rivista anarchica
anno 45 n. 404
febbraio 2016


No Tav

Si torna sempre a dicembre

della Federazione anarchica torinese – Fai


Riflessioni sulla lotta contro il Tav in Val Susa, a dieci anni dalla rivolta di Venaus.


Quest'anno sono dieci anni. Dieci anni passati in un lampo, ma lunghi. Lunghi come le notti di veglia, le marce popolari, i presidi ai cancelli, le cene con il gas e la doccia fredda. Lunghi come le ore in cella di chi ci è stato sottratto, di chi ha perso la propria libertà per provare a regalarne un po' a tutti.
In questi anni in Valle è venuta tanta gente. La loro stagione è stata l'estate. Ogni autunno tornano a casa a perpetuare la storia della Valle che resiste. Capita di chiedersi quali immagini, memorie portino con sé.
La pasta cucinata nel tendone/cucina del campeggio, il fumo dei lacrimogeni e il respiro che si mozza, i canti di lotta e le urla di chi viene pestato, i sentieri di notte, le assemblee, le battiture. Il tempo sospeso della lotta. Vera vacanza, sospensione della quotidianità, rottura dei suoi ritmi, dei suoi riti, dei suoi obblighi.
Linfa preziosa da tenere da parte per l'inverno.
Per chi resta, per chi c'è sempre stato, è diverso: le storie troppo raccontate rischiano di logorarsi. Di logorarci.
I nostri nemici ci fanno conto. Fanno conto sulla ripetizione delle stagioni, mentre la talpa continua a bucare la montagna, spargendo veleni, allargando la ferita.
La ferita nella montagna, che il nostro sguardo e la nostra cura hanno reso più che roccia e acqua e alberi, per farne il simbolo della carne viva del nostro movimento.
Un movimento che ha sulle spalle il peso della speranza che ha rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l'usura dei sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga.
L'orgoglio è quello di esserci, di tenere duro, di continuare a dare del filo da torcere ai nostri avversari. A quattro anni e mezzo dallo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena è stata scavata solo mezza galleria. Il grande tunnel lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata dalla paura di aprire i cantieri a Susa e Bruzolo. Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo continua a temere il movimento No Tav.
Due anni fa l'estate si chiuse con un bilancio durissimo. Il sangue, le umiliazioni, gli arresti, la notte del 19 luglio. È stata anche l'estate dei sabotaggi delle ditte collaborazioniste, i mezzi bruciati, la lotta che si radicalizza ma non è per tutti, anche se tutti la sostengono.
L'autunno è stato segnato dalle proteste agli alberghi e alle caserme che ospitano le truppe di occupazione. Iniziative di pochi, che hanno tuttavia mantenuto forte l'opzione dell'azione diretta.
Poi è tornato dicembre.

Una valle di terroristi

I nostri avversari conoscono bene il valore dei simboli. Il giorno dopo l'anniversario della presa di Venaus, il 9 dicembre del 2013 quattro No Tav vennero arrestati con l'accusa di attentato con finalità di terrorismo, per un'azione di sabotaggio al cantiere del 14 maggio precedente. In quell'occasione venne danneggiato un compressore, presto riparato e rivenduto. Un'imputazione che ha sottratto alle loro vite, ai loro affetti, alle lotte Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Qualche mese dopo è stata la volta di Francesco, Graziano e Lucio.

