Se ti ribelli, 
                  sei matto 
                 I pazzi vengono definitivamente riconosciuti 
                  dagli psichiatri per il fatto che dopo l'internamento mostrano 
                  un comportamento agitato. 
                  La differenza tra gli psichiatri e gli altri psicopatici è 
                  un po' come il rapporto tra follia convessa e follia concava. 
                  Karl Kraus 
                 Per molto tempo, anche nell'ambito delle ricerche sulla repressione 
                  del dissenso e le persecuzioni subite dagli oppositori del regime 
                  fascista, il ricorso sistematico alla psichiatria e alla reclusione 
                  manicomiale è stato un aspetto storiografico sottaciuto 
                  e sottostimato, come se certi “metodi” fossero una 
                  prerogativa di altri sistemi totalitari, quali quello nazista 
                  o quello staliniano. D'altronde, le stesse vittime, una volta 
                  tornate alla cosiddetta normalità dopo la Liberazione, 
                  il più delle volte autocensurarono il racconto delle 
                  loro vicissitudini attraverso l'arcipelago manicomiale, un po' 
                  per evadere anche dal ricordo opprimente di tale esperienza, 
                  un po' perché comunque probabilmente in molti vi era 
                  il recondito timore di essere ancora presi per pazzi. 
                   Eppure 
                  è proprio durante il ventennio fascista che si registra 
                  l'incremento dei cosiddetti “manicomi criminali”, 
                  con la costruzione di nuove strutture e di nuove sezioni giudiziarie 
                  presso istituti “civili” già esistenti, nonché 
                  l'aumento – davvero esponenziale – del numero degli 
                  “alienati” internati a seguito di sentenza penale 
                  oppure in applicazione della legge n. 36 nel 1904 (rimasta, 
                  incredibilmente, in vigore sino al 1978!) che prevedeva e regolava 
                  l'internamento negli ospedali psichiatrici di quanti, per presunta 
                  pericolosità sociale o pubblico scandalo, vedevano così 
                  le proprie vite in totale balia del giudizio - e del pregiudizio 
                  - di pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà 
                  e direttori di manicomi. 
                  Nonostante che tale legge fosse stata emanata dal governo del 
                  liberale Giolitti, l'individuo vedeva annullata ogni tutela 
                  delle proprie libertà ed era consegnato inerme all'arbitrio 
                  statale: essa risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale 
                  volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; 
                  infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” 
                  discendeva generalmente da una supposta pericolosità 
                  legata all'essere improduttivi oppure ad eventuali turbamenti 
                  dell'ordine pubblico. 
                  Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto 
                  ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo 
                  stato di polizia, tanto che «fissò nel Testo unico 
                  delle leggi d Ps (prima del 1926 e poi del 1931) le regole da 
                  attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, 
                  oltre che dell'alienazione mentale», mirando a colpire 
                  ugualmente sospetti oppositori politici, omosessuali, oziosi, 
                  nomadi, alcolisti e altri soggetti marginali. 
                  Particolare non secondario, proprio in pieno fascismo, nel 1938 
                  lo psichiatra Ugo Cerletti (tessera n. 0694914 del Pnf) assunse 
                  notorietà mondiale per «l'italianissima invenzione» 
                  dell'elettroshock. Ad essere colpiti, temporaneamente o in maniera 
                  definitiva, da misure di costrizione manicomiale furono circa 
                  un migliaio di uomini e donne, di varia tendenza o appartenenza 
                  politica, ritenuti pericolosi per la dittatura di Mussolini: 
                  se il termine ha un senso, nella stragrande maggioranza dei 
                  casi non si trattava di «malati di mente», ma di 
                  «avversi al regime»; in non pochi casi, invece, 
                  i disturbi psichici erano diretta conseguenza delle violenze 
                  fisiche e delle torture mentali a cui furono sottoposti nel 
                  corso di spedizioni punitive, in carcere, al confino o dentro 
                  i non-luoghi manicomiali. 
