rivista anarchica
anno 45 n. 404
febbraio 2016


 


Resistenza quotidiana
ai margini delle città

Dove si concentra, oggi, la resistenza al potere? In un mondo dove la struttura gerarchica si è molecolarizzata e diffusa a ogni livello - dove l'ingerenza dell'autorità e della criminalità organizzata non sono più separabili chirurgicamente, ma attraversano il corpo sociale come un veleno - la risposta è sorprendentemente antica: voltare lo sguardo verso le periferie. Ed è proprio questo, fin dal titolo, l'intento di Gaetano Alessi e Massimo Manzoli: Periferie: Terre Forti (autoproduzione, pp. 120, scaricabile gratuitamente dal sito www.periferieterreforti.com). Quattro storie di resistenza quotidiana in luoghi distanti dai centri, intesi sia in senso urbano che sociologico, o culturale: ciò che resta ai margini, spesso frainteso e ignorato, e dove invece fioriscono esperienze di libertà e dignità straordinarie. Luoghi dotati appunto di una forza inattesa. Come spiega nella sua prefazione don Andrea Bigalli, “Il valore umano di ciò che è escluso, rifiutato, dichiarato inutile o sbagliato introduce la possibilità di una antropologia di altro segno, efficace nell'educare e far evolvere. Ai margini si vive liberi dai pregiudizi o quanto meno si può avere questa opportunità. Di certo qui si trova il senso di una frattura con il pensiero dominante, che insegna con insistenza il disprezzo dell'altro”.
È importante sottolineare che Alessi e Manzoli hanno raccolto queste storie mettendosi fisicamente in viaggio, senza pregiudizi e con la voglia di toccare con mano delle realtà che di frequente vengono distorte dal racconto “ufficiale” che ne viene dato.
Il primo e più eclatante esempio è naturalmente la lotta in val di Susa. Impariamo come il tentativo di espropriare la valle ai cittadini ha una lunga e triste tradizione: dall'occupazione tedesca (che imparò in fretta a conoscere la resistenza partigiana, segnalando quei luoghi con un eloquente “Achtung! Bandengebiet”) alle infiltrazioni mafiose negli anni Settanta, per finire naturalmente con lo squarcio aperto dalla TAV.
Vediamo la lucidità di Nicoletta Dosio, che lega la lotta all'alta velocità al bisogno di cercare delle forme di commercio locali e sostenibili, senza muovere i prodotti per migliaia di chilometri dal loro luogo d'origine. Rivediamo, raccontati in prima persona dai protagonisti, i momenti salienti della storia: le prime manifestazioni a inizio anni Novanta, lo sgombero e la ripresa di Venaus nel 2005, la formazione e l'abbattimento della libera Repubblica della Maddalena nel 2011, e più di tutto il modo in cui il movimento ha saputo divenire collante di una comunità senza leader, profondamente libertaria, e insieme veicolo e spunto per nuove lotte in tutto il Paese.
Quello che ci restituiscono Alessi e Manzoli non è dunque un mito, ma “la storia di uomini e donne”: e dunque tanto più prezioso. I miti si possono usurpare o piegare o usare come randelli ideologici. La vita delle persone che quotidianamente si impegna per opporsi a un'opera assurda, invece, no.
Non dissimile nello spirito è la resistenza offerta dal centro sociale Iqbal Maish a una forma diversa di ingiustizia sociale: l'essere confinati in un quartiere-ghetto come Librino, ai margini di Catania. “Cos'è Librino? Una fabbrica di voti, quello è”. Una località che in origine doveva essere un'appendice moderna della città a cura di grandi architetti, e che invece si è trasformata in una riserva lontana dalle cronache quotidiane, “80000 fantasmi di cui ci si ricorda solo nelle tornate elettorali”. Nessuna struttura sociale o culturale. Nessuna scuola, pochissimi negozi, un'assenza pressoché totale di luoghi di condivisione: un quartiere-dormitorio come tanti, troppi altri. E così dal 1995 l'Iqbal Masih ha voluto reagire operando dal basso e in forma autogestita per garantire agli abitanti del quartiere ciò che non hanno: doposcuola, corsi e laboratori, animazioni di strada, una palestra sociale. Tutto ciò che può servire a creare un'alternativa – anche nell'immaginario – per un non-luogo dove i 60-70% delle persone è coinvolto nell'attività di spaccio, e il sistema malavitoso è una realtà preponderante, in cui tutti rischiano di essere assorbiti.
Dalla Sicilia si passa in Toscana: un altro quartiere difficile, Le Piagge a Firenze – e un altro modo di generare prassi e culture alternative, la Comunità di base Le Piagge di don Alessandro Santoro. Ai margini di una delle città più belle e famose del mondo, Le Piagge vive una realtà fatta di disoccupazione e marginalità, con problemi di interazione fra gli abitanti storici, i nuovi arrivati e le comunità rom. La risposta della comunità è concreta: “strumenti leggeri che permettono di realizzare e mettere in atto idee e progetti nati qui. Ogni esperienza che nasce ha origine da un bisogno del territorio e da un tentativo dei residenti di rispondere a quel bisogno. Sorge con il sogno, forse utopico, di voler costruire una comunità”.
La premessa – la scritta “Zona Altamente Partigiana” che campeggia all'ingresso – dice già molto. Don Alessandro Santoro si è avvicinato al quartiere lentamente, imparando prima a conoscerlo e poi dedicandosi anima e corpo per “costruire luoghi di Ri-Esistenza, intesa come un modo diverso di stare al mondo”, “senza trasformismi di maniera o di comodo”. Unendo una visione radicale del messaggio evangelico a un'attività costante sul territorio, in primo luogo agendo per il recupero scolastico e promuovendo la vendita di artigianato locale e autoprodotto, fino ad arrivare al progetto di microcredito attivo dal 2000, il “Fondo Etico e Sociale delle Piagge”, per rispondere collettivamente ai problemi economici degli abitanti del quartiere.
Il breve viaggio di Alessi e Manzoli si conclude con una forma di resistenza individuale, e in un certo senso tanto più eroica, perché condannata a una solitudine terribile: quella dell'imprenditore e collaboratore di giustizia Gaetano Saffiotti. Saffiotti è cresciuto nel sistema della 'ndrangheta – costretto a seguire le regole spietate per cui ogni acquisto o affare deve passare per forza dal mafioso del territorio, vivendo costantemente sotto il terrore del ricatto e delle minacce di morte. Finché non decide di dire basta, assumendosi per intero la responsabilità e la necessità della scelta. Le conseguenze sono prevedibili: dopo la sua prima denuncia nel 2002 ha fatto 929 gare pubbliche, senza vincerne una. Prima ne vinceva una su tre o su cinque al massimo. “Tutto questo per aver difeso lo Stato denunciando i clan: ad oggi le aziende dei clan lavorano ed io no”, spiega. Un c'è parmu di nettu: non c'è niente di pulito da nessuna parte, e “il problema di questo Paese è che chi fa le cose giuste viene considerato un eroe e deve vivere sotto scorta”. Dove la reclusione morale e personale è tanto più dolorosa rispetto a quella fisica a cui è costretto per non essere ucciso.
Quattro storie fra le molte – troppo spesso passate sotto silenzio o male raccontate – che ancora oggi attraversano l'Italia: quattro sfide alla visione uniforme e pacata della società; quattro modi diversi ma egualmente illuminanti per comprendere come la resistenza al potere sia possibile ed efficace – ma necessiti di coraggio e abnegazione.

Giorgio Fontana



USA 1899/ Cinque impiccati.
Erano immigrati siciliani

Destini che si incrociano nella barbarie capitalista mondiale: luglio 1899 a Tallulah, paesino sperduto della Louisiana, cinque poveri disgraziati, immigrati siciliani di Cefalù, tre fratelli, i Defatta, e due loro cugini vengono linciati e impiccati. Stiamo parlando di Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio (Sellerio, Palermo, 2015, pp. 214, € 14,00).
Destini che si incrociano: i neri appena “liberati” dalla schiavitù e i Dagos, termine usato per indicare i siciliani, considerati mezzi negri, mezzi bianchi, una sub razza umana. Quello che sembrava un episodio isolato era invece solo la punta di un iceberg.
Pochi anni prima a New Orleans, undici siciliani venivano impiccati dalla folla e i loro corpi esposti al pubblico, come “strani frutti”. Strange Fruit, cantava Billie Holiday, con la sua voce meravigliosa, rischiando spesso di diventare uno strano frutto “strano frutto pende dai pioppi, una scena bucolica del sud galantuomo, gli occhi strabuzzati e le bocche storte” (disponibili su YouTube: Billie Holiday “Strange Fruit” e Nina Simone “Strange Fruit”).
Negli stati dell'ex Unione si stima che dal 1887 al 1907 oltre 5000 (le stime sono per difetto) siano stati i linciaggi: il novanta per cento erano neri. Nessuno è mai stato condannato: il linciaggio era cosa normale, anzi era favorito; era uno spettacolo a cui non si poteva mancare, dove si portavano i bambini a mangiare lo zucchero filato. Era anche un “aiuto” all'applicazione della “giustizia”, uno snellimento delle procedure.
In quegli anni sono centinaia di migliaia i lavoratori che scappano dall'inferno siciliano, dopo aver sognato la giustizia sociale promessa da Garibaldi a nome del nuovo Regno d'Italia, la fine della schiavitù dagli agrari, l'esproprio delle terre, l'uguaglianza. Ma il nuovo ordine non era quello, “tutto doveva cambiare perché tutto rimanesse uguale”, e a contadini e braccianti furono dati piombo e cannonate. Rivolte e altri sogni si susseguirono fino all'espatrio forzato verso l'America, “provincia dolce, mondo di pace.”
Negli stessi anni la guerra di Secessione “libera i neri dalla schiavitù”; ma il sogno di liberazione di una moltitudine di donne e uomini costretti a subire l'infamia della schiavitù, come spesso succede, rimane un sogno. “Tutto cambia per rimanere sempre uguale”. I latifondi rimangono in mano agli stessi proprietari, però i “negri” non sono più disposti a fare gli Zii Tom. A quel punto si potevano chiamare a lavorare altri “negri”, ed i Dagos erano l'ideale: uomini un po' scuri di pelle, muscolosi, dediti alla fatica fisica e remissivi se bastonati o assassini e criminali per natura se lasciati liberi. Così gli emigranti giungevano dalla Sicilia per sbarcare in un inferno ancora peggiore di quello che avevano lasciato.
Negli Stati Uniti, in quegli anni, si cercò anche di dare una figura giuridica ai Dagos: non neri, non bianchi, forse negroidi, vennero stimati buone bestie da soma per il lavoro nei campi.
In ciò ebbero come complici le idee pseudo-scientifiche della comunità guidata da Lombroso, (socialista e criminologo positivista, antesignano del leghismo più becero) che giustificava la teoria razzista che vedeva i meridionali (siciliani, braccianti, contadini e anarchici) portatori di una criminalità innata, una specie di sotto razza umana e perciò non degni di libertà, quindi linciabili.

