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				 società 
                  
                L'austerità è morta. Viva l'austerità 
                  
                di Carlotta Pedrazzini 
                    
                L'impossibilità di un cambiamento socio-economico attraverso i mezzi della democrazia liberale non è l'unica lezione che possiamo imparare dalla crisi greca. C'è anche quella del fallimento delle politiche di austerità. 
                 
                  Quando lo scorso giugno, il numero di greci che si proclamava contrario alle politiche di austerità - attraverso il referendum - superò quello di chi si diceva favorevole, in molti si dichiararono fiduciosi riguardo alle vie riformiste. “Questo voto cambierà tutto”, sostenevano alcuni, “i popoli guideranno finalmente le scelte dell'establishment europeo”. Ma i fatti, ora lo sappiamo con assoluta certezza, non sono andati in quella direzione. Anzi. Nonostante i propositi “rivoluzionari” del governo Syriza, quanto successo in Grecia è stato perlopiù un cambiamento gattopardesco, terminato con l'accettazione e il compromesso, da parte del governo di Atene, delle direttive economiche (e politiche) imposte dalla Troika (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale). 
Quello che le vicende greche mettono in risalto è che i mezzi dati in dotazione dagli stati non funzionano. Il voto non ha fermato le misure di austerità in Grecia, nonostante in molti lo richiedessero a gran voce, e gli organismi internazionali deputati si sono riconfermati sordi nei confronti delle richieste delle popolazioni europee. Un esito scontato per chi da sempre sostiene la propria totale sfiducia nei confronti dei meccanismi delle democrazie liberali, una palese e importante riconferma della fallacia di quest'ultimi. 
Ma l'impossibilità di un cambiamento politico, sociale ed economico attraverso i mezzi della democrazia liberale non è l'unica lezione che possiamo imparare dagli eventi greci. C'è, infatti, anche quella del fallimento delle politiche di austerità. Un fallimento non formalmente riconosciuto e nemmeno nuovo sulla scena internazionale; la storia economica mondiale ha già avuto evidenza di piani di austerità culminati in rovinosi disastri. Eppure, anche in questo caso, i decisori politici - e diversi economisti - non sembrano volersi curare delle esperienze passate. Ma andiamo con ordine. 
Con la crisi scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti e propagatasi presto nel continente europeo, moltissimi istituti bancari si sono trovati sull'orlo del fallimento (a causa delle loro pratiche speculative scellerate). A fronte di ciò, i governi hanno dato il via ad una corsa al salvataggio che ha portato, come conseguenza, all'aumento dei debiti pubblici. Al fine di risolvere il problema generato, e con l'obiettivo di riportare l'indebitamento ai livelli pre-crisi, i governi hanno conseguentemente deciso di adottare politiche di austerità e rigore economico. 
I programmi implementati da quel momento in poi prevedevano (e tuttora prevedono) tagli alla spesa pubblica, quindi ai servizi sociali, al welfare, all'istruzione, alla sanità, e poi aumenti del gettito fiscale (più tasse), oltre ad ingenti piani di privatizzazioni. Le conseguenze, come se servisse ricordarlo, sono state (e tuttora sono): aumento dei tassi di disoccupazione, aumento dei tassi di povertà relativa e assoluta, aumento delle diseguaglianze socio-economiche, disgregazione del tessuto sociale. Parliamo di un tasso medio di disoccupazione che si attesta intorno al 10% nei 18 paesi della zona euro, al 21,4% per quanto riguarda i giovani. 
Visti tali effetti, si è deciso in seguito di integrare i programmi di austerità con profondi mutamenti interni al mercato del lavoro, che prevedevano l'aumento della flessibilità, la diminuzione delle tutele e dei salari. Il motivo? La crescita dei tassi di disoccupazione avutasi con la realizzazione dei piani di austerity non è stata imputata alle politiche del rigore attuate dai governi, ma ad un mercato del lavoro troppo rigido che necessitava una riforma in chiave più “moderna”. È così che i diritti e le protezioni hanno lasciato il posto a nuove forme contrattuali ai limiti dello sfruttamento. La credenza alla base di questa manovra è che l'aumento del numero di disoccupati non dipenda dal quadro economico, ma dalla staticità del mercato del lavoro e dalle troppe tutele, indicate come ostacolo - da abbattere - alla crescita economica. 
                  Perseverare nell'errore 