                  Il recente saggio di Matteo Petracci I matti del duce. Manicomi 
                  e repressione politica nell'Italia fascista (Roma, Donzelli, 
                  2014, pp. 238, € 33,00) non solo mette in luce questo aspetto 
                  misconosciuto, ma è la più consistente e approfondita 
                  ricerca sull'argomento, non solo per quanto riguarda l'analisi 
                  dei meccanismi burocratici, polizieschi e psichiatrici che gestirono 
                  questi autentici gironi infernali, ma riesce anche, con sensibilità 
                  e rigore, a farci conoscere le r/esistenze umane che sono rimaste 
                  schedate e rinchiuse per oltre settant'anni nei fascicoli del 
                  Casellario politico centrale e nelle cartelle cliniche. 
                  E raffrontando queste due dimensioni, è possibile riscontrare 
                  come i funzionari di polizia ricorressero alle diagnosi pseudo-mediche 
                  e alle categorie lombrosiane, mentre gli psichiatri accettavano 
                  – con rarissime eccezioni – di svolgere un ruolo 
                  di inquisitori politici, così come le figure degli infermieri 
                  e dei secondini tendevano a confondersi dietro sbarre che, purtroppo, 
                  non appartengono ancora al passato. Discorso analogo per quanto 
                  riguarda l'esile confine che separava il trattamento punitivo 
                  da quello terapeutico, con strumenti e pratiche degne dei supplizi 
                  del Sant'Uffizio. 
                  Tra queste storie, quelle che mi hanno maggiormente colpito 
                  sono senz'altro quelle del militante Secondo B., ritenuto «infermo 
                  di mente per mania politica» in quanto «affetto 
                  da “morbo di Lenin”» e dell'ex-ardito Gaetano 
                  M., giudicato pericoloso «per la sua cultura e la grande 
                  passione per le teorie anarchiche», ma soprattutto quella 
                  dell'operaia Isolina M., diagnosticata ovviamente isterica per 
                  le «sue manifestazioni tumultuarie di impulsività», 
                  ma che alla domanda su cosa intendesse per fedeltà, aveva 
                  maliziosamente risposto che, nell'attività politica (alludendo 
                  a quella sovversiva), significava «non dire quello che 
                  si fa». 
                 Marco Rossi 
                     Economia / botta... 
                  Ma i magazzini sociali sono anti-commons? 
                Elementi di una teoria economica dell'anarchia: è il 
                  proposito dell'impegnativo e ambizioso libro di Guido Candela 
                  Economia, stato, anarchia. Regole, proprietà e produzione 
                  fra dominio e libertà (Elèuthera, Milano, 
                  2014, pp. 303, € 20,00). In queste poche righe darò 
                  conto di uno snodo della sua ricerca. In un'economia anarchica, 
                  i soggetti possiedono il proprio lavoro e i beni strumentali 
                  che usano, mentre la produzione dei beni finali avviene con 
                  la collaborazione di più soggetti (pp. 172-178). I Magazzini 
                  sociali sono un'istituzione in cui una parte significativa dei 
                  beni finali «rimane proprietà di tutti coloro che 
                  partecipano all'unità produttiva, e quindi [è] 
                  posta “sotto il governo di tutti quelli che la compongono” 
                  (Proudhon)» (pp. 168-69). Candela sostiene una tesi originale: 
                  nei Magazzini sociali i beni sono anti-commons, «poiché 
                  ogni atto di consumo deve acquisire il consenso di tutti i proprietari» 
                  (p. 172). Questa tesi implica che i Magazzini siano inefficienti. 
                  Infatti l'anti-common è un bene sul quale troppi 
                  proprietari vantano diritti d'uso; ciò rende difficile 
                  a chiunque il suo pieno utilizzo, potendo subire parziali proibizioni 
                  da parte degli altri proprietari. In breve, troppi hanno diritto 
                  di esclusione su una risorsa scarsa; da ciò l'inefficienza. 