“Sull'orizzonte cupo e desolato,
già spunta l'alba minacciosamente
del dì fatato”.

29 Luglio 1900, un anno dopo i fatti narrati, Gaetano Bresci, anarchico e operaio tessile, torna dall'America, da Paterson, per vendicare le oltre 200 vittime dei moti di Milano del 1898. La folla inerme era stata presa a cannonate dal macellaio-generale Bava Beccaris, decorato poi, insieme all'altro suo simile, Generale Morra di Lavriano, che aveva represso nel sangue i rivoltosi organizzati nei Fasci Siciliani.
Tre colpi vanno a segno al cuore del re, Umberto 1° di Savoia, a Monza, vendicando in un atto ideale tutte le vittime dei soprusi, “uccidendo un Principio”.
Il presidente americano Mc Kinley che si strinse in profondo cordoglio per la morte di “Re Mitraglia” il 14 settembre 1901 viene colpito a morte da Leon Czolgoz, anarchico polacco anche lui proveniente da Paterson.
“Ancora vivi, sono sicuro che i Defatta avrebbero detto: Buono ficiro Bresci e Leon.”

Antonio D'Errico



Una giovinezza
tedesca

“I genitori hanno perso credibilità a causa della loro identificazione con il nazionalsocialismo, la chiesa cattolica l'ha persa proteggendosi dietro la figura del nazismo. Si menziona raramente, ma l'autorità dei padroni è stata messa in dubbio durante gli ultimi 100 anni viste le terribili condizioni che hanno permesso all'industria di svilupparsi. Chi rappresenta l'autorità non è più convincente...”
1966, una giovane e promettente giornalista tedesca partecipa a un dibattito televisivo: il suo nome è Ulrike Marie Meinhof.
Une jeunesse allemande (2015, regia di Jean-Gabriel Périot, documentario, 90 minuti) l'ho visto a Berlino, ma la giovane cricca del Milano Film festival l'ha meritoriamente selezionato per il proprio concorso. E così, anche un po' di pubblico italiano ha potuto vedere questo film dalle difficoltà di produzione e realizzazione straordinarie: costruito puramente con immagini e audio d'archivio, discorsivo e fluido come il miglior cinema di finzione e comunque capace di racchiudere ed esprimere una ricerca decennale in novantatré minuti. Non è da tutti.
Jean-Gabriel Périot è l'artefice di questo raro esempio di “cinema d'archiviautore”. La giovinezza del titolo è più unica che rara: vita, morte e (s)miracoli della RAF, Rote Armee Fraktion, in origine conosciuta con la comoda etichetta giornalistica di banda Baader-Meinhof. Périot si concentra sulle intelligenze asciutte e acute della sinistra tedesca più radicale, che dall'editoriale d'invettiva o dal film di denuncia passa alle bombe artigianali e alla clandestinità.
Il cardine dell'indagine non ha nulla di didascalico. Nasce da un dilemma personale, che forse molti – me compreso – condividono. Che cosa succede quando ci si trova d'accordo... in toto o semi o parzialmente... con il pensiero di un terrorista? È facile condannare a spada tratta atti terroristici e i loro autori quando l'ideologia che li partorisce è antitetica alla nostra. Il problema sorge quando la condividiamo, anche solo in parte.
Ho avuto l'opportunità di parlare con Périot. Mi ha confermato proprio questo. “È sempre meno complicato capire la violenza che si cela dietro un atto terroristico politico a cui mi sento in un certo modo vicino, ma ciò non è giusto... dovevo entrare in questo mondo e capire e dissezionare questa mia quasi apologia della violenza. [...] Mi sono concentrato sulla RAF per l'abbondanza di immagini. Erano giornalisti, cineasti, semi-star come Baader e Hensslin, che nel 69 si son visti dedicare un film stile Bonnie & Clyde”.
Il montaggio oculato di Périot porta alla luce due generazioni in guerra in una Germania confusa se non persa dopo lo tsunami nazista. Il regista francese inizia sardonicamente: ricostruisce il clima schizofrenico del tempo attraverso i rotocalchi e i dibattiti televisivi; introduce poi le figure emblematiche di una delle fazioni terroristiche più temute dell'era moderna con fermi immagine à la bee-beep & willy-il-coyote. Eccoli Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Holger Meins, Gudrun Hensslin, Horst Mahler.
Una volta calamitata la nostra attenzione, l'ironia iniziale di Périot lascia il passo al dubbio: questi visi della nuova Germania democratica, idealisti e attivisti, ci parlano?
“Se si ha il desiderio o la presunzione di educare un popolo, bisogna creare le condizioni di una democrazia reale, solo allora un'autentica autorità può essere accettata. L'abuso dell'autorità sarà eliminato, il servilismo e gli sfruttamenti non esisteranno più. Ciò non è possibile senza un cambiamento concreto della società.” (Ulrike Meinhof)
La vita dedicata all'ideologia, le proteste, lo stato intransigente: i primi morti. E quindi la disperazione, l'inefficacia della prassi politica tradizionale, la presa delle armi. È il terrorismo, sia rosso che di stato. “Una delle preoccupazioni più contemporanee che traspaiono dal film è l'arma politica che ci è rivolta contro ogni volta che sentiamo la parola terrorismo” commenta Périot. “Un terrorista è, a priori, totalmente pazzo, malvagio ... il termine terrorismo nasconde tutto: ci impedisce di pensare e di capire di chi e di cosa stiamo parlando.”
Sullo schermo passa il faccione di Helmut Schmidt, in parlamento, col pugno minaccioso e la voce che ruggisce contro la RAF. “Noi non scenderemo a patti con questi terroristi!”... Quanti politicanti di oggi di grande e piccola taglia seguono lo stesso copione... Non c'è dialogo, non c'è soluzione se non attraverso l'annientamento indiscriminato dell'avversario. Un manto giallo, rosso, ma soprattutto nero copre le spalle nude della liberté delacroixiana.
Périot fa un uso misurato – quanto mai efficace – dei tentativi cine-dialogo di alcuni mostri sacri: dalle interpretazioni del Godard maoista passando per l'astrattismo visivo di Antonioni e la sofferenza viscerale di Fassbinder. Uno dei momenti più potenti del film è proprio il contributo del regista bavarese in Germania in autunno (Deutschland im Herbst), film del 1978 di un collettivo di cineasti sul terrorismo tedesco, che raggiunge il suo picco con il caso Schleyer e il dirottamento dell'aereo Lufthansa 181. Fassbinder (e con lui Périot) fa il punto della situazione: la RAF esige la liberazione dei propri leader; Meinhof, Baader, Hensslin e altri sono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim (Stoccarda), in isolamento totale, spogli anche dei flebili diritti di un comune detenuto. Schmidt non cede. Il popolo tedesco esige sicurezza... Non piegarti, Stato, Uccidili... Ed ecco il “climax Fassbinder”. A cena da sua madre, urla e sbraita contro l'ipocrisia della borghesia tedesca: non si può volere democrazia solo quando conviene. Ideologicamente spalle al muro, la madre alla fine lo deve ammettere: ci vorrebbe “un potere autoritario, ma che sia buono, giusto e gradevole”. Ah-ah-ah...
Il merito di Périot è di aver annichilito il semplicismo del bianco & nero: è un cazzotto di grigi quello che colpisce la nuca dello spettatore, il democratico latente, per convenienza, che è in ognuno di noi. Non si può rispondere con prosopopea alle domande che il terrorismo fa irrompere sulla scena quotidiana se prima il terrorismo non lo si indaga nei suoi moventi profondi. Il parallelo col presente viene così umilmente stabilito. Périot, d'altronde, ha definito questo suo film come “un lavoro per capire”. Capire la RAF, come anche capire le debolezza della democrazia della Germania anni 70 o della democrazia del mondo occidentale contemporaneo. Contro questa debolezza bisogna agire. L'assoluta necessità di rinvigorire la democrazia ci impone di trovare prima una risposta moderna a una domanda antica: quale democrazia? Se si vuole democrazia vera e concreta, bisogna caricarsela sulle spalle, tirarsi su le maniche, esserne in una parola responsabili. Che governo del popolo è se il popolo è “democraticamente” emarginato, circuito, irretito? Per concludere con le parole di Périot, “siamo tutti responsabili per qualsiasi tipo di violenza... siamo tutti parte del problema, come siamo tutti parte della soluzione”.

Nicolò Comotti

Jean-Gabriel Périot


Alcune considerazioni

Lo scritto di Comotti affronta una materia come quella della “violenza rivoluzionaria” su cui “A” esprime da decenni posizioni precise di rifiuto delle strategie lottarmatiste e delle azioni di violenza indiscriminata. E la affronta con un taglio che ci lascia a dir poco perplessi.
Per questo, nel pubblicare lo scritto di Comotti, abbiamo chiesto al nostro collaboratore Andrea Papi una sua riflessione. Come sempre, lo spazio di “A” è aperto al dibattito. Su questo tema come su tutto il resto.

