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                Siate liberi 
				 
                Ho fatto il conto, e sono circa 
                  30 anni che faccio questo mestiere. Nelle aule di scuola e in 
                  quelle dell'università, la sostanza alla fine non è 
                  mai cambiata. Ci sono io, e ci sono studentesse e studenti. 
                  La prima lezione inaugura il mistero, le successive lo dipanano, 
                  l'ultima sa già di nostalgia. 
                  Non mi sono mai stancata, non ho mai smesso di considerare l'insegnamento 
                  la sola cosa che so fare, non mi sono mai arresa ai continui 
                  abusi della burocrazia e di una competizione insensata che le 
                  riforme recenti hanno solo accentuato. 
                   È 
                  un lavoro complicato, che non ha niente di manageriale (tantomeno 
                  nello stipendio) e che nessuno dovrebbe permettersi di valutare 
                  a meno che non abbia provato a farlo. Ed è complicato, 
                  a qualunque livello, sempre per lo stesso motivo: non vi è 
                  nulla di codificato, nulla di scontato. Helzapoppin con 
                  contenuti predefiniti e materiali umani, di necessità 
                  imprevedibilissimi. 
                  Ogni anno, di questi tempi, affronto un gruppo nuovo di matricole 
                  e/o di studentesse e studenti del II anno. L'anno scorso erano 
                  250, tutti insieme, in un'aula in principio troppo piccola, 
                  che ha dovuto in fretta essere sostituita. 500 occhi attenti, 
                  molti sguardi di sfida, moltissimi visi perduti, perplessi, 
                  chiaramente impegnati a capire cosa ci facessero lì, 
                  a tentare di guadagnarsi un voto, pure poco conveniente perché 
                  i miei programmi son sempre pesantissimi. 250 teste, 250 famiglie, 
                  250 storie personalissime. Nomi spesso stranieri. Lingue spesso 
                  disomogenee. Provenienze e motivazioni diversissime. 
                  Sarà lo stesso anche quest'anno. E io andrò in 
                  aula paralizzata dal terrore, immaginandomi strategie nuove 
                  e chiedendomi cosa mai posso insegnare a ragazze e ragazzi anagraficamente 
                  sempre più lontani da me, sospesi tra una famiglia troppo 
                  presente e una totale assenza di famiglia, schiacciati da problemi 
                  economici, oppure semplicemente perduti in un corpo che non 
                  amano, in una compagnia cui non sentono di appartenere, in un 
                  mondo che hanno ereditato e del quale viene loro detto che è 
                  ormai senza speranza. E se i fili sono diversi, la tela sarà 
                  bellissima: un capolavoro. 
                  Entrerò in aula e cercherò di fare quello che 
                  sempre fa ciascun insegnante degno di questo nome: comunicare. 
                  È una bella parola, comunicare. Quello che dimentichiamo 
                  spesso, noi insegnanti (e sempre lo dimentica chi finge di esserlo), 
                  è che comunicare implica una reciprocità. Il dialogo 
                  è bidirezionale, altrimenti non facciamo una lezione, 
                  ma altro: un monologo, una conferenza, una predica, una ninna 
                  nanna o altre possibili varianti tutte edificate sul silenzio 
                  e sulla simbolica assenza dell'interlocutore. 
                  Il fatto è che insegnare è una cosa diversa: uno 
                  scambio, che non mancherà di stupirci. 
                  Una mia amica, insegnante di musica in una scuola media dell'estrema 
                  provincia marchigiana, mi ha raccontato una volta di aver spiegato 
                  il Romanticismo costruendo tutto il ragionamento sull'opposizione 
                  con l'Illuminismo. Al momento dell'interrogazione, il ragazzo 
                  interpellato faticava a orientarsi. Così la mia amica 
                  decise di aiutarlo, consigliandogli di procedere per opposizione 
                  e suggerendogli che l'Illuminismo è l'epoca della ragione. 
                  Dunque come può essere definito il romanticismo? Il ragazzo 
                  ci rifletté un attimo, poi si illuminò tutto e 
                  disse: “Ma certo: il Romanticismo è l'epoca del 
                  torto!“ La mia amica ne fu spiazzata. Non aveva previsto 
                  tanta elasticità. Ed è questo che accade nella 
                  comunicazione: se le lasci libere di ragionare, le persone – 
                  soprattutto quelle giovani – ti spiazzano. Danno risposte 
                  incongrue, ma logicissime. Ti portano su strade che non avevi 
                  previsto. 
                  Anni fa, con una punta di delusione, avevo chiesto a uno studente 
                  che si era appena laureato con me come mai le mie dispense fossero 
                  del tutto assenti dal mercato dell'usato: facevano così 
                  schifo che non erano vendibili? L'ormai ex-studente scosse la 
                  testa. “Lo sa cosa si dice in giro, prof?“ rispose. 
                  “I corsi della Vallorani sono come il maiale: non si butta 
                  mai via niente“. Mi piacque la metafora rurale, molto. 
                  Me ne sentii onorata, e pensai che fosse una bella cosa. Magari 
                  non lo è, ma mi piace pensare che lo sia. 
                  Il punto è, cari ragazzi, che ogni volta che entrate 
                  in un aula vi concedete il lusso di pensare che la cultura serva 
                  davvero a qualcosa. Siete dentro un'aula per esercitare il vostro 
                  pensiero e imparare a sbrigliare le idee in autonomia. Siete 
                  in un'aula perché avete scelto di non essere pappagalli, 
                  ma esseri senzienti. Studiate per rendervi liberi, e lo sarete, 
                  indipendentemente dai denari che ve ne verranno in tasca. Perché 
                  quelli vanno e vengono, mentre la vostra testa, i vostri pensieri, 
                  la vostra libertà resta con voi sempre. E la imparate 
                  ora o non la avrete mai. 
                  Perciò sì, è vero: mi interessa che sappiate 
                  che Joseph Conrad era un esule polacco e che voleva fare il 
                  marinaio e non lo scrittore, anche se poi a far lo scrittore 
                  era un prodigio mentre del navigante non aveva il fisico. Ma 
                  mi interessa soprattutto che impariate a capire cosa c'entra 
                  tutto questo con voi, con la vostra singolarissima vita, e con 
                  la vostra unicissima nozione di libertà. 
                  È vero: voglio vedere se vi funziona il cervello. Ma 
                  non sarò io a farlo funzionare. Potete farlo solo da 
                  soli. E se non lo fate, siete perduti. 
                 Nicoletta Vallorani 
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