rivista anarchica
anno 45 n. 404
febbraio 2016





Dalla zampa del Padre

1.
Andando a sfrugugliare la caligine millenaria che avvolge le nostre parole, si può anche scoprire che al termine “mano” o, meglio, alla sua radice (la stessa di madre, mensa, mese e metro), corrispose il significato del misurare – un qualcosa che si estende, che nell'estendersi costruisce. Più o meno come il piede, che, nella cultura anglosassone, rappresenta tuttora 30,48 centimetri del sistema metrico. E, tuttavia, la mano – a cominciare da quella mappa somatosensoriale che il neurochirurgo canadese Wilder Penfield individuò già nella prima metà del secolo scorso – ebbe maggior fortuna. Destinata a crescere ancora con l'attuale papa. Già negli Estratti dal diario di Adamo firmati dal sottile Mark Twain, però, era evidente – laddove parla di Eva che si asciuga le lacrime “col dorso della zampa” - quanto fosse sufficiente cambiare categorizzazione per ricondurre i valori della cosa ad una loro dimensione più equa.

2.
Mi immagino che il compito della guida suprema della Chiesa Cattolica nel XXI secolo dopo Cristo – almeno il compito autoimpostosi – sia quello di salvare il pianeta e la sua umanità – qualcosa del pianeta e della sua umanità; salvare, presumibilmente, in più sensi –, non indagando troppo per il sottile per quanto riguarda le responsabilità del passato (che, magari, proprio a questa necessità di salvezza hanno condotto), inducendo alla conservazione della fede in Dio – un Dio ben propenso verso l'umanità – e, al contempo, gettando qualche manciata di ottimismo. Almeno, mi immagino che queste siano le sue intenzioni. Opinioni di questo genere, beninteso, avrei anche potuto farmele da tempo, ma, ora – dopo la lettura di Laudato si' – Lettera enciclica sulla cura della casa comune (Ancora, Milano 2015) di papa Francesco I – posso dire che se da un lato il succo di queste opinioni mi è stato confermato, dall'altro ho potuto aggiornarmi sulla strategia argomentativa in virtù della quale tale compito è andato giustificandosi. Perché è ormai ovvio che la Chiesa, oggi, pensi al pianeta e all'umanità – e alle cause individuali e collettive relative ai loro guai – in modo diverso dal passato – come è ovvio che ai fini della conservazione della fede in Dio e della diffusione di ottimismo si serva di argomentazioni ben diverse da quelle usate in passato. Avendo ben presente, allora, che “a nulla ci servirà descrivere i sintomi, se non riconosciamo la radice umana della crisi ecologica”, mi provo a seguire l'ordine delle argomentazioni così come proposto dal papa.