Leggendo il pezzo di Comotti sul film Une jeunesse allemande di Jean-Gabriel Périot, sono rimasto incuriosito e mi son fatto l'idea che si tratti di un film che senz'altro andrò a vedere non appena ne avrò l'opportunità. Interessante in particolare la tesi che sviluppa di dar voce alle ragioni dei “terroristi” al di là di ogni stereotipo ufficiale su di loro. Allo stesso tempo mi ha colpito il fatto che chiami, appunto, “terroristi” i componenti della RAF, esattamente con lo stesso linguaggio dello stato, mentre per come è sviluppato il pezzo di Comotti mi ha lasciato dell'amaro in bocca.
L'ho percepito, purtroppo, impregnato del solito problema, almeno per me è tale. Un sentore giustificazionista dell'azione, come l'ha definita lui, terrorista. Non è un'adesione vera e propria, intendiamoci bene, mentre rischia di diventare, consapevolmente o no ha poca importanza, un'esagerata giustificazione, in un periodo terribile per queste cose, in cui sta diventando luogo comune definire “terroristi” più o meno tutti gli oppositori tacciati come radicali, dall'Isis ai centri sociali.
Il problema in fondo non sono le ragioni che fanno scegliere di diventarlo, come sembra suggerire il film almeno secondo Comotti, ma se ha avuto ed ha senso farlo.
Prendendo spunto proprio dal soggetto che tratta, la RAF tedesca meglio nota come Baader-Meinoff, mi sembra di poter dire che non si è solo dimostrata perdente, ma, al di là della loro volontà, nei fatti si è trasformata in incoerenza completa rispetto al bisogno di liberazione che avrebbe voluto far emergere. Senza soffermarsi sul fatto che la loro scelta ideologica è di tipo para-leninista, quindi proponente un tipo di dittatura che la storia del bolscevismo ha ampiamente condannato, non sono riusciti a trascinare le agognate “masse proletarie” nella loro azione presunta rivoluzionaria e sono stati spinti al suicidio delle loro scelte. Se magari sul piano della critica al sistema di cose presente potremmo in gran parte trovarci sulla stessa lunghezza d'onda, è invece sul piano dell'alternativa che proponevano oltre alla qualità della scelta d'azione che c'è la più completa divergenza. Se perciò possiamo provare qualche simpatia per le ragioni che hanno spinto i componenti dalla RAF a diventare ciò che sono stati, c'è al contrario un netto rifiuto delle loro scelte di vita e d'azione.
Capisco che Comotti voleva solo parlare del film, che senz'altro è portatore di qualche valore, e che giustamente non voleva fargli nessun cappello. Ha fatto bene! Ma per noi questa tematica è tuttora carne e sangue ancori vivi, per cui è indispensabile chiarire questioni che, sempre per noi, restano fondamentali e imprescindibili.

Andrea Papi


La replica

Cara redazione di “A”, caro Papi,
mi divincolo dalle perplessità - mantenendo spero una certa grazia - e cerco di tirare un paio di cordicelle per fare abbassare le sopracciglia di tutti.
Mi rammarica che la mia recensione sia stata interpretata come una giustificazione/apologia della violenza. D'altro canto, sinceramente, chiedo a Papi e ai lettori di indicarmi i punti del mio testo in cui quest'elogio prenda forma... La mia recensione mirava a riprendere la RAF e analizzarla con uno sguardo prettamente storico, anzi, antropologico.
Detto questo, sono contento che almeno a Papi sia venuta voglia di andare a vedere il film, perché questo era esattamente lo scopo della mia - come di ogni - recensione.
Per quanto riguarda il vero dibattito...guardate Une Jeunesse Allemande, poi ne riparliamo!
Un saluto a tutti.

Nicolò Comotti



Storie
che si ripetono

Recentemente le edizioni “il Saggiatore” hanno ripubblicato un libro uscito per la prima volta, in America, nel 1936: I nomadi (Milano, 2015, pp. 113, € 14,00) di John Steinbeck, giornalista e scrittore tra i più apprezzati del Novecento, assai noto anche per la cinematografia che negli anni '40 fu tratta da alcuni suoi romanzi, uno per tutti Furore.
Il libro in questione è una raccolta di sette articoli che il “San Francisco News” pubblicò nell'ottobre del 1936 con corredo fotografico di Dorothea Lange; un reportage giornalistico-sociologico dedicato alle migrazioni interne verso la California nel periodo della grande depressione. Dal 1935 al 1938 giunsero in California tra i 300mila e 500mila migranti costretti a lasciare stati quali il Texas, l'Arkansas, il Missouri e l'Oklahoma a causa di siccità, povertà e pignoramento delle terre. Ondata migratoria interna che andò a soppiantare quasi interamente quei lavoratori, immigrati non bianchi, occupati nei campi californiani.
Gran parte di questa gente si trovò costretta a vivere senza più niente, in agglomerati di baracche fatiscenti ai limiti del degrado che lo scrittore visitò e descrisse così come descrisse quella che pareva una buona alternativa possibile, quegli accampamenti - solo quindici, a onor di cronaca - che vennero istituiti dallo stato ma che non superarono mai la fase iniziale di “progetti dimostrativi”. Insomma, ci troviamo tra le mani un pezzetto di storia dell'America anni '20 scritta con quel linguaggio evocativo e scorrevole che caratterizza l'autore. Perché riproporne la lettura?
Per vedere - se ancora ne avessimo bisogno, ma forse sì - ciò che si ripete: lo sfruttamento dell'uomo (inteso qui non come termine generico ad indicare la specie umana, ma proprio gli uomini di sesso maschile) su altri esseri umani, quelli più deboli o in difficoltà, quelli appartenenti a razze che - causa le condizioni socio-economiche del momento in un particolare paese - ci si può permettere di considerare inferiori (prima della seconda guerra mondiale anche i giapponesi subivano quella sorte), alla stregua degli animali, ai quali è sempre stata negata addirittura l'esistenza.
La storia si ripete, con varianti che la collocano a latitudini differenti sulla superficie del pianeta e in diversi periodi storici. Conosciamo meglio la nostra, nella quale possiamo andare a ritroso con più agio e arrivare all'Impero romano, per esempio, con tutta la sua grandiosa barbarie. La nostra che si interseca con quella degli Stati Uniti d'America (più di quattro milioni gli emigrati italiani tra la fine del 1800 e i primi vent'anni del 1900).
Chi scrive - come forse anche la maggior parte di chi legge - casualmente è nata dalla parte “fortunata” del pianeta, e la sua vita si è dipanata in anni in cui le guerre sono state - non ripudiate - semplicemente spostate da un'altra parte. Questo per dire che molti di noi sulla propria pelle non hanno subito gravi sofferenze. Però hanno ascoltato, hanno letto, hanno visto e continuano a vedere sempre di più perpetuare la stessa offesa.
Sta di fatto che la soluzione al problema per tutta quella popolazione americana di pelle bianca impoverita arrivò solo in piccolissima parte da alcuni provvedimenti messi in atto dal governo e che facevano parte dell'insieme conosciuto col termine New Deal, che non favorì una piena ripresa economica (solo con la seconda guerra mondiale si riuscirà ad assorbire altri senza lavoro). Infatti - come si sa - fu proprio la guerra, con conseguente possibilità di impieghi ben pagati nell'industria bellica e affini, a risollevare le sorti della gente in quegli anni.
Le guerre: strumento economico utile a far girare l'economia di una parte del mondo a scapito di un'altra. Un'altra parte di gente che, anche secondo la voce del bravo Steinbeck, può subire trattamenti lavorativi, economici e sociali diversi rispetto a quella “popolazione americana di antico lignaggio” caduta in disgrazia e che meritava di risollevarsi. Perché i nuovi arrivati a lavorare nei campi della California rifiuteranno “di assumersi il ruolo di bassa manovalanza, con la brutalità dei sorveglianti, lo squallore e la fame che questo comporta”. Per gli altri – all'epoca giapponesi, messicani o filippini – non era prevista nemmeno la stessa empatica preoccupazione da parte del giornalista illuminato. Oggi le procedure sono diverse ma la sostanza cambia poco e questo è lo scandalo, l'impedimento che non permetterà mai di porre fine a una condizione umana basata sullo sfruttamento, che vi siano sempre quelli di serie A che possono sfruttare quelli considerati di serie inferiore, sempre più giù e sempre peggio, in una lotta assurda dove l'unica cosa che conta svanisce, quasi non fosse mai esistita. La nostra uguaglianza, assoluta, tra diversi.
Il senso che ha avuto per me questa lettura è stata un'aggiunta, una conferma ulteriore al desiderio, che continuo a credere non inutile, di insistere nel creare situazioni, sebbene minuscole, di opposizione.
Termino riportando quel che oggi – prima di sedermi a terminare questa recensione – ho letto su un quotidiano (“Il manifesto”, 5 novembre 2015) e che trovo interessante porre in chiusura, per tessere fili di collegamento.
“Ad aprile in Francia è nata una nuova «città». La chiamano la «Jungle» (la giungla) di Calais. Si trova a nord-est del Paese, non lontano da Inghilterra e Belgio. Si sviluppa in un terreno paludoso grande un chilometro per cinquecento metri vicino al mare. Alla sua fondazione accoglieva 2000 abitanti provenienti da molti Paesi d'Europa, Asia e Africa. Questa colonia è diventata in pochi mesi il terzo agglomerato più popolato del comune di Calais. Al 24 ottobre le autorità francesi stimano che la Jungle ospiterebbe 8000 abitanti. [...] La Jungle è il campo profughi voluto dal sindaco Natacha Bouchart nella periferia di Calais lo scorso aprile. In questo modo si è voluto concentrare tutti i migranti in fuga da fame, guerre e disequilibri economici in un unico terreno fino ad allora inutilizzato e abbastanza lontano dal centro abitato e turistico. Inutilizzato per due motivi: è una zona d'interesse ecologico e faunistico di tipo 1, cioè sarebbe un'area protetta intoccabile; al tempo stesso la Jungle si trova in una zona Seveso, cioè considerata a rischio per la presenza di due industrie altamente tossiche e pericolose quali la Interor e la Synthexim. Da aprile i migranti non hanno il diritto di accamparsi altrove. [...] La città non sembra più la stessa.
Oramai è quasi impossibile imbattersi in un migrante e sono state cancellate tutte le tracce del loro passaggio. [...] Per arrivare alla Jungle bisogna superare il porto, entrare nella zona industriale e continuare finché sei camionette delle Crs (corpo di polizia antisommossa francese) annunciano l'ingresso ovest. Gli abitanti della Jungle si sono raggruppati per Paese di provenienza o per etnia. Il «quartiere» irakeno è abitato prevalentemente da curdi. Famiglie intere composte da nonni, genitori e bimbi di pochi anni. I più fortunati, coloro che hanno ancora un po' di soldi e quanti si sono stabiliti da più di un mese vivono in delle baracche fatti di legno, plastica e stoffa. Tutti gli altri si devono accontentare di una tenda. [...] La Jungle è attraversata da due strade principali nord-sud e ovest-est. Attorno a queste vie principali gli afghani hanno aperto tanti ristoranti e qualche negozio. [...] «Ma in tutto questo che fa lo Stato?» [...] Il ministro dell'interno Cazeneuve ha annunciato che sarà incrementata la presenza delle forze dell'ordine. Inoltre verranno distribuite delle «tende riscaldate» ed aumenteranno i posti letto per donne e bambini al centro d'accoglienza diurno. [...] È sabato sera, prima di andare in tenda seguiamo la luce di una lampada all'interno della chiesa etiope. Un uomo è chino con un pennello su una tela dove cominciano a delinearsi i tratti di un angelo che infilza un demone con una lancia. «Sono un artista. Sono un pittore eritreo. Sono io che decoro la chiesa». Così si introduce Paulos. Come lui altre 8000 persone, altre 8000 storie, dimenticate dietro i numeri e le generalità.
Mentre la popolazione della Jungle aumenta”.