La grande favola della democrazia si scioglie come neve al sole, ogni volta che qualcuno prende sul serio il nucleo assiologico su cui pretende di costruirsi, ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si dispiega come discorso del potere che ri-assume nella sua interezza l'assolutismo della regalità. Assoluta, perché sciolta da ogni vincolo, perché nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.
Lo fa con la leggerezza di chi sa che l'illusione democratica è tanto forte da coprire come una coltre di nubi scure un dispositivo che chiude i conti con ogni forma di opposizione che non si adatti al ruolo di mera testimonianza.
In questi anni abbiamo assistito al progressivo incrudirsi della repressione, senza neppure la necessità di fare leggi speciali: è stato sufficiente usare in modo speciale quelle che ci sono.
L'accusa di terrorismo è stata smentita in corte d'assise e più volte in Cassazione, ma la Procura non demorde. Al processo d'appello contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò il procuratore generale Marcello Maddalena continua a sostenerla.
Il processo del compressore è solo la punta di un iceberg, perché sono centinaia i processi e le condanne contro i No Tav.
Il 27 giugno del 2014 vennero rese note le motivazioni della sentenza della Cassazione.
Secondo i giudici ci sarebbe una “sproporzione” tra quanto avvenuto nella notte del 14 maggio al cantiere e la presunzione che un tale atto possa effettivamente indurre lo Stato a fare marcia indietro, cancellando il progetto della Torino Lyon.
Sul piano giudiziario quella sentenza ha dato un duro colpo alla Procura torinese.
È probabile che l'impalcatura accusatoria contro i sette No Tav accusati di terrorismo non regga neppure in appello.
Ma la partita resta aperta.
Le armi messe in campo dalla Procura sono affilate ed insidiose, perché chiunque si opponga concretamente ad una decisione dello Stato italiano o dell'Unione Europea rischia di incappare nell'accusa di terrorismo.
Un giorno l'accusa di terrorismo potrebbe essere applicata a chiunque lotti contro le scelte non condivise, ma con il suggello della regalità imposto dallo Stato Italiano.
In altri termini: se di giorno o di notte, in tanti o in pochi, l'azione dei No Tav fosse tale da indurre lo Stato a fare marcia indietro, anche per la Cassazione i No Tav sarebbero terroristi. Tutti terroristi, anche chi sta in ultima fila con il bimbo in carrozzella, anche chi cammina a fatica, anche chi non ha coraggio, ma solo un cuore che batte forte per il mondo nuovo che vorrebbe.
È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell'azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d'essere del movimento No Tav.
Ogni gesto, ogni manifestazione, ogni passeggiata per tutti, non diversamente dalle azioni di assedio del cantiere, di boicottaggio delle ditte, di sabotaggio dei mezzi mira a questo scopo.
Nella logica delle leggi che definiscono il reato di terrorismo gran parte della popolazione valsusina è costituita da terroristi. E con loro i tanti che, in ogni dove, ne hanno condiviso motivazioni e percorsi.
Le migliaia di persone che resero ingovernabile la Val Susa nel dicembre del 2005 erano “terroristi”.
Quella volta non ci furono arresti, né imputazioni gravi: la ragione è facile.
Lo Stato si arrese, in attesa di una nuova occasione. Si arrese perché temeva che un'ulteriore prova di forza potesse far dilagare la rivolta oltre le montagne della Val Susa. L'ondata di indignazione per le violenze contro i resistenti di Venaus era tale da indurre alla prudenza chi pure si era sin lì avvalso della forza. La parola tornò alla politica, prosecuzione della guerra con altri mezzi, strumento per prepararsi ad una nuova guerra.
È importante che quella memoria di lotta ci accompagni in questi anni sempre più duri. I tempi sono cambiati, lo Stato vuole vincere per restaurare un'autorità compromessa, per spezzare la speranza concreta che ciascuno possa decidere la propria vita.