3.
La nostra “casa comune” – è questa la ricategorizzazione del pianeta – ce lo ricorderebbe San Francesco – è “come una sorella” e “come una madre bella”. Mi chiedo perché “bella” e perché non è bella anche la sorella, ma qui è forse il caso di lasciar perdere. È già chiaro che si prende le mosse da una tirata sul “rispetto dell'ambiente” e annessi e connessi, per arrivare alla conclusione che “anche l'ambiente sociale ha le sue ferite. Ma tutte sono causate in fondo dal medesimo male, cioè dall'idea che non esistano verità indiscutibili che guidino la nostra vita”. E qui Francesco I si gioca già l'asso di briscola: le “verità indiscutibili” da cui proverrebbe il male – sicuro del fatto che questo male non possa invece provenire proprio dalle “verità indiscutibili”. Ma come dargli torto quando afferma che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale” o quando associa il “grido della terra” a quello dei “poveri” o invita alla salvaguardia della “biodiversità” e – contro il mito del progresso – si dichiara contrario al “rumore dispersivo dell'informazione”?
Diciamo che formulazioni del genere avrebbero bisogno di qualche ritocco (più che esser “vero” l'approccio ecologico non dovrebbe basarsi su presupposti contraddittori; sulla salvaguardia della biodiversità occorrerebbe intendersi e sul categorizzare come “rumore” le informazioni che non ci piacciono ci andremmo cauti), ma che, in definitiva, sono ampiamente condivisibili. Tuttavia, i nodi sono destinati a giungere presto al pettine.
La scienza e la religione, infatti, fornirebbero “approcci diversi alla realtà”, ma potrebbero “entrare in un dialogo intenso e produttivo per entrambe”. Qui il discorso si farebbe lungo – e soprattutto si farebbe ripetitivo –, ma è inutile farlo perché è già chiaro che, comunque la si metta, si rimarrà nell'ambito della teoria (insostenibile) del “doppio magistero” di Gould: scienza e religione costituiscono due ambiti diversi e l'una non può di principio metter becco negli affari dell'altra e viceversa; tesi che non sta in piedi perché entrambe usano lo stesso linguaggio per esprimere le loro “verità” e perché fra i compiti della prima c'è quello di analizzare i significati espressi da essa stessa e dalla seconda – se questi significati risultano privi di senso o autocontraddittorii, le “verità” crollano.
Vale più la pena, invece, sottolineare che, senza la figura di un Padre “creatore e unico padrone del mondo”, l'uomo “tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi”, cioè vale la pena sottolineare l'impianto realistico dell'argomentazione: alle verità indiscutibili viene ad aggiungersi – o, meglio, deve venire ad aggiungersi – un insieme di leggi indipendenti dall'uomo e attribuite ad una creazione altrui: “un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall'amore che ci convoca ad una comunione universale”, dove, come in una mappa somatosensoriale dell'universo, spicca la metaforica “mano” che, nella fase benevola dello schiudimento, elargisce (si riscontri nella Preghiera cristiana con il creato: “Ti lodiamo, Padre, con tutte le tue creature,/che sono uscite dalla tua mano potente”). L'uomo è ancora e sempre cattivuccio e, conseguentemente, senza tanta necessità di dimostrarne l'esistenza, di un “padrone” ha bisogno. La nuova metafora, ovviamente, non è giocata per caso, perché in questa creazione così benignamente elargita qualche distinguo va fatto. Uno in particolare è ancora fondamentale ed è quello tra umano e animale – salvaguardiamo sì la biodiversità, ma con giudizio: “la capacità di riflessione, il ragionamento, la creatività, l'interpretazione, l'elaborazione artistica ed altre capacità originali mostrano una singolarità che trascende l'ambito fisico e biologico”.
Fermo restando – statene sicuri – che “nessuno dei cinque passeri” (Luca, 12, 6) “è dimenticato davanti a Dio”, ahinoi, difenderemmo le specie animali più di quel che ci diamo da fare per “difendere la pari dignità tra gli esseri umani”. L'umano, insomma, sarebbe superiore, se non altro per rispondere ad uno scopo nobilissimo, perché “quando il pensiero cristiano rivendica per l'essere umano un peculiare valore al di sopra delle altre creature, dà spazio alla valorizzazione di ogni persona umana, e così stimola il riconoscimento dell'altro”. Sul perché questo sacrosanto “riconoscimento” possa avvenire soltanto in rapporto ad un decreto di superiorità, il papa non ritiene opportuno di spendere neppure una parola – si affida all'analogia: padrone uno, padroni gli altri scivolando giù verso un fondo della gerarchia dove un anonimo disgraziato rimarrà senza nessuno sul quale infierire.
Le contraddizioni, peraltro, non lo spaventano. E anche quando non trova pronta una metafora con cui occultarle va dritto per la sua strada. È così, per esempio, che la “proprietà privata” – eccoci ad un punto delicato – deve essere subordinata alla “destinazione universale dei beni”. Come ciò possa accadere rimane misterioso: se qualcosa è proprietà del singolo non si vede come possa poi trasformarsi in proprietà collettiva – che vi sia “destinata” promette di certo un futuro migliore, ma un criterio in virtù del quale far sì che questo futuro diventi un presente almeno per qualcuno non è esplicitato.
Similmente vanno le cose per quell'argomentazione più complicata che riprende – e approfondisce – il tema della scienza. Se la “tecnoscienza” fosse “ben orientata” – inizia così l'argomentazione – sarebbe “anche capace di produrre il bello e di far compiere all'essere umano immerso nel mondo materiale, il “salto” nell'ambito della bellezza”. Faccio notare che, a differenza di tutti quei fessacchiotti che si sono occupati di estetica per qualche millennio, lui lo sa cosa è il “bello” e faccio anche notare che, non so il perché o forse lo so ma mi ci vorrebbe troppo per dirlo, da un po' di tempo in qua quando mi si parla di “bellezza” ho l'impressione che me lo stiano mettendo in quel posto, ma vado avanti. “Di fatto”, purtroppo, “l'umanità ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme ad un paradigma omogeneo e unidimensionale”. “In tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l'oggetto che si trova all'esterno. Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione” – la “realtà informe”, insomma, sarebbe “totalmente disponibile alla sua manipolazione”. C'è da chiedersi che c'è di diverso da prima, se questo stesso allarme non poteva esser lanciato anche all'età della pietra, ma, a quanto pare, prima “si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano” (e ci risiamo con la mano).
L'essere umano – quello che “non è pienamente autonomo”, perché “la sua libertà si ammala quando si consegna alle forze cieche dell'inconscio, dei bisogni immediati, dell'egoismo, della violenza brutale” – e le “cose” sono diventati “contendenti”, mentre “prima” (ma quando?) si davano “amichevolmente la mano” (e ridalli con la mano).
Va da sé, allora, che – abbracciando tesi di chi lo ha preceduto – Francesco I sia contro il relativismo la cui definizione resta molto nel vago (più nel vago di quanto abbia fatto chi lo ha preceduto), ma la cui cultura costituirebbe “la stessa patologia che spinge una persona ad approfittare di un'altra e a trattarla come un mero oggetto”. Contrario anche alla “frammentazione del sapere” (cui si dimentica di aver contribuito lui stesso dividendo la scienza dalla religione) e all'eventuale subordinazione della politica all'economia (sulla scia di Giovanni XXIII, propone la costituzione di un'Autorità politica mondiale), si dice convinto che “non si può sostenere che le scienze empiriche spieghino completamente la vita, l'intima essenza di tutte le creature e l'insieme della realtà”, perché “questo vorrebbe dire superare indebitamente” quei loro “limitati confini metodologici” sui quali, però, non spende una parola

4.
Un'ultima considerazione la merita tutta questa buona dose di esteticità con cui, recuperando formule antiche che già i Padri della Chiesa avevano attinto da Platone, cerca di condir via il suo gregge. Se la nostra “casa comune” è come una madre “bella”, anche su altre bellezze possiamo far conto per uscire dai nostri guai. “Prestare attenzione alla bellezza e amarla”, infatti, “ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico”. Come ciò sia possibile lo sa solo lui ma un tentativo di comunicarcelo in forma di preghiera lo fa: “(...)riversa in noi la forza del tuo amore/affinché ci prendiamo cura/della vita e della bellezza”, “risana la nostra vita (...)/affinché seminiamo bellezza” (alla conclusione della Preghiera per la nostra Terra) senza dimenticare di darci da fare “...affinché venga il tuo Regno di giustizia, di pace, di amore e di bellezza” (nella Preghiera cristiana per il creato).
Concomitantemente ai miei sospetti, allora, posso constatare che, sul mercato azionario dei valori belli e fatti nel pacchetto dei realisti, il bello, insomma, “va”.

Felice Accame