Silvia Papi



Luigi Fabbri/
Quel diario (ritrovato) contro la guerra

Arrivate dal lontano Uruguay in Italia una ventina di anni orsono, consegnate a Gianpiero Landi dalla figlia Luce, le pagine di diario inedite scritte da Luigi Fabbri fra il 1° maggio e il 20 settembre 1915, oggi accuratamente trascritte e impreziosite dalla densa e avvincente prefazione di Roberto Giulianelli (di cui vengono pubblicati qui di seguito ampi stralci), vedono finalmente la luce, a cento anni di distanza, nella bella edizione della Biblioteca Franco Serantini, (Luigi Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico 1 maggio – 20 settembre 1915, a cura di Massimo Ortalli, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2015, 12,00).
Luigi Fabbri (Fabriano 1877 – Montevideo 1935), oltre ad essere stato il più fedele e importante collaboratore di Errico Malatesta, da lui sempre considerato come un vero e proprio padre spirituale, è stato anche uno dei militanti più importanti e significativi del movimento anarchico italiano e internazionale. Esponente di una concezione fortemente organizzatrice, connotata da una visione intransigente dei principi ma al tempo stesso disponibile al dialogo e aperta al confronto con le altre componenti della sinistra, assertore della urgenza dell'affermazione di un anarchismo di netta impronta sociale, insensibile alle false chimere di quell'individualismo amoralista così presente nei primi decenni del secolo scorso, Luigi Fabbri ha attraversato da protagonista tutte le vicende dei primi decenni del Novecento, dimostrando una indiscutibile capacità di analisi accompagnata da quell'altrettanto indiscutibile facilità di esposizione che ne hanno fatto uno degli intellettuali più chiari e lucidi del movimento anarchico.
Ne sono dimostrazione, fra le tante, anche le bellissime e “drammatiche” pagine di questo diario, dalle quali emerge la profondità della riflessione operata a tutto campo non solo sulle cause della guerra e sulla irreversibile lacerazione all'interno della sinistra italiana ed europea, ma anche sulle tragiche conseguenze che questo “inutile massacro” avrebbe comportato negli anni a venire nel cuore delle società del continente.
È decisamente un piccolo, grande e fino ad oggi sconosciuto gioiello questo che ci viene proposto dalle edizioni della BFS, un gioiello che viene ad aggiungersi ai tanti che Luigi Fabbri ha lasciato in eredità non solo all'anarchismo internazionale, ma anche alla storia e alla vita del pensiero libero e libertario.

Massimo Ortalli

Allo scadere del secolo scorso Luce Fabbri affidò all'International Institute of Social History di Amsterdam il ricco archivio di suo padre, fino ad allora custodito a Montevideo, tappa conclusiva di un esilio che nel 1926 aveva visto Luigi e la sua famiglia – a eccezione del figlio Vero – abbandonare l'Italia fascista, trovando riparo prima a Parigi, poi in Belgio e da ultimo in Uruguay. [...] Fra le carte conservate spiccano lavori preparatori di articoli, opuscoli e libri infine dati alle stampe, scritti inediti, ritagli di giornali e riviste, nonché un diario compilato fra il 1° maggio e il 20 settembre 1915. Di quest'ultimo documento Luce donò copia anche ad alcuni studiosi e militanti del movimento libertario italiano. Nel 1999 la «Rivista storica dell'anarchismo» ne propose qualche pagina introdotta da Maurizio Antonioli; sette anni più tardi Alessandro Luparini vi attinse per redigere il saggio poi comparso negli atti del convegno internazionale di studi su Fabbri, svoltosi nel 2005 nella città natale di questi, Fabriano. Oggi, a un secolo di distanza dalla sua stesura, il diario viene finalmente pubblicato in forma integrale per iniziativa e a cura di Massimo Ortalli.
A rendere di immediato interesse questo documento sono il suo autore, uno dei massimi esponenti dell'anarchismo del Novecento, e il periodo della sua compilazione, a cavallo dell'ingresso dell'Italia nella Grande guerra. Fabbri iniziò a scriverlo nella sua città di origine e proseguì a farlo a Bologna, dove si trasferì nell'agosto 1915 per poi prendere servizio come maestro presso la scuola elementare di Corticella. [...]
A Fabriano, nel giugno seguente il suo arrivo, Fabbri visse la Settimana rossa. Protagonisti ne furono i repubblicani, ma soprattutto gli anarchici locali, la cui modesta consistenza numerica era compensata da un attivismo che fra il 1913 e il 1914 li aveva portati a ospitare due incontri regionali del movimento libertario. [...] All'indomani del 14 giugno Fabbri si sottrasse all'arresto, trovando ospitalità in quella “Lugano bella” solita accogliere allora i sovversivi di mezza Europa. Lì cercò lavoro come insegnante, senza successo. A dicembre fu prosciolto dalle accuse e poté dunque tornare in Italia, facendo tappa a Rocca San Casciano, dove fu ospitato dal padre, quindi rientrando a Fabriano, nella cui scuola elementare riprese servizio però solo tre mesi più tardi, quando le autorità scolastiche si risolsero finalmente a reintegrarlo. [...]
Nei mesi successivi la rivista «Volontà» si spese in una convinta campagna antimilitarista che, senza coltivare illusioni sulla possibilità di sottrarre il paese al conflitto, si ritagliò il compito di marcare la posizione dei socialisti-anarchici italiani in merito alla guerra, sia rispetto alle altre componenti del movimento operaio, sia rispetto alle rumorose correnti libertarie favorevoli alla partecipazione bellica. Fu un lavoro improbo, appesantito dal precipitare degli eventi e dalla morsa dei controlli di polizia che finirono per strangolare il periodico anconitano, nel maggio 1915 costretto per la seconda volta alla chiusura. Fabbri accolse quest'ultima come una liberazione: «La sospensione nuova di Volontà mi dispiace, ma (a dirla fra noi) è per me un sollievo materiale, un riposo! Non ne potevo più!», confessò a Giacomelli. [...]
Sebbene affrancato da un carico di lavoro che si era fatto via via insostenibile, con la forzata chiusura di «Volontà» egli si trovò improvvisamente muto dinanzi all'erompere di eventi il cui inaudito impatto sul presente e sul futuro dell'umanità appariva già allora manifesto. L'alternativa di essere ospitato su fogli anarchici che, come lo spezzino «Il Libertario», pur a singhiozzo riuscirono a proseguire le pubblicazioni durante il conflitto, venne percorsa solo per pochi articoli, ai quali fece seguito un silenzio di oltre un anno, parentesi eccezionale nella vita di un autore fertile come lui. Fu forse per conciliare il bisogno di riposo, la delusione per il precipitare degli eventi europei e l'avvertito obbligo morale a non tacere dinanzi al compiersi della catastrofe che decise, infine, di affidarsi a un diario. [...]