                Il caso greco è un esempio lampante di come, fuori da ogni logica, governi e organismi internazionali continuino con noncuranza a perseverare in un errore che costa vite umane. Dopo la crisi del 2008 e i soldi pubblici spesi nei salvataggi delle banche, la Grecia si è trovata con un debito al quale non poteva far fronte. Nel 2010, il Fondo monetario internazionale è così intervenuto, in accordo con le istituzioni europee, prestando denaro in cambio dell'attuazione di politiche di austerità. Il copione lo conosciamo: tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali, aumento delle tasse, smantellamento dello stato sociale, privatizzazioni di beni pubblici. E ancora, sul versante del lavoro: licenziamenti, introduzione di nuove forme contrattuali, abbattimento delle tutele. I decisori politici si erano detti certi che il piano avrebbe funzionato e che, di lì a poco, l'economia ellenica sarebbe tornata a crescere. Ma non è stato così. Intanto, col passare del tempo e il susseguirsi dei governi, le avverse contingenze economiche si sono trasformate in crisi umanitaria; ad oggi la Grecia, per avere accesso a nuovo credito, dovrà nuovamente accettare la stessa ricetta di comprovata nocività e distruttività. 
Eppure tali constatazioni non bastano ad allontanare il fantasma del rigore dai territori europei, e l'austerità resta la sola via economica che i fanatici del neoliberismo riconoscono. Nessuno sembra esserne esente. Italia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, paesi baltici, Irlanda. Siamo tutti all'interno dello stesso paradigma economico, toccati dalle politiche di austerity che hanno spinto verso il basso gli standard di vita e progressivamente smantellato il welfare state. 
                  L'aggravante dimenticata 
                Tra gli anni '80 e '90 diversi paesi dell'America latina, Africa 
                  subsahariana e Sud-est asiatico sono stati colpiti da crisi 
                  economico-finanziarie. Gli interventi attuati a salvataggio 
                  da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale 
                  prevedevano la realizzazione di un insieme di “aggiustamenti 
                  strutturali” capaci, secondo i loro redattori, di assicurare 
                  l'immediata risoluzione dei problemi, oltre ad una crescita 
                  economica nel lungo periodo. La ricetta aveva al suo interno 
                  voci quali taglio alla spesa pubblica e ai servizi sociali, 
                  privatizzazioni, riduzione dei salari nel settore pubblico. 
                  In generale, si trattava di programmi fortemente somiglianti 
                  agli odierni piani europei di austerità. 
                  Al posto della predetta prosperità economica, i piani 
                  di aggiustamento strutturale attuati in quelle regioni sortirono 
                  un effetto altamente negativo dal punto di vista sociale. In 
                  Sudamerica, la proporzione delle persone che si ritrovarono 
                  a vivere al di sotto della soglia di povertà passò, 
                  in dieci anni, dal 40,5% al 48,3%, con tassi di disoccupazione 
                  e diseguaglianza in costante aumento. Analoghe situazioni si 
                  ebbero nei paesi africani e asiatici in cui simili programmi 
                  di “aggiustamento” furono realizzati. 
                  I pacchetti di proposte preconfezionate e messe a disposizione, 
                  nelle ultime due decadi del Novecento, dei così definiti 
                  paesi-in-via-di-sviluppo somigliavano molto alle ricette economiche 
                  neoliberiste applicate dopo la crisi del 2008, tanto da sortire 
                  conseguenze socio-economiche simili. Infatti, nonostante le 
                  difformità interne ai paesi, la differenza geografica 
                  e temporale, è riscontrabile una convergenza degli esiti. 
                  A questo punto viene da chiedersi: se, grazie alle esperienza 
                  pregresse, è possibile prevedere l'esito negativo di 
                  una certa misura economica, per quale motivo dovremmo attuarla 
                  nuovamente? E per quale ragione i governi e le istituzioni internazionali 
                  fanno di tutto affinché nessuno decida di uscire dal 
                  paradigma dell'austerità neoliberista, esplorando possibili 
                  alternative? 
                  Non può trattarsi di una svista, di una temporanea cecità 
                  nei confronti della storia economica, ma più verosimilmente 
                  di un ponderato progetto - pensato da chi detiene il potere 
                  - di smantellamento delle conquiste sociali raggiunte nei secoli 
                  scorsi. Con la scusa del risanamento, e in una costante situazione 
                  di emergenza, vengono approvate e rese operative nuove leve 
                  di assoggettamento e impoverimento. 
                  Se vogliamo veramente arrestare la macchina, dobbiamo abbandonare 
                  definitivamente ogni qualsiasi illusoria fiducia nei mezzi offerti 
                  dalle democrazie liberali, ricercando alternative al di fuori 
                  dei paradigmi mainstream. La crisi greca ce lo insegna. 
                  Non commettiamo lo stesso errore degli uomini di governo: impariamo 
                  dall'esperienza. 
                 Carlotta Pedrazzini 
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