                  Ma vorrei obiettare: perché, in anarchia, le risorse 
                  condivise dovrebbero essere anti-commons? Come ci ricorda 
                  Carol Rose in The comedy of the commons, la proprietà 
                  non è soltanto, come “proprietà privata”, 
                  il diritto di escludere gli altri dall'uso o dal godimento di 
                  qualcosa; è anche, come “proprietà intrinsecamente 
                  pubblica”, il diritto di non essere esclusi, di partecipare 
                  alla vita e alla ricchezza comuni, di avere accesso gli uni 
                  agli altri. «Al di là della semplice proprietà 
                  privata e della “pubblica proprietà” soggetta 
                  al controllo statale, esiste la categoria distinta della “proprietà 
                  intrinsecamente pubblica”, non controllata interamente 
                  né dallo stato né da soggetti privati. È 
                  la proprietà “posseduta” e “gestita” 
                  collettivamente dalla società in generale, e vanta una 
                  titolarità che si sottrae ai titoli di qualsiasi pretesa 
                  autorità gerente, e anzi prevale su di essi» (Rose, 
                  1986, p. 720). 
                  Candela annota (p. 190) che una proprietà collettiva, 
                  sostituendosi alle tante proprietà individuali, risolverebbe 
                  l'inefficienza dei Magazzini sociali. Ciò però 
                  succede non soltanto, come lui sembra credere, se la proprietà 
                  è pubblica statale, come nel comunismo di stato, bensì 
                  anche se i soggetti rinunciano volontariamente ai (troppi) diritti 
                  di proprietà privata (che genererebbero gli anti-commons) 
                  a favore della “proprietà intrinsecamente pubblica”. 
                  A sua volta, perché i soggetti dovrebbero passare da 
                  un regime di proprietà privata o pubblica a uno di “proprietà 
                  intrinsecamente pubblica”? A mio avviso, una prima risposta, 
                  in linea con la migliore riflessione marxista e anarchica, segnala 
                  che le forze produttive sono ormai direttamente sociali; che 
                  non ha senso né è possibile misurare la produttività 
                  individuale di un lavoratore, e che è “nelle cose” 
                  che la grande parte della ricchezza sociale sia prima appropriata/condivisa 
                  comunitariamente e quindi distribuita secondo criteri differenti 
                  da quelli che stabilirebbe il mercato. Una seconda e complementare 
                  risposta osserva che vi sono beni/servizi il cui valore cresce 
                  al crescere del numero di quelli che li condividono. Sono i 
                  beni/servizi a costo marginale (quasi) zero come la conoscenza, 
                  la formazione, la socializzazione e la partecipazione; ma sono 
                  altresì i beni/servizi che perderebbero il loro valore 
                  economico se avessero un accesso razionato, come le piazze cittadine 
                  o il web. Questi fondamentali beni/servizi centrati sullo sharing 
                  sono, a mio avviso, l'altra ragione decisiva dei Magazzini sociali. 
                  Come scrive l'antropologo Matteo Aria: «potremmo individuare 
                  i primi due tratti distintivi della condivisone nel fatto che 
                  essa non è una forma di scambio, né si costruisce 
                  sulla proprietà privata. Si tratta di un ambito che rispetto 
                  al dono, in cui è stato spesso schiacciato e nascosto, 
                  non implica il possesso e la circolazione dei beni né 
                  ruota intorno all'obbligo di ricambiare e di conseguenza alla 
                  gerarchia, al debito e all'indebitarsi a vicenda. Al contrario, 
                  riguarda quella spinta a condividere che, valorizzando un sé 
                  relazionale diffuso, costruisce, conferma o consolida un gruppo 
                  e una comunità. Azioni e situazioni segnate dal movente 
                  dichiarato o implicito dello stare, del sentire, produrre, agire 
                  e consumare insieme, che piegano l'efficienza, l'utile e l'interesse 
                  economico a funzioni subordinate; dimensioni e impulsi in cui 
                  gli “io” e le affermazioni individuali si dissolvono, 
                  almeno in parte e temporaneamente, nel “noi”». 