La memoria di ieri per le sfide di domani

L'8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. Ma già allora non era più questione di treni. In ballo c'era la libertà e la dignità di chi non voleva tollerare l'imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all'occupazione militare.
La Valle divenne ingovernabile.
La memoria riaffiora potente.
Era la notte tra il cinque e il sei dicembre 2005, una fredda notte di un inverno che si annunciava gelido. Il sonno venne rotto da migliaia di telefonate ed sms che avvertivano che il presidio di Venaus era stato attaccato dalla polizia. In pochi minuti, tra le migliaia di attivisti No Tav, circolò la notizia che poche ore dopo sarebbe rimbalzata sui maggiori organi di informazione: la gente pestata a sangue, le tende e la baracca della pro loco demolita, un anziano in gravi condizioni.
La lunga resistenza dei No Tav culminata nella settimana di barricate a Venaus arrivava ad una svolta: il governo aveva deciso l'azione di forza per sgomberare chi, nella neve, circondava l'area dell'ex cantiere Sitaf ed occupava i terreni destinati ad esproprio per la costruzione del tunnel geognostico di 10 km. Il tunnel era un atto di guerra ad una popolazione che da oltre 15 anni si batteva contro un'opera inutile, costosissima, devastante per l'ambiente e il territorio.
Quella notte dormirono in pochi: allacciati gli scarponi si misero in mezzo a strade e autostrade, bloccarono treni, scioperarono dal lavoro, affrontando la polizia che si muoveva come truppa di occupazione lungo tutta la bassa Val Susa.
Due giorni dopo una grande marcia popolare partì da Susa alla volta di Venaus: la polizia distribuì un po' di manganellate al bivio dei Passeggeri, da dove si dipana la provinciale che porta al paesino della Val Cenischia, ma nessuno si fermò. Lungo i sentieri impervi e ghiacciati, dopo aver superato il blocco, si aggirò la polizia e si scese al cantiere. La rete arancio venne giù, la polizia sparò lacrimogeni che il vento disperse, poi, con la coda tra le gambe andarono via.
La parola tornò alla politica, la prosecuzione, con mezzi più subdoli, della guerra.
Erano in gioco interessi enormi: da lì a poco sarebbe partito il baraccone olimpico e gli sponsor non pagano uno spettacolo con barricate e blocchi. Nonostante la ritirata delle truppe dello Stato la gente era ben decisa a continuare la resistenza, a bloccare ancora le strade, a fermare le olimpiadi.
Migliaia e migliaia di persone in quei giorni appresero il gusto di decidere in prima persona, di praticare la politica al basso, elidendo le mediazioni istituzionali. Tutto ciò faceva paura, perché incrinava la legittimità stessa delle istituzioni. Di tutte le istituzioni. Così la via d'uscita fornita dal governo venne accolta al volo dagli amministratori valsusini.
Il tavolo sul Tav nacque il giorno dopo la ripresa di Venaus: gli amministratori furono chiamati a Roma per aprire la trattativa.
Per qualche politico fu l'occasione per una nuova carriera, il governo prese tempo, sperando che il movimento si sfaldasse, accettando una nuovo progetto, sponsorizzato anche dalle istituzioni locali.
Sbagliò i conti. I voltagabbana, gli ambigui e i tiepidi tra i sindaci non hanno indebolito il movimento, che ha continuato a manifestare la propria opposizione all'opera negli anni della tregua. Chi sul fronte istituzionale non ha accettato tavoli e compromessi, non ha certo modificato il senso di una lotta che si è sempre giocata sui sentieri e non tra barricate di carta.
Tra il 2010 e il 2011 la tregua finì. La parola passò alle armi. Il governo impose con la forza l'apertura del cantiere per il tunnel geognostico a Chiomonte. Quel tunnel doveva essere finito nel dicembre del 2015, ma è solo a metà. L'area si è trasformata in un fortino militarizzato, i sentieri sono percorsi da uomini in armi. L'illuminazione notturna è impressionante. Quel cantiere l'emblema della volontà di piegare con la forza un movimento che non si è mai arreso, un movimento che non ha mai accettato di ridursi a mero testimone dello scempio.
Dai giorni della Libera Repubblica della Maddalena, passando per l'assedio del tre luglio, non c'è stato giorno in cui i No Tav non abbiano lottato contro la violenza di Stato.
Anche il lavorio della politica non è mai venuto meno. Il ministro delle infrastrutture sta aprendo un tavolo per discutere di compensazioni.
Nella neolingua della politica le compensazioni avranno un nuovo nome, ma la sostanza non cambia. I sindaci No Tav che siederanno a quel tavolo si salvano la faccia, il governo presenta un volto dialogante, magari butterà sul tavolo una manciata di quattrini, purché non si discuta del treno. La prima riunione di quel tavolo è stata prudentemente fissata all'indomani della manifestazione nazionale da Susa a Venaus promossa dal movimento l'8 dicembre.
Un movimento che non si mai arreso alla violenza di Stato, troppo spesso non ha saputo rinunciare alla coperta di Linus, un sindaco “amico” sui tavoli del comune.

L'illusione della delega

Il nemico più difficile da affrontare è l'illusione della delega. La delega a chi sabota, a chi tiene in vita un presidio, a chi annega tra le carte per mettere in luce le trame che sottendono il grande affare. La peggior forma di delega è quella istituzionale, che rilegittima la macchina di chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre. Chi prende il banco prende sempre tutto quanto. Per prima la nostra libertà.

