rivista anarchica
anno 47 n. 413
febbraio 2017






Se è gratis la merce sei tu

Nell'apparente “capitalismo senza proprietà” dei mondi digitali siamo sempre collegati in un lungo e potenzialmente infinito streaming di dati che dal nostro smartphone fluisce verso i server delle grandi major dell'Information Technology.
Questo comporta non solo essere fornitori attivi di dati, inserendo informazioni mentre utilizziamo i servizi gratuiti di queste compagnie, ma anche passivi, nel momento in cui i dispositivi mobili diventano silenziosi ricettori e trasmettitori di ciò che facciamo. Pensiamo alle applicazioni installate sui telefoni e ai permessi che richiedono: cosa servirà ad un banale giochino elettronico avere il controllo del microfono del nostro telefono?
Per capire questo e potenzialmente essere in grado di spiegarlo ad altri, dobbiamo affidarci proprio alla nostra capacità di farci domande semplici e controcorrente.
La finalità del web cosiddetto 2.0 non è “tenerci in contatto con le persone della nostra vita” come ci dice Facebook e nemmeno la “condivisone della conoscenza” come recita Google, non c'è alcun obiettivo di emancipazione sociale nelle piattaforme e applicazioni “social”: l'obiettivo del web 2.0 è il profitto.
I grandi colossi dell'informatica commerciale, i padroni della rete - tra cui bisogna nominare anche Apple, Amazon, Microsoft – sono entrati a pieno titolo tra le aziende più ricche del pianeta.
Ma perché sono diversi da altri più noti come Zara, Wal-mart, Bloomberg, Ferrero o l'Oreal? La caratteristica che rende unico il turbo-capitalismo californiano è che i loro prodotti sono gratuiti. Com'è possibile essere i più ricchi magnati del mondo “regalando” servizi?
I più smaliziati staranno già pensando alla pubblicità mirata. Ossia, la raccolta dei dati sugli argomenti trattati o ricercati degli utenti nelle loro interazioni e navigazioni on-line al fine di proporre una pubblicità il più possibile specializzata. Questo è certamente vero, ma avete mai visto una pubblicità di McDonald o di Nestlé mentre andate in giro per il web? No, la pubblicità mirata è fatta per i piccoli e medi inserzionisti, quelli che non hanno come campo di gioco la globalità del pianeta, ma che sono legate a territori fisici e linguistici specifici. L'opportunità unica che viene loro offerta è quella di arrivare ai propri potenziali clienti tramite una banca dati superiore a qualunque possibile studio di settore.
Dopo circa quindici anni di informatica di massa gli utenti hanno imparato a distinguere i risultati sponsorizzati, sono diventati meno ingenui e tra un click curioso o annoiato e la propria carta di credito lo spazio non è più così breve. La pubblicità mirata è solo uno degli introiti dei servizi gratuiti e non è il maggiore. Oramai è diventato lo specchietto per le allodole da usare quando qualcuno comincia a fare domande sul “modello di business”.
Quindi come guadagnano davvero i servizi gratuiti? È noto lo slogan Se è gratis, la merce sei tu: nel capitalismo informatico ciò che viene comprato e venduto sono principalmente gli utenti, cioè noi. Ma come si fa a far diventare un utente una merce? Il principio della reificazione, cioè del rendere una persona un oggetto, si basa sulla possibilità di fare una misurazione, dunque un calcolo. In informatica: incapsulare un concetto non computabile in un modello digeribile da un linguaggio di programmazione.
La domanda allora diventa filosofica, come si misurano gli umani? Si deve trovare il modo di ridurre drasticamente la complessità. L'escamotage trovato dall'informatica commerciale è quello di implementare un metodo di marketing: il profiling, a sua volta mutuato dalla psicologia comportamentista. Il profiling è quell'insieme di tecniche che permettono di identificare e suddividere (discernere) gli utenti in base al loro comportamento. Nei mondi digitali dei servizi gratuiti l'identità della persona è interamente sovrapposta al suo comportamento sulla rete. Perché il comportamento? Perché si compone di azioni che sono direttamente osservabili, registrabili e misurabili attraverso degli indicatori. Il monitoraggio dell'utente comincia subito, dalle cose più semplici: attraverso la navigazione dei siti Internet - quali frequenta, quanto tempo vi passa - continua attraverso uno snodo fondamentale quale l'identificazione attraverso una email e tutti i relativi log-in sui servizi, dai quali quasi mai si effettua un log-out, per finire con ogni singola condivisione e “like” effettuato sui social media.
Cosa succede una volta che i dati vengono raccolti e stoccati nelle grandi banche dati - enormi hangar super refrigerati con sede nel nord del Canada, in Groenlandia e in generale nei paesi artici occidentali? Naturalmente vengono venduti; questa volta non ai piccoli e medi inserzionisti ma agli altri, quelli con i quali le aziende informatiche condividono le classifiche di Forbes: i Bloomberg, le Koch, i Louis Vuitton...
In che forma siamo messi in commercio e cosa poi costoro se ne facciano non ci è ancora dato saperlo. Quello che sappiamo è che attraverso la firma dei TOS (Termini di Servizio) cediamo ogni diritto sui quei dati e che i servizi si riservano la possibilità di elaborarli in qualsiasi modo e di farne merce. È importante dunque assumere questo passaggio a livello culturale: con il profiling digitale il tema del controllo dei viventi non è più di appannaggio politico, ma è diventato una prerogativa dell'industria commerciale. Il capitalismo senza proprietà non esiste: la proprietà siamo noi, divenuti materia prima.
È possibile rompere la catena impalpabile dei flussi digitali che ci tiene saldamente ancorati ai nuovi padroni? Naturalmente sì. Ma prima occorre imparare a capire da dove parte e dove arriva.

Ippolita
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