Il bavaglio ai giornali non-allineati

Larga parte del diario è consacrata alle questioni interne, a cominciare dagli avvenimenti che anticipano da vicino l'ingresso italiano nel conflitto. A scrivere in quei giorni è un Fabbri sfiduciato e depresso, che guarda alle dichiarazioni del governo e della corona, ai tumulti di piazza e ai proclami della intellighenzia interventista come a epifenomeni di un processo incontrovertibile. «La monarchia è già decisa per la guerra e la guerra si farà», annota il 5 maggio, quasi ad allontanare da sé l'illusione di un finale diverso. «Forse un giorno sapremo la verità!», commenta alla notizia che Vittorio Emanuele III aveva respinto le dimissioni presentate da Salandra, confermando così il disegno di condurre il paese in guerra dopo alcuni giorni trascorsi a recitare «una ignobile commedia», in cui il primo ministro in carica aveva finto di defilarsi e Giolitti aveva millantato una possibile mediazione con Vienna.
Grande attenzione da parte di Fabbri ricevono la propaganda governativa tesa a raccogliere consenso intorno alla scelta interventista e l'avvio della mobilitazione civile. La composizione di un granitico fronte interno, prerogativa indispensabile per resistere alle spinte centrifughe ed eversive che un conflitto logorante come la Grande guerra avrebbe alimentato, transitò anche per l'assunzione di misure populistiche come la concessione semi-automatica di promozioni e licenze scolastiche. «Che bazza per i nostri somarelli! C'è da far diventare interventisti anche gli alunni degli asili infantili», commentò, sarcastico, il maestro Fabbri. [...]
Il bavaglio messo ai giornali non allineati al governo, lo scioglimento coatto di gruppi libertari, l'invio punitivo dei sovversivi al fronte sono questioni che Fabbri tocca nelle pagine scritte nell'estate del 1915. Dell'incrudirsi di quei controlli egli stesso fu vittima in prossimità della dichiarazione di guerra all'Austria: il 22 maggio, infatti, venne arrestato a scopo precauzionale. La settimana scarsa passata in cella a Fabriano, con un carceriere accomodante perché padre di uno dei suoi alunni, non lasciò segni su di lui, ma lo indusse a riflettere su quanto modesto fosse il peso politico dei “sovversivi”, che il governo riteneva liquidabili con appena qualche giorno di prigione.
La limitatezza di questo peso si doveva anche all'effetto deflagrante che la guerra aveva prodotto sul movimento operaio. Sebbene nel diario Fabbri tenti di stralciarle come sparute minoranze all'interno del coeso cartello del non-intervento, le componenti che disertarono il fronte neutralista furono importanti, se non altro, per le conseguenze politiche di breve e di medio-lungo termine provocate dalla loro scelta. La perdita di pezzi di sindacato come la Federazione del mare (retta dal discusso capitan Giulietti) e dell'organizzazione dei ferrovieri (lo Sfi, a guida sindacalista rivoluzionaria) causò gravi emorragie sulla sponda antimilitarista. Di rilievo ancora maggiore furono le defezioni di Mussolini e dei repubblicani. [...]

Spiccato senso della misura

Nel diario parole non meno corrosive sono dedicate ai repubblicani, con i quali nel 1915, per la prima volta, anarchici e socialisti non avevano condiviso la Festa dei lavoratori. Fabbri accusa di ipocrisia i dirigenti del Pri sia perché, dopo avere data per certa la brevità del conflitto alla vigilia dell'ingresso italiano, all'indomani di questo di erano precipitati ad ammonire sulla inevitabile lunghezza delle ostilità, sia perché avevano finto di prendere le distanze da Salvatore Barzilai, ex esponente del partito mazziniano che, in quelle stesse settimane, era stato chiamato a ricoprire la carica di ministro per le Terre liberate. [...]
Il diario si interrompe il 20 settembre 1915. Sulle ragioni che indussero Fabbri a non proseguirne la stesura si potrebbero avanzare ipotesi tanto suggestive, quanto prive di un adeguato supporto delle fonti. Sembra allora più costruttivo interrogarsi sull'effettivo valore di queste pagine.
Per la compilazione della biografia del padre, Luce non se ne servì affatto, non rinvenendovi spunti originali rispetto a quanto già noto del pensiero di Luigi. Se ciò è vero in linea generale, tuttavia vanno considerati anche altri aspetti. Per esempio, va sottolineato il ridotto spazio che il diario assegna agli anarco-interventisti, con i quali in precedenza Fabbri non si era certo sottratto allo scontro sulla stampa libertaria. A partire dal documento pro-guerra stilato nel settembre 1914 da Maria Rygier e Oberdan Gigli e fino all'aprile successivo, il tono dei suoi articoli era via via asceso, talvolta oltrepassando i confini, a lui consueti, della moderazione. Fabbri avrebbe usato una vis polemica ancora maggiore nei confronti del Manifeste des Seize, con il quale nella primavera del 1916 alcuni esponenti dell'anarchismo internazionale, fra cui Kropotkin, si sarebbero dichiarati favorevoli alla guerra per allontanare dal vecchio continente il pericolo di una egemonia tedesca. [...]
Il diario appare prezioso, infine, per definire la personalità del suo estensore e le pressioni a cui essa fu sottoposta in quel tornante della storia. Uomo il cui spiccato senso della misura costituisce una rarità nell'ambito dell'anarchismo e, più in generale, del movimento operaio d'inizio Novecento, Fabbri si abbandona qui a commenti che mancano dell'equilibrio formale, se non sostanziale, da lui sempre rispettato. A spingerlo fuori asse non è la completa libertà espressiva concessa dal carattere intimo del contenitore: nelle lettere indirizzate per quarant'anni ai suoi molti corrispondenti [...], i passaggi privi dell'usuale autocontrollo si contano sulle dita di una mano.
Nel diario, invece, ci si imbatte in qualche cedimento alla violenza, che si affianca a giudizi grevi su alcuni avversari. A determinarli è il trauma causato da un contesto la cui tragicità è inattesa, inesplorata e immane. Un contesto dove alla ennesima sconfitta subita nel giugno 1914 dalle speranze rivoluzionarie si somma la disintegrazione di un universo che non è solo quello del “sovversivismo”, ma è anche quello familiare (il fratello e il padre di Fabbri furono interventisti) e quello dell'intera Europa, dilaniata da un conflitto che, ridisegnando popoli, confini e governi, aprì questioni risolte solo vent'anni più tardi con una guerra non meno spaventosa.

Roberto Giulianelli



Destinazione
Utopia

È uscito Tutto inizia sempre (Materiali Sonori, 2015, 10,00) il nuovo disco di Marco Rovelli. Impegno civile e recupero della memoria storica – soprattutto del movimento anarchico e libertario – sono la sua cifra stilistica. Giuseppe Ciarallo ha intervistato l'autore.

Dunque Marco, dopo Libertaria, Tutto inizia sempre. Ascoltando i tuoi dischi mi sembra che lo spazio di un CD sia sempre troppo piccolo per poter contenere tutto ciò che vorresti raccontare. Forse anche per le tematiche importanti che tocchi: l'amore e l'utopia. Non sono bastati millenni perché se ne potessero dare definizioni convincenti...
E tantomeno basteranno un disco, o un'intervista. Amore e Utopia, del resto, sono due movimenti infiniti, indefinibili. Vivono della tensione tra le singolarità umane, sono la relazione tra gli uomini e il loro orizzonte. Orizzonte: una poesia di Eduardo Galeano, che ha le sue radici in un enunciato di Bakunin, si dice che l'utopia è come l'orizzonte, che non raggiungeremo mai, ma che ci sprona a camminare. L'Utopia è l'idea regolativa delle nostre azioni. Sta tutta nella tensione tra il nostro presente e un altrove. E l'amore, anche quello è tensione e movimento: che sia a due, o per l'umanità intera, è qualcosa che immagina di fare della pluralità una “concordia”, per quanto i molti resteranno sempre i molti, e non diventeranno mai un solo cuore.
Ecco, utopista suona oggi come un'offesa. Così come “don Chisciotte”, uno stupido che combatte contro i mulini a vento. E invece in questi due epiteti c'è una bellezza che sfugge a chi li usa come insulti, e che come tali in realtà qualificano di stupidità lui stesso. Don Chisciotte immagina la bellezza, quella bellezza che salverà il mondo, e per essa vede oltre. È la natura del poeta e del visionario questa, saper vedere ciò che gli altri non vedono.

Cervantes, Rebora, Pasolini, Nietzsche (così come nel primo disco Erri De Luca, Maurizio Maggiani, Wu Ming 2). Per te, scrittore oltre che musicista, la poesia e la letteratura sono evidentemente elementi imprescindibili dai quali trai spesso spunto per sviluppare le tue storie. Confesso che dopo aver ascoltato La mia parte ho sentito il bisogno di leggere Il coraggio del pettirosso.
Sono riferimenti costanti, sì, essendo qualcosa che mi accompagna da molto tempo. Noi operiamo col nostro immaginario, e gli elementi dell'immaginario provengono da una molteplicità di stimoli. Li maciniamo, questi stimoli, e poi diamo vita a forme nuove, “nostre” - ma che nascono da qualcosa che ci è stato trasmesso da altri. Evidentemente gli stimoli della letteratura sono tra i più potenti, anche in relazione alla possibilità di costruire storie. È come muoversi in una foresta di segni, di simboli, tra alberi da decifrare. L'importante, però, è che questa immaginazione non divenga una cosa astratta, o intellettualistica, ma mantenga una concretezza terrestre, di carne e di sangue, che sappia restituire la vita in tutta la sua interezza, il calore del respiro, o il dolore di un'assenza. In ogni caso, ai riferimenti presenti nel disco da te citati aggiungo, sparsi qua e là in alcuni versi, Buñuel, Agamben, Boito, Bruno, Marx, e di sicuro qualcun altro.

