
Da acuto osservatore delle minuzie umane qual è – e con la sua capacità di ricondurre queste minuzie alle loro matrici culturali –, Thomas Mann, ne I Buddenbrook, si sofferma un paio di volte sulla reazione infantile ai primi rudimenti più e meno mascherati dell'indottrinamento. In una di queste circostanze – protagonista una fanciulla già in età da marito per quanto si poteva presumere nella seconda metà dell'Ottocento –, Mann nota che, “distogliendo gli occhi dal viso del babbo guardò la finestra, al di là della quale scendeva silenzioso un fitto e sottile velo di pioggia”, negli occhi di questa fanciulla “c'era l'espressione che hanno i bambini quando i grandi, leggendo loro una fiaba, commettono lo sproposito di intercalarvi considerazioni generali sui doveri e sulla morale” – “un'espressione mista di imbarazzo e di impazienza, di bigotteria e di stizza”.
Nella seconda circostanza, protagonista è il piccolo Hanno, un bambino davvero, che vive un rapporto difficile con un padre pretenzioso – borghesemente pretenzioso; “poteva esser stato allegrissimo fino a quel minuto, aver magari chiacchierato col padre... ma appena la conversazione assumeva sia pur vagamente l'aspetto d'un esame, la sua allegria crollava, la sua forza di resistenza si sfasciava. I suoi occhi si velavano, la bocca prendeva un'espressione di sconforto, e quel che lo dominava era un grande doloroso rammarico per l'imprevidenza con cui il babbo, pur sapendo che simili tentativi non portavano ad alcun risultato, aveva rovinato il pranzo a sé e agli altri”.

2.
Oltre a preziosi documenti di non facile reperibilità, dalla lettura di Calcio e letteratura in Italia (1892-2015) dello storico Sergio Giuntini si ricava il quadro complessivo di una sorta di colonizzazione culturale. Dalla conversazione quotidiana e dalle prime cronache dei giornali sportivi il gioco del calcio come oggetto di narrazione si è progressivamente intrufolato nella letteratura più nobilitata, nella poesia, nel teatro, nel cinema. Bontempelli, Pratolini, Saba, Gatto, Arpino, Pasolini, Del Buono, Bianciardi, Soldati, Brera e Russo, fra i tanti, sono alcuni nomi di scrittori che, in maggiore o minore misura, hanno ceduto al fascino di questo gioco contribuendo ad un capitale molto più cospicuo di quello che possa esser vantato da qualsivoglia altro sport.
Tuttavia, come in ogni capitale letterario che si rispetti, non tutto il luccicante è oro. Il ruolo sociale che il calcio ha finito con l'acquisire – la sua funzione ideologica di nuovo oppio dei popoli –, infatti, fa sì che spesso i suoi cantori, accorgendosene o meno, eccedano in servilismo e il loro prodotto grondi di retorica. D'altronde se quando un Maradona fa un gol commettendo una grave infrazione – colpendo il pallone con la mano – non solo ne viene scusato immediatamente ma viene anche innalzato all'esercizio della “mano di Dio”, è evidente che il calcio è raccontato più con l'occhio rivolto all'effetto che fa che alle modalità del suo svolgimento.
Mantenersi alla giusta distanza, serenamente padroni dei propri criteri di analisi, spesso, quando si tratta di calcio, diventa difficile – se non impossibile. Il fatto che se stai guardando una partita quasi automaticamente qualcuno ti chieda per quale squadra “tifi” la dice lunga – lo spettatore neutrale è malvisto, guardato con sospetto. Corrispondentemente, il relativo linguaggio ha bisogno di virtù eroiche, di abnegazione e di sacrificio, di gesta indimenticabili, di genialità, di capacità sopraffine. La retorica consiste proprio nell'enfatizzare il risultato a prescindere dal come lo si è ottenuto.
Una domanda retorica è quella di cui – sia da parte dell'interrogante che da parte dell'interrogato – si sa già la risposta. Vale per l'atto del porla: come imperio e indottrinamento. Dato il contesto, schivarla non è semplice – implica un pensiero critico, prima nei confronti dell'oggetto e poi nei confronti del linguaggio stesso con cui se ne parla. Il libro di Giuntini – dove li si ritrova tutti, chi in cerca di un consolatorio successo e chi, invece, in cerca del modo più opportuno di esprimere la propria coscienza critica –, allora, si rivela un fondamentale promemoria delle fasi cruciali di un processo storico – quello dell'espansione calcistica – da cui nessuno può dirsi immune.