                  Pertanto non occorre, come afferma Candela, che nel Magazzino 
                  «ogni atto di consumo de[bba] acquisire il consenso 
                  di tutti i proprietari» (p. 172, corsivo aggiunto). Infatti 
                  il consenso converge su una regola, che è in prima battuta 
                  di condivisione e soltanto in seconda battuta di ripartizione: 
                  siamo d'accordo che lo sharing di una determinata lista 
                  di beni/servizi migliori il benessere di tutti e di ciascuno? 
                  Se lo siamo, come distribuiamo tra noi il contenuto del Magazzino 
                  sociale? 
                 Nicolò Bellanca 
                 All'autore del libro abbiamo chiesto una replica immediata. 
                  La riportiamo qui di seguito. 
                     Economia / ...e risposta 
                  La vera questione è la proprietà privata 
                 Direi 
                  che conviene partire dal seguente esempio di Proudhon, che purtroppo 
                  non ho pensato di riportare nel libro, mentre rende molto chiara 
                  la sua idea del 1840 sulla proprietà. L'esempio di riferimento 
                  è quello noto come l'obelisco di Luxor. Si parte 
                  dalla constatazione della differenza fra lavoro isolato e lavoro 
                  comune. Un uomo da solo può erigere un piccolo obelisco, 
                  mentre “la forza immensa che risulta dall'unione e dall'armonia 
                  dei lavoratori, dalla convergenza e dalla simultaneità 
                  dei loro sforzi” può erigere l'obelisco di Luxor. 
                  Il tema proudhoniano è: chi ha la proprietà dell'obelisco 
                  di Luxor? 
                  Risponde Proudhon (Che cos'è la proprietà?, 
                  cap. 5): “La mia tesi è questa: Il lavoratore 
                  conserva, anche dopo aver ricevuto il suo salario, un diritto 
                  naturale di proprietà sulla cosa che ha prodotto” 
                  (corsivo nell'originale). 
                  Il lavoro comune ha creato un valore, l'obelisco di Luxor, e 
                  questo valore è di tutti i lavoratori che vi hanno partecipato, 
                  conservandone la proprietà. Secondo Proudhon questo principio 
                  si applica a ogni prodotto frutto di lavoro comune: “un 
                  deserto da mettere a coltura, una casa da costruire, una manifattura 
                  da mantenere in esercizio è come l'obelisco da sollevare”. 
                  Allora: il piccolo obelisco (nell'esempio del mio libro, il 
                  pane o il burro) è di proprietà individuale, mentre 
                  l'obelisco di Luxor (nell'esempio del libro, il pane col burro) 
                  ha più proprietari, cioè tutti i lavoratori (anche 
                  l'imprenditore, dice Proudhon) che hanno contribuito a quello 
                  specifico sforzo comune. Cosicché ho proposto di interpretare 
                  i piccoli obelischi come modello di proprietà unica e 
                  quello di Luxor come modello di anti-common à la Heller. 
                  I prodotti del lavoro comune sono collocati nei Magazzini sociali, 
                  governati per questo da un principio di costo (prezzo vero), 
                  e non nell'impresa in cui un capitalista pretende, pagando il 
                  salario, di escludere gli altri lavoratori dalla proprietà 
                  del loro prodotto, assumendosi così il diritto alla massimizzazione 
                  del profitto. In estrema sintesi, tuttavia, l'inefficienza dei 
                  Magazzini sociali è causata da un equilibrio Cournot-Nash, 
                  effetto del residuo di egoismo individuale implicato dalle singole 
                  proprietà private dei lavoratori. 
                  Comprendo la simmetria dei dilemmi del common ed anti-common, 
                  ma mi sembra che questo modello interpretativo si adegui bene 
                  ad illustrare il pensiero di Proudhon, anche se molti altri 
                  modelli di riferimento potrebbero essere proposti; semmai il 
                  limite del mio ragionamento è nell'assumere come benchmark 
                  dell'efficienza proprio la proprietà privata. In questo 
                  senso si può infatti affermare che Hardin e Heller “sono 
                  dentro un approccio liberale”. Tuttavia, ho fatto questa 
                  scelta perché ho voluto contrapporre lo stato e l'anarchia 
                  sia con riferimento al pensiero economico ortodosso sia usando 
                  il metodo del mainstream: infatti ho pensato che, data 
                  la poca conoscenza dei temi dell'anarchismo fra gli economisti 
                  dell'accademia, una critica interna potesse essere più 
                  efficace di una critica esterna. Questa scelta è stata 
                  valutata positivamente da alcuni referee dell'editore. 