Una domanda tecnica allo scrittore Marco Rovelli: quali sono le differenze tra la scrittura narrativa e la forma canzone (più simile forse a quella poetica)?
Sono due scritture molto diverse. Quello che hanno in comune, per me, è il ritmo, la grana della voce, il suono. Le parole hanno un suono e un sapore, sono pastose, rotolano in bocca e fanno eco nelle orecchie. Un critico letterario, Andrea Cortellessa, disse che la mia scrittura è molto musicale, che insomma si sente la mia doppia natura di autore. Per quanto mi riguarda, è così: il piacere immediato del testo, per me, passa dalla composizione/combinazione materica delle parole, sia che tu le legga silenziosamente sia che tu le ascolti sonoramente.
Dopodiché, la scrittura di un romanzo implica uno sguardo molto diverso da quello della canzone, dovendo srotolare il filo di una storia sul passo di una maratona, dove la canzone ha il passo del velocista. Una cosa è la composizione spaziale del testo sulla lunga distanza, dove non devi smarrire il filo della storia, devi dar vita a dei personaggi, devi dire delle cose creando stanze diverse (anche nei reportage narrativi che ho scritto, io lavoro molto sul montaggio, alternando ambienti, ritmi, immaginari diversi); un'altra cosa è la forma canzone, dove lavori su una versificazione in cui ogni parola dischiude, o può dischiudere, un mondo, è come un concentrato, un addensamento di sensi. Anche per questo, una canzone la costruisco non tanto raccontando storie, quanto accostando frammenti, immagini, evocazioni, che danno un senso complessivo proprio nella loro composizione. E questo sia in canzoni che raccontano storie (come quella dei Pisacane, L'amore al tempo della rivolta) sia in canzoni più esplicitamente frammentarie ed evocative (come Il tempo che resta, che mette in scena quegli istanti indicibili di vita che ci scuotono, e che, nello scivolare via, formano la nostra essenza).
Detto tutto questo, va da sé che le parole delle canzoni solitamente nascono a stretto contatto con la musica, sono come l'esteriorizzazione di un ritmo, e questo non ha nulla a che vedere con la scrittura narrativa “silenziosa”. Qui, del resto, stiamo parlando. Ma un album è fatto di musica, di suoni: e allora permettimi di dire che questo album è principalmente acustico, nel senso che a dominare sono i suoni di chitarra folk (la mia) e classica (quella, che sembra un'orchestra, di Paolo Capodacqua, storico chitarrista di Claudio Lolli), il violoncello (di Lara Vecoli), il pianoforte, oltre che i molteplici suoni, rumori, percussioni di Rocco Marchi, che ha prodotto artisticamente il disco. Ne è risultata una miscela di suoni, di ambienti, di stanze sonore, che credo sia riuscita a essere in sé un itinerario e un racconto.

In Tutto inizia sempre ci sono due protagonisti ai quali hai voluto dare voce (anche attraverso le parole di personaggi reali quali Vittorio Arrigoni, Don Gallo, Carlo Pisacane e Enrichetta Di Stefano): alle comunità vessate e ribelli come quella palestinese di Gaza (o quella curda, in una canzone successiva all'album), e alla marea di migranti; un'umanità senza pace e, sembrerebbe dai comportamenti dell'Occidente, senza speranze...
Direi che i protagonisti dell'album siamo noi in tutti i sensi. Quello che siamo, quello che vorremmo essere, quello che non vorremmo essere. Storie esemplari, in positivo e in negativo. Ed è naturale, per me, scrivere canzoni su quei margini che costituiscono anche il fuoco della mia scrittura. Sono sempre stato convinto che è solo dai margini che si vede il centro, e che si può ricostruire la forma del tutto.
Del resto è lo sguardo a portarti lì, quando racconti (in musica o in scrittura), non fai altro che seguire il tuo sguardo che è chiamato da qualche parte. E a chiamarmi, sì, sono le storie di chi è in viaggio (anche da fermo, magari). Non a caso ho scritto alcuni libri proprio di storie migranti, in questi anni. Ed è naturalissimo scriverci canzoni. Ma appunto il viaggio è anche quello di chi va al confine delle cose, per provare a trasformarle: e allora Arrigoni, allora i curdi. E allora anche quella straordinaria storia d'amore tra Carlo Pisacane, una delle figure di rivoluzionari più belle della nostra storia, e Enrichetta Di Stefano (anche nel primo disco raccontavo l'evento della Comune di Parigi attraverso un canto d'amore).

Emma Goldman ebbe a dire, e tu la citi nel booklet del disco: “una rivoluzione che non mi consente di danzare, è una rivoluzione per la quale non vale la pena di lottare”. Mao più prosaicamente sosteneva che “la rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un'opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un'altra”. Ora, se si può dar ragione alla Goldman non si può dare torto al rivoluzionario cinese. È possibile una sintesi tra queste due visioni evidentemente in contrapposizione?
La scorsa estate sono stato in Kurdistan, tra i guerriglieri e le guerrigliere. Uno di loro mi ha citato, trasformando il ballo in canto (ma il senso è lo stesso), il detto della Goldman, che aveva appreso dal film V per Vendetta. E quell'uomo aveva l'Ak-47 in spalla. Ora, non credo in alcuna regola generale, ogni ragionamento deve essere fatto a partire dalle situazioni concrete: e dunque i due enunciati possono stare insieme, il caso dei curdi lo dimostra. Di certo, se si tiene in piedi solo quello di Mao, il risultato sono i totalitarismi che abbiamo conosciuto. La danza e il canto sono una delle espressioni privilegiate della libertà personale: dove non si tratta però della mera libertà individuale, atomizzata, che forma la nostra civiltà occidentale. Tutti devono poter danzare e cantare, e ogni danza è in sé legata all'altra, ogni canto è in sé legato a ogni altro canto. La libertà è un fatto collettivo e individuale insieme: ovvero, singolare.

Per concludere, chiedo una tua impressione sullo stato della cultura nel nostro Paese. Gli intellettuali stanno svolgendo il compito loro assegnato dalla società? Sono, secondo te, lo spirito critico della nazione o sono stati inglobati in modo integrale nell'establishment?
Al di là delle intenzioni dei singoli intellettuali, è lo spazio per le voci critiche che si è ridotto drammaticamente. La rete consente di incontrarci, ma quanto alla formazione di uno spirito critico generale è molto più difficile. Anche la scuola sta venendo progressivamente meno a questo ruolo (un ruolo informale, sia chiaro, che ha esercitato per l'iniziativa degli insegnanti e non certo perché fosse la sua missione). C'è tutto un vocabolario che è cambiato, trasformandosi radicalmente: a noi che crediamo si possa cambiare il mondo (”tutto inizia sempre” significa anche questo) tocca prendere atto di queste trasformazioni, per ripartire da lì, e non rinchiuderci in un vagheggiare il ritorno di quello che non c'è più.

Giuseppe Ciarallo



Quel piccolo lucernario
che illumina le scale del palazzo

Nella storia della letteratura si rintracciano numerosi e in alcuni casi clamorosi esempi di opere poi divenute famosissime, rifiutate in prima battuta dagli editori.
Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach fu rimandato al mittente addirittura diciotto volte prima di vendere i suoi bravi due milioni di copie; Carlos Barral, proprietario di una casa editrice di Barcellona, ebbe il coraggio di rispedire indietro Cent'anni di solitudine a Gabriel Garcia Marquez, per poi passare il resto della vita a mangiarsi mani e fegato; addirittura Moby Dick venne giudicato “romanzo non adatto al mercato giovanile”, e immaginiamo le grasse risate di Herman Melville quando la sua balena divenne il cetaceo più amato da tutti i ragazzi di tutti i tempi. L'elenco è lunghissimo e ricco di aneddoti curiosi e in alcuni casi anche divertenti.
Lucernario di Josè Saramago (Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 323, € 18,00) terminato nel 1953, fu spedito ad una casa editrice che non ebbe nemmeno il buon gusto di comunicare all'autore che non intendeva pubblicarlo.
Nessuna risposta, dunque nessuna spiegazione: nessuno conosce con certezza la ragione del rifiuto. Certo si era in piena epoca salazariana, ma Lucernario apparentemente non è un romanzo politico, tutt'altro. È un romanzo che parla di vita quotidiana, di persone “normali”, di gente qualsiasi...
Sta di fatto che più di 45 anni dopo, nel 1999, quando ormai Saramago era uno scrittore e Nobel di fama mondiale, la stessa casa editrice si fece viva raccontando di aver rinvenuto il manoscritto durante un trasferimento di struttura e offrendosi di pubblicarlo. “Obrigado, ora no”, fu la risposta dell'autore; così Lucernario rimase al buio per molti anni ancora.
Evidentemente lo scrittore riteneva che non fosse più tempo, che quel romanzo fosse scaduto, forse troppo differente da quelli che lo avevano poi reso celebre in tutto il mondo; o forse rappresentava una ferita ancora aperta, il ricordo amaro di una delusione, qualcosa che era andato perduto e perduto doveva restare.
Di Salazar tutto sommato non si parla molto, quando si raccontano le grandi dittature del Novecento in Europa. Eppure Antonio de Oliveira Salazar, dapprima ministro delle Finanze, fu a capo della più lunga dittatura europea del secolo scorso, iniziata il 5 luglio 1932 e conclusasi il 26 settembre 1968. Una dittatura dichiaratamente fascista, partiti e sindacati aboliti, le donne senza titolo di studio escluse dal diritto di voto, la libertà di stampa colpita dalla censura e la polizia di regime che vigilava giorno e notte sul rispetto delle regole.
Chiamato al potere non in quanto uomo politico, ma in quanto esperto di finanza, Salazar – professore di economia all'università di Coimbra – conosceva profondamente il proprio Paese e i bisogni delle classi dominanti.
Rispetto alla seconda guerra mondiale mantenne una posizione ambigua, per poi furbescamente allearsi con i vincitori quando ormai i giochi erano fatti; cosa che lo tutelò rispetto agli oppositori interni e gli permise di governare il suo paese fino alla morte.
Qualcuno ha definito la sua politica un “processo di fascistizzazione dall'alto”, sostenuta e promossa dall'esercito e dalla Chiesa, che esalta il colonialismo, l'ordine patriarcale, l'accentramento assoluto del potere da parte dell'esecutivo e dunque l' abolizione dei diritti civili e politici.
Sotto la guida di Salazar il Portogallo diviene presto il paese dei grandi squilibri, economici e sociali.
Un paese grigio e triste, subdolo, mestamente conformista, isolato dal resto d'Europa e immobilizzato da un'oppressione silenziosa ma attenta e onnipresente nel quotidiano.
Lucernario è il ritratto perfetto della quotidianità sotto il regime di Salazar. E questo davvero potrebbe spiegare il rifiuto di pubblicarlo; sebbene né Salazar né il suo regime siano mai nominati nel romanzo, né vi accada nulla di direttamente riconducibile ad essi.
In un condominio di tre piani, a Lisbona negli anni quaranta, vivono alcune famiglie.
È un caseggiato piccolo-borghese, abitato da personaggi intenti a fare i conti con la vita di ogni giorno, ad affrontare sconfitte miserie sogni perduti e delusioni; ad inventare stratagemmi e architettare ipocrisie per sopravvivere al niente che li circonda.
L'anziano calzolaio Silvestre, uomo semplice ma desideroso di conoscenza, e la moglie Mariana; le giovani sorelle Adriana e Isaura, che vivono con la madre e la zia nascondendo una segreta e colpevole pulsione omosessuale. Justina e Caetano, che hanno perduto la piccola figlia Matilde; la bella Maria Cláudia, che per amare un coetaneo sarà costretta ad accettare disgustosi compromessi; la seducente Lídia, mantenuta dai soldi dell'amante.
E poi Abel, giovane intellettuale libertario e libero, disilluso e solo, che abiterà per un breve periodo in casa di Silvestre e Mariana affezionandosi ai due coniugi. Tra il vecchio Silvestre e il giovane Abel si instaurerà un intenso dialogo sul senso dell'esistenza, sul valore dei sentimenti e dell'azione, sul senso di responsabilità e sulla libertà di scelta, sulla possibilità o meno di affrancare e riscattare l'umanità.
Un'aspirazione a qualcosa di finalmente diverso, un barlume di emancipazione e speranza destinato però a risolversi nell'ennesima disfatta.
“Quel che penso non ha neppure il merito dell'originalità. È come un vestito di seconda mano in una fabbrica di capi nuovi. È come una merce fuori mercato, avvolta in carta colorata con un nastro di colore abbinato. Tedio e null'altro. Stanchezza di vivere, rutto da digestione difficile, nausea”. Così anche Abel si arrende. Perchè il senso di infelicità diffusa che regna nel condominio è lo specchio di un'umanità che ha perso in partenza, come se il diritto ad una vita almeno piena, se non felice, fosse negato a prescindere.
E in fondo non è diversa dall'umanità di sempre, perché tra le righe si percepisce con chiarezza un messaggio che arriva dritto fino a noi, a suggerirci che Abel, o Maria Claudia, o Caetano, un po' ci rappresentano, noi e le nostre classi sociali, le ambivalenze e i segreti inconfessabili, gli aneliti e le apatie e tutto il resto ancora; ivi incluse le nostre miserie e le nostre democrazie.
Sono esistenze perdute, quelle di Saramago, proprio come il manoscritto che, una volta tornato, tardi, tardissimo, in possesso dell'autore, finì gettato tra altre sue carte, per essere pubblicato postumo.
Forse è proprio quel “postumo” la nostra salvezza, di noi lettori intendo, il dono insperato di un ultimo romanzo, il primo, ad illuminarci la mente.
Come quel piccolo lucernario che illumina le scale del palazzo, come la penna di Saramago che per una volta ancora, la prima, l'ultima, illumina ritratti apparentemente opachi trasformandoli in personaggi a loro modo – un modo fondamentalmente meschino, certo, ma così efficace – indimenticabili.