3.
È indubbio che la retoricità di un linguaggio semplifichi la vita: evitando ogni complessità, ben lungi da qualsiasi necessità di analisi, ce la schematizza. E, al contempo, ci espropria dei valori in base ai quali vorremmo viverla, questa vita. È come se riducessimo l'argomentazione a slogan.
Tutta l'edificante letteratura per un'infanzia sempre più “scientificamente” graduata – dallo zero ai due anni, dai tre ai quattro, dai cinque agli otto e via allargando la forbice fino a quell'adolescenza odierna in cui L'amante di Lady Chatterley è roba vecchia – sta lì a dimostrare la costruzione di una cultura della retorica – senza la quale la subordinazione sociale sarebbe un miraggio. E lo sport in genere – e il calcio in particolare – vi fa la sua parte – con la sua cerimonialità rituale e con la sua forza plasmante.
Il primo laboratorio di sperimentazione è il bambino che, con le buone o con le cattive – senza che se ne avveda o fregandosene ampiamente se se n'è avveduto – deve imparare “come si sta al mondo” e nessun adulto, nel ruolo di chi trasmette “istruzioni” e “verità” – le prime fondate sulle seconde – riesce ad esentarsi dalla sua funzione indottrinante e dall'attingere al repertorio della retorica per svolgerla al meglio. Volendo è un'estensione dell'accudimento – l'esigenza sociale che prende il sopravvento sul biologico –, ma, indubbiamente, è anche sopruso...

Città del Messico, stadio Atzeca, 22 giugno 1986 - La famosa “mano de Dios”, contestato gol di
Diego Armando Maradona ai campionati mondiali di calcio (coppa Rimet). L'Argentina battè
l'Inghilterra 2-1, anche grazie a questo clamoroso gol fatto a mano (e non rilevato). Fu lo
stesso Maradona a definirlo così, chiamando in ballo dio. Le cronache ricordano che poco
dopo Maradona fece di nuovo gol, regolarmente, con quello che fu definito “il gol del secolo”


4.
Come i bambini di Mann, mio nipotino Leonardo – sette anni – sembra saperla lunga. Nonostante le sue analisi, questo suo nonno, ogni tanto, gli racconta questo o quell'altro episodio della sua esistenza, ma, ahimé, mai a caso. Giorni orsono, non so più in che pasticcio autobiografico mi ero cacciato e lui, tra il divertito e il curioso di dove volevo andare a parare, mi stava ascoltando.
C'è stato un momento, però, in cui – nel mezzo del racconto – mi è venuto da commentare – una glossa a se stessi – cavandone una sorta di generalizzazione. È bastato quello. Leo si è girato dall'altra parte e, buttandola lì come fosse la constatazione più banale del mondo – “Ecco che adesso, come al solito, vuoi fare l'insegnante” –, si è mostrato improvvisamente indaffaratissimo in affari tutti suoi – l'isolotto mentale della momentanea salvezza – da cui io ero rigorosamente escluso.

Felice Accame

Nota
Per I Buddenbrook di Thomas Mann, ho utilizzato la traduzione di Anita Rho, nell'edizione Einaudi, Torino 1992, rispettivamente a pag. 194 e a pag. 466. Il libro di Giuntini è pubblicato da Biblion, Milano 2017.