La febbre elettorale che ha attraversato a più riprese la Val Susa ha assorbito energie enormi, sottraendole alla quotidianità della lotta. Qualcuno ha portato a casa il risultato, altri hanno piazzato qualche No Tav sui banchi dell'opposizione.
La febbre ha contagiato anche le componenti più radicali, divise tra chi si è buttato a capofitto e chi ha lasciato fare, tacendo.
Un gioco di equilibri, di realpolitick che era sempre stato sullo sfondo, nell'ambiguità della separazione formale tra comitati e liste civiche, tra comitati e partiti, è emerso con prepotenza in superficie.
Lo scontro tra la vecchia sinistra che, in nome del realismo, ha sottoscritto patti in contrasto con il mandato ricevuto e il populismo giustizialista, che sventola la bandiera della democrazia diretta, ma la riduce ad una farsa telematica, ha offerto un palcoscenico triste a tante brave persone, che la pratica della partecipazione hanno saputo in tante occasioni renderla vera.
Sono tempi difficili.
Il dispositivo disciplinare messo in campo da governo e magistratura si è articolato su più piani, per tentare di disarticolare il tessuto profondo del movimento, insinuando la paura, chiarendo che non ci sono aree d'ombra, rifugi sicuri, che tutti sono nel mirino.
L'azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato nell'azione solidale, nell'appoggio ai carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.
Eppure. Eppure gli ingredienti per fare altro ci sono tutti: li abbiamo conquistati in lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi. I comitati, i presidi, le assemblee popolari, gli stessi campeggi hanno alluso ad una possibilità concreta, quella dell'autogoverno. La sottrazione dall'istituito che il movimento No Tav ha praticato in tanti anni di lotta fornisce i mattoni e la malta necessari per dare corpo a luoghi e spazi di confronto, condivisione e pratica che realizzino l'autonomia reale dalla brutalità insita in ogni istituzione che pretende di rappresentarci, decidendo al posto nostro, affermando una nozione di bene comune che ci sottrae la scelta sul nostro futuro.
L'unico realismo che conti è quello dell'utopia concreta che – sia pure in alcuni brevi momenti – siamo riusciti a realizzare. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo altro.

Le copertine di “A” dedicate al movimento No Tav:
“A” 324 (marzo 2007), “A” 335 (maggio 2008), “A” 368
(febbraio 2012), “A” 380 (maggio 2013)
Vivere al tempo della peste

In Val Susa lo Stato si mostra nella sua forma più cruda, senza finzioni.
La ragion di Stato è il cardine che spiega e giustifica, il perno su cui si regge il discorso pubblico. La narrazione dei vari governi nega spazio ad ogni forma di dissenso.
Non potrebbe essere altrimenti. Le idee che attraversano il movimento No Tav sono diventate pericolose quando i vari governi hanno compreso che non c'era margine di mediazione, che una popolazione insuscettibile di ravvedimento, avrebbe continuato a mettersi di mezzo.
La rivolta ultraventennale della Val Susa è per lo Stato un banco di prova della propria capacità di mantenere il controllo su quel territorio, fermando l'infezione che ha investito tanta parte della penisola.
Allo Stato non basta vincere. Deve chiudere la partita per sempre, spargere il sale sulle rovine, condannando i vinti in modo esemplare.
L'osmosi tra guerra e politica è totale. La guerra interna non è la mera prosecuzione della politica con altri mezzi, una rottura momentanea delle usuali regole di mediazione, la guerra è l'orizzonte normale. In guerra o si vince o si perde: ai prigionieri si applica la legge marziale, la legge dei tempi di guerra.
In ballo non c'è solo un treno, non più una mera questione di affari. In ballo c'é un'idea di relazioni politiche e sociali che va cancellata, negata, criminalizzata.
Lo Stato sa che in Val Susa spira un vento pericoloso, un vento di sovversione e di rivolta.
Intendiamoci. Lo Stato non ha paura di chi, di notte, con coraggio, entra nel cantiere e brucia un compressore. Lo Stato sa tuttavia che intorno ai pochi che sabotano c'é un'intera valle.
Un fatto importante ma non decisivo.
La partita vera, quella giocata sapendo di poter vincere, di avere in mano le carte giuste, nelle gambe la forza di correre, nella testa la convinzione di farcela, si gioca altrove, in un altro modo.
La scommessa, una scommessa che investe ciascuno di noi, chi in prima fila, chi un poco più indietro è rendere ingovernabile l'intero territorio, attraverso i percorsi di sottrazione conflittuale dall'istituito che hanno costruito la narrazione che ogni anno sospinge tanta gente in quest'angolo di nord ovest.
Ci vorrà tempo, ci vorrà soprattutto il coraggio di crederlo possibile.
L'8 dicembre 2015 è molto più di dell'anniversario di una rivolta vittoriosa. È l'occasione per mettere in campo la forza politica necessaria a bloccare e rendere vani i giochi della politica istituzionale.
Dieci anni dopo quel dicembre il movimento No Tav è ancora in lotta contro l'imposizione della nuova linea ad alta velocità. Una lotta durissima, segnata da arresti, processi, condanne, botte e lacrimogeni. Una lotta popolare segnata dalla forza di chi sa che il proprio futuro non si delega, che, oggi come allora solo l'azione diretta, senza deleghe, senza passi indietro, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.
È tempo di smettere di credere nelle favole, in Babbo Natale che porta i doni.
Ci hanno raccontato che il movimento è un tavolino con tre gambe, i sindaci, il movimento popolare e i tecnici.
L'8 dicembre è una buona occasione per ricordare che i tavoli servono a far stare ferma e seduta la gente. Per vincere servono buone gambe. Ne bastano due. Quelle di uomini e donne che stanno saldi sulle proprie.
Una verità semplice che abbiamo appreso in quel lontano dicembre, mentre scendevamo sui sentieri ghiacciati per diventare protagonisti di una storia, che non ci stanchiamo ancora di raccontare.