Claudia Ceretto



Messico/
Il diario di viaggio come denuncia sociale

Laureato in scienze naturali e ambientali, scrittore e attivista per i diritti umani, Flaviano Bianchini è soprattutto un grande viaggiatore. Appartiene alla stirpe, ormai estinta, dei fratelli Reclus, di Alexandra David-Neel e, in tempi più recenti, di Bruce Chatwin e V. S. Naipaul; gente assetata di sapere, che il mondo non lo studia (solo) sui libri, ma lo percorre a piedi osservandolo e analizzandolo minuziosamente, cogliendone i paradossi e passando al setaccio paesaggi umani e naturali. Dopo l'ormai classico, In Tibet. Un viaggio clandestino (BFS edizioni, 2009, menzione speciale del Premio Chatwin “Viaggi di carta”), affascinante esplorazione del paese delle nevi, martoriato dal colonialismo cinese, e Taraipù. Viaggio in Amazzonia (Ibis, 2014) che, con la scusa della ricerca di un misterioso fiore magico, racconta la realtà degli indigeni sudamericani, Bianchini ci propone adesso Migrantes. Clandestino verso il sogno americano (BFS edizioni, Pisa, 2015, pp. 232, € 18,00), un'incredibile avventura lungo 3.000 kilometri di un Messico infernale e apocalittico, ben lontano dalle bianche spiagge dei Caraibi e dai santuari hippie del Pacifico.
Le cifre parlano da sole: almeno 25.000 desaparecidos dal 2007 e 35.000 morti ammazzati in un solo anno, il 2014. Li chiamano danni collaterali della guerra contro il narcotraffico, ma sono numeri da capogiro se pensiamo che negli anni settanta, in piena guerra sucia, i desaparecidos furono meno di 500. L'economia non va meglio. Su un totale di 115 milioni di abitanti, almeno 70 milioni languiscono in condizioni di povertà e, fra questi, circa 15 si trovano in povertà estrema, con un reddito inferiore ai 3 euro al giorno. Tuttavia, il presidente Peña Nieto non perde l'occasione di ostentare un' opulenza oscena e qui vive l'uomo più ricco del mondo, Carlos Slim, il magnate delle telecomunicazioni che vale più di 70 miliardi di dollari. Un altro personaggio emblematico, il Chapo Guzmán, è un trafficante di droga che figura nelle statistiche Forbes dei potenti della terra ed è recentemente evaso - in maniera clamorosa - da un carcere di massima sicurezza.
Questo è il Messico che ci racconta Bianchini; questo e non la Riviera Maya, ma neppure il Messico politicamente corretto degli zapatour. Un paese devastato dai racket criminali che lotta e resiste sintetizzando, tra mille contraddizioni, le miserie e le grandezze dell'umanità: la corruzione e la violenza demente del potere certamente, ma anche la solidarietà che germina negli interstizi della società. In questo Messico, ogni anno,  800 mila persone (in gran parte centro e sudamericani) intraprendono il viaggio verso il nord. Tra esse, circa 600 mila raggiungono gli Stati Uniti, 150 mila vengono sequestrate lungo il tragitto; cinque, forse diecimila - le cifre esatte nessuno le sa, visto che gran parte di loro non sono nemmeno messicani ed inoltre le famiglie non hanno il coraggio di denunciarne la scomparsa - muoiono per strada e una donna su sei viene violentata. In una sola località, San Fernando, Tamaulipas, nel 2010 vennero massacrati 72 migranti nel 2010 ed altri 193 nel 2011. Altri ancora - un buon numero - vengono deportati.
Il libro, scritto alla maniera di un diario di viaggio, racconta in prima persona il calvario del tragitto verso il miraggio americano. Lo fa senza falsa retorica e in maniera scrupolosa. Appollaiato su La bestia (o tren de la muerte, il treno merci che usano i clandestini per attraversare il Messico), a piedi, di corsa, oppure nascosto sul fondo di un autocarro o ancora fra le dune dell'Arizona, alle prese con la migra nordamericana, l'autore registra tutto ciò che vive. Cosa lo muove? In primo luogo, la curiosità e lo spirito d'avventura, ma anche la denuncia sociale.
“Il mondo globalizzato - spiega l'autore - ha globalizzato lo scambio di merci, ma non quello di persone. Un paio di jeans vengono da tessuto denim prodotto in Cina con cotone kazako, poi sono spediti in Messico per la cucitura, da lì al Bangladesh per la sabbiatura, in India per la stiratura e poi al distributore statunitense che lo distribuisce anche in Europa magari con un importatore centrale in Germania che poi lo manda in Grecia o in Spagna. Ma se uno degli oltre 6 miliardi di persone al mondo che non hanno un passaporto degli Stati Uniti o dell'Unione Europea prova a fare lo stesso viaggio, finisce sicuramente a marcire in una qualche prigione o ucciso da qualche guardia di frontiera. Però i jeans piacciono a tutti. E ci va bene che siano fatti così. Abbiamo globalizzato le merci ma non le persone”.
Va detto che Bianchini la globalizzazione la conosce di prima mano. Oltre ad aver viaggiato per tutto il mondo, ha vissuto in Perù ed è un profondo conoscitore del Messico, dove viene spesso perché è consulente di comunità indigene che lottano contro la devastazione ambientale. Recentemente ha collaborato - con un eccellente testo sul rapporto tra l'industria mineraria, i racket criminali e la repressione politica - a un libro-denuncia sul caso degli studenti di Ayotzinapa desaparecidos l'anno scorso nel Guerrero.1
L'avventura comincia a Tecún Umán, la cittadina guatemalteca che segna il confine con il Messico; dalla parte, nel Chiapas, c'è Tapachula. Da sempre è un luogo sordido (lo ricordo negli anni ottanta, quando era frequentato soprattutto da contrabbandieri), ma adesso è molto peggio. Lì Bianchini fa qualcosa di apparentemente assurdo: spedisce il passaporto a un indirizzo di Città del Messico e diventa, ipso facto, un indocumentado. Uno fra molti altri. Si fa chiamare Aymar Blanco ed è un giovane peruviano diretto al nord. Indossa i poveri indumenti dei migranti: pantaloni sdruciti, una maglietta, una giacca di finta pelle e un cappellino da baseball. Armato di coraggio e adrenalina, possiede solo una manciata di pesos cuciti nelle mutande. Niente cellulare e niente macchina fotografica: darebbero nell'occhio. Sa che non può fidarsi di nessuno: la polizia, la migra, le bande criminali, i ferrovieri, gli autisti degli autobus e un lungo eccetera di profittatori che fa i soldi con i migranti.
Il viaggio durerà 21 giorni e Bianchini ne vedrà di tutti i colori. Conoscerà la paura, la fame, il freddo, il caldo, la sporcizia, la sete ed anche la prigione, oltre ai ripetuti assalti delle bande criminali. Incontrerà canaglie di tutti i generi, ma anche persone meravigliose, come le Patronas, un gruppo di donne di Veracruz che dal 1995 offrono cibo ed acqua ai clandestini de La bestia. “Dopo tutto l'odio e la violenza che ho visto in questi giorni mi viene da piangere a pensare a quanta bontà c'è in un piccolo gesto del genere”, annota Bianchini commosso. Nel tragitto, farà anche molte amicizie, ma non tutti ce la faranno: “in Tibet mi sono trovato più volte in gravi difficoltà. Ma mai come in Messico. Siamo partiti in 25 e siamo arrivati in 19”, mi racconta. Già, perché qui, la vida no vale nada. Il resto non lo racconto perché preferisco lasciare al lettore il gusto di scoprirlo da solo. Vale la pena.