                  Solo nella Parte terza si introduce il dubbio che, inserendo 
                  l'ambiente nel modello, si possa motivare un diverso criterio 
                  di benchmark, e quindi sublimare l'inefficienza dei Magazzini 
                  sociali, o che è lo stesso abbandonare la proprietà 
                  privata come criterio di comparazione. Entrando così 
                  in una visione à la Bookchin. 
                  Comunque il riferimento al metodo mainstream mi sembra 
                  sia stato utile nel dimostrare che solo espellendo, con l'altruismo, 
                  dal modello dei Magazzini sociali il residuo di massimizzazione 
                  implicato dalle singole proprietà private individuali 
                  si può recuperare all'anarchia la stessa efficienza della 
                  proprietà privata. L'equità invece è comunque 
                  implicata dalla condivisione, tema su cui tornerò fra 
                  poco. 
                  Come tu dici, ho trascurato l'approccio di Rose, le “proprietà 
                  intrinsecamente pubbliche”, che invece – come sostieni 
                  – sono una categoria di largo interesse in ogni organizzazione 
                  sociale, comunismo, capitalismo ed ovviamente anche in anarchia. 
                  La mia trascuratezza della categoria economica è un po' 
                  dovuta all'ignoranza e per altro verso al metodo assunto. Nel 
                  modello a due dimensioni non poteva esservi differenza tra un 
                  anti-common di Alef e Bet ed una proprietà intrinsecamente 
                  pubblica di Alef e Bet. In modelli di maggiore dimensione, più 
                  agenti e più beni, vi possono essere sia molti 
                  beni anti-common nei Magazzini sociali, come “scarpe, 
                  zappe, tablet, tagli di capelli, prestazioni sanitarie e così 
                  via”, proprietà degli specifici lavoratori che 
                  hanno contribuito a quella specifica produzione (e scambiati 
                  tramite i voucher), sia beni di proprietà comune 
                  di tutti i lavoratori, seguendo gli esempi e le motivazioni 
                  di Rose. L'anarchismo ovviamente comprende ed esalta questi 
                  beni, spesso immateriali, ed è un mio limite averli trascurati. 
                  Infine, è vero che il Magazzino sociale implica la “condivisione” 
                  della ricchezza prodotta. Secondo Proudhon e Bakunin il criterio 
                  di ripartizione è “a ciascuno secondo il suo lavoro”, 
                  mentre per Kropotkin è “a ciascuno secondo i suoi 
                  bisogni”: nel lavoro comune, non è possibile misurare 
                  la produttività individuale di un lavoratore. La soluzione 
                  che propongo nel testo, accennata ma forse troppo poco rimarcata 
                  a livello di penna, è uno sharing “aperto”, 
                  cioè un qualsiasi criterio è valido purché 
                  condiviso in una scelta pubblica espressa dal comitato dei lavoratori 
                  proprietari. A questo proposito, nella Parte prima, richiamandomi 
                  alla teoria delle scelte pubbliche, sostengo che affinché 
                  questa soluzione sia possibile è necessario che i lavoratori 
                  abbiamo preferenze non-autoritarie e non-invadenti: nello specifico 
                  dei Magazzini sociali, ad esempio, non-autoritarie significa 
                  che per la distribuzione dei voucher non vi siano imposti 
                  a priori; non-invadenti significa che alcuni non pretendano 
                  di più solo per impedire ad altri di averlo. Con questa 
                  interpretazione, mi sembra che la condivisione, come tu stesso 
                  sostieni, sia elemento essenziale per l'anarchismo classico 
                  e post-classico. 
                 