Federazione anarchica torinese - Fai
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Non fu terrorismo.
Crolla l'accusa della Procura di Torino

Sabotaggio, non terrorismo. Disinnescato l'ordigno della Procura di Torino.
La corte d'assise d'appello della Procura di Torino ha emesso il 21 dicembre la sentenza al processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò. Il collegio ha rigettato l'accusa di attentato con finalità di terrorismo. Ai quattro No Tav è stata confermata la condanna a tre anni e mezzo per sabotaggio del 14 maggio 2013.
Il procuratore generale Marcello Maddalena aveva chiesto nove anni e mezzo.
Maddalena aveva cercato di aggirare le sentenze della Cassazione che negavano che i No Tav volessero far male alle persone o potessero realmente mettere in difficoltà il governo al punto da indurlo a fare marcia indietro. Per definire “terrorista” un'azione basterebbe la volontà eversiva di bloccare il Tav.
Maddalena ha insistito sulla personalità politica dei quattro anarchici, secondo gli schemi del diritto penale del nemico, in cui il senso ed il peso giuridico di un'azione non stanno nell'azione in sè, ma in chi l'ha fatta, non stanno nella materialità del gesto, ma nell'intenzione degli autori.
Maddalena rievoca gli anni Settanta sostenendo una sorta di rapporto di filiazione tra le pratiche di sabotaggio e la lotta armata, con un paragone a dir poco ardito, rispetto ai fatti.
La chiave di volta della requisitoria è la tesi che il sabotaggio del maggio 2013, come tanti altri gesti di lotta No Tav, siano un attacco alla democrazia, un attacco al potere del governo di decidere e imporre con la forza le proprie decisioni. Poco importa che il gesto in sè sia poca cosa, quello che conta è la sua portata simbolica, la sua capacità di erodere la fiducia dell'avversario, una goccia, che insieme a tante altre potrebbe finire con lo scavare nel profondo.
A suo parere Matteo Renzi, contrario all'opera prima di assumere responsabilità di governo, ne è divenuto fautore quando è diventato primo ministro, perché si sarebbe reso conto che la mancata realizzazione dell'opera avrebbe messo a rischio la democrazia.
In filigrana si legge la trama sottesa del tessuto argomentativo di Maddalena: tutti i No Tav sono terroristi. Chi devasta e militarizza il territorio difende la democrazia. Il sabotaggio di quella notte di maggio fu quindi un attacco alla democrazia. Come non essere d'accordo?
La democrazia è una delle forme dello Stato, che avoca a se la legittimità dell'esercizio esclusivo della violenza, per reprimere chi non accetta le regole di un gioco feroce, liberticida, oppressivo.
Chi si mette di mezzo, chi non si rassegna al dissenso, chi pratica l'azione diretta finisce nel mirino.
I No Tav lo sanno da tanto tempo che non è più (soltanto) una questione di treni, non è più (soltanto) una questione di soldi pubblici drenati per fini privati. Sanno che è in ballo la libertà di decidere del proprio futuro, la volontà di resistere, la scelta di lottare contro l'imposizione dell'opera e l'occupazione militare.
La Corte d'assise d'appello ha rigettato le tesi del PM, perché è (ancora) troppo diffusa l'opinione che non si possa equiparare un sabotaggio alla diffusione del terrore.
L'operazione questa volta è fallita, ma la carta del terrorismo potrebbe essere rigiocata, se il movimento No Tav riuscisse nuovamente a mettere in difficoltà il governo, se il territorio divenisse nuovamente ingovernabile.
Tutti i No Tav, compresi i sette del sabotaggio del maggio 2013, intendono davvero obbligare il governo a cancellare la nuova linea veloce da Torino a Lyon dalla propria agenda. Non c'è dubbio che ce la metteremo tutta.
Nonostante non sia stata riconosciuta la finalità di terrorismo, resta il fatto che quattro di noi sono stati sottratti per tre anni e mezzo alle loro vite, agli affetti, alla lotta.
Oggi ci conforta il fatto che la mossa più ardita della Procura torinese sia stata disinnescata. Maddalena, all'ultimo processo prima della pensione, non è riuscito ad appendere in ufficio lo scalpo dei No Tav.

Maria Matteo