Claudio Albertani

1. Claudio Albertani/Manuel Aguilar Mora, La noche de Iguala y el despertar de México, Juan Pablos Editores, México, 2015.



Umberto Marzocchi/
Settant'anni di militanza rivoluzionaria libertaria

Esce come “quaderno” n. 5 / 2015, anno VII, nella collana biografica dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea (ISREC) di Savona una nuova pubblicazione, 136 pp., dedicata a Umberto Marzocchi, figura mitica dell'anarchismo internazionale novecentesco (Umberto Marzocchi, ISREC, 2015, pp. 136, prezzo non specificato). Gli autori – Vincenzo D'Amico, Giuseppe Milazzo e Giacomo Checcucci – animati da grande passione militante e storiografica, hanno efficacemente sintetizzato alcune fra le questioni e gli snodi salienti che attraversano la vita del protagonista. Le fonti utilizzate sono state principalmente quelle già edite, ed in particolare: G. Sacchetti, Senza frontiere. Pensiero e azione dell'anarchico Umberto Marzocchi (1900-1986), un impegnativo volume di oltre 500 pagine edito da Zero in condotta nel 2005 di cui è in corso di preparazione l'edizione francese. Gli intenti dei promotori dell'iniziativa editoriale savonese – il gruppo “Pietro Gori”, la famiglia Marzocchi e gli stessi autori – sono oggi quelli di svolgere una meritoria opera di divulgazione soprattutto tra i giovani e nelle scuole.
L'obiettivo non sarà facile, per diversi motivi, e una glossa negativa al nuovo libretto marzocchiano bisogna farla. Ci convince poco, e stona con il resto, la pretenziosa quanto inconsistente “prefazione” redatta senza firma dall'ISREC nella quale si esalta, con argomenti propagandistici, il ruolo dell'URSS nella guerra di Spagna. Ah questi vecchi arnesi dello stalinismo che si improvvisano storici! Forse non sono ancora persuasi che il Comunismo sovietico abbia terminato ingloriosamente il suo lugubre percorso nel 1991. A Savona non è arrivata la notizia?
Una vita avvincente come quella di Umberto avrebbe meritato senz'altro un “editore” meno invadente. Detto questo però ci rimane comunque la buona occasione per una rilettura critica della “nostra storia”.
Settant'anni di militanza rivoluzionaria libertaria nel Novecento – tali sono quelli vissuti da Umberto Marzocchi – significano aver attraversato il secolo, “breve” e controverso, nei suoi punti cruciali. Vogliono dire aver conosciuto da vicino molti degli aspetti terribili e talune conseguenze totalitarie nello sviluppo dei miti di classe e nazione. Guerre e rivoluzioni tradite nella vecchia Europa, ma anche grandi speranze si sono alternate di volta in volta nel susseguirsi febbrile delle vicende. Così, elementi di soggettività e volontarismo hanno contribuito ad alimentare il fuoco dell'idea socialista anarchica. Un'idea onnipresente che si è compiutamente espressa, certo con differente grado di intensità, nei grandi movimenti di massa e sindacali del Biennio Rosso italiano, della Spagna rivoluzionaria, del Sessantotto-Settantasette, ma anche nella cospirazione e nell'esilio antifascisti, nel difficile impegno di testimonianza nell'era della guerra fredda. In un percorso di questo tipo, connotato da sconvolgimenti e cambi di scenario repentini, da modifiche culturali e socio-politiche devastanti, rimane sempre molto difficile individuare un filo conduttore plausibile. L'insopprimibile anelito verso la libertà, l'antagonismo al potere oppressivo comunque ed ovunque esso si manifesti possono da una parte spiegare quel radicalismo che ciclicamente ritorna nei ranghi dei movimenti. Ma questa argomentazione da sola non basterebbe di sicuro a farci capire un fenomeno così straordinario di longevità. Una militanza “minoritaria” di lungo corso presuppone per sua natura, a differenza forse di quella in partiti politici gerarchizzati di massa, pulsioni movimentiste e intelligenze creative quasi perennemente attive. Inoltre, mentalità allergiche agli apparati e allenate a diffidare di ogni autorità, critiche ma attente al nuovo che si manifesta nella società, di fatto quindi più sensibili, sono per natura portate ad esprimere maggiori capacità nel superare ad esempio le barriere generazionali. Intransigenza e rigore si sono allora coniugati con tolleranza e comprensione. Nel movimento anarchico di lingua italiana figure di questa specie non sono mancate, tutti appartenenti alla generazione di Marzocchi, tutti formatisi alla medesima “scuola”: esilio, lotta antifascista e duro confronto con lo stalinismo. Fu una grande prova.
L'originale pensiero politico di Camillo Berneri, con le sue idee di apertura e dialogo verso le forze più giovani e radicali, risulterà certo molto influente nel determinare gli orientamenti del movimento anarchico di lingua italiana e dello stesso Umberto, circa la delicata questione delle alleanze a sinistra, a partire dagli anni trenta. Nel 1935, al convegno d'intesa degli anarchici italiani emigrati tenutosi a Sartrouville (Parigi), si formalizza un'autentica svolta, una scelta di campo irreversibile per quanto riguarda i possibili compagni di strada. In questa occasione, mentre già da tempo si era delineata nel movimento la consapevolezza sulla natura effettiva della Russia sovietica date le notizie sulle repressioni in atto contro l'opposizione di sinistra, si rafforza senza meno la constatazione della incompatibilità della prassi anarchica con il comunismo bolscevico (”Col partito comunista mai il benché minimo compromesso”). Nel contempo si prende invece in esame l'eventualità di una “libera intesa” con: sindacalisti, Giustizia e Libertà, repubblicani di sinistra, con la dissidenza socialista e comunista in genere. Sono scelte queste che comunque rimarranno evidentemente a lungo vigenti. La Spagna, in tal senso, costituisce il punto di non ritorno.
Il passaggio dal protagonismo alla testimonianza non è certo facile per nessuno. Le vicende tormentate dell'anarchismo italiano, per i venti anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale, si caratterizzano per due episodi salienti: il contrasto aspro tra la Federazione Anarchica Italiana (FAI) e i nuovi Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) nei primi anni cinquanta; la scissione infine dalla Federazione, consumatasi nel 1965, dei Gruppi di Iniziativa Anarchica (GIA). Tra tentativi audaci di rinnovamento culturale e difesa strenua dell'identità, e dei principi, tra organizzazione e individualismo, lotta di classe e aclassismo, il movimento si misura su questioni strategiche di grande peso il cui esito, invariabilmente, resta condizionato dal contraddittorio irrisolto rapporto dialettico con la nuova democrazia instauratasi dopo il 1945.
L'anarchismo italiano affronta la nascita della repubblica con un bagaglio teorico limitato, questo il punto. A fronte di più complesse e rinnovate – sebbene nel segno della continuità – strutture del potere pubblico e del dominio sociale, non corrisponde dunque un movimento libertario altrettanto dinamico e capace di risposte politiche adeguate. È la dura realtà dei fatti. La sconfitta subita negli anni venti e trenta, il ridimensionamento a livello internazionale, gli esiti infausti della guerra civile spagnola, chiudono inevitabilmente ogni speranza di riprendere, senza rinnovarsi, il ciclo virtuoso di crescita dell'anarchismo del primo novecento dal punto in cui si era interrotto. Alla dura repressione fascista, stalinista o a quella degli stati democratici si dovrà far risalire certo una parte importante delle cause che hanno determinato questa crisi. A ciò si deve però aggiungere un ulteriore elemento: c'è un'inedita composizione di classe che, manifestatasi su larga scala tra le due guerre mondiali, stravolge in toto memoria e identità delle antiche organizzazioni del movimento operaio. L'antifascismo, costituito in forza collettiva e convertito in sistema di governo, è ora elemento di ricomposizione tra “politico” e “statale”. Il partigianato, sebbene istituzionalmente “legittimato”, è oggetto di inediti intrecci tra Stati, ideologie e movimenti. Il dato di fatto più rilevante è che il PCI, complice lo sviluppo dei partiti di massa e grazie all'ambivalente strategia togliattiana, raccoglie a sinistra tutta l'eredità del sovversivismo popolare. E il resto dell'opera di ridimensionamento (vale anche per l'ala più radicale dell'azionismo) viene compiuto con lo scatenarsi della guerra fredda.
Umberto si mantiene su posizioni “movimentiste”, aperte al dialogo ma sostanzialmente diffidenti su possibili rinnovamenti troppo radicali nei connotati storici dell'anarchismo. L'Internazionale anarchica è una sua creatura. Già al convegno parigino del 1935 aveva proposto la formazione di un coordinamento propedeutico che ne promuovesse la nascita. Il progetto diventa realtà grazie alla passione e all'impegno incessante profuso nel mantenimento di contatti anche in paesi sotto le dittature fasciste e comuniste. All'età di 77 anni è arrestato durante una riunione clandestina della Federazione Anarchica Iberica in Spagna e liberato grazie ad una mobilitazione di solidarietà a livello europeo.
La sua capacità di dialogo, fino al limite dell'impossibile, discende da una qualità personale che gli viene riconosciuta anche nelle carte di polizia: “il soggetto ha un'intelligenza svegliata”... Per i superstiti di quella che era una gloriosa componente del movimento operaio, misurarsi su altre dimensioni, sia generazionali che ambientali, deve aver comportato sforzi immani...

Giorgio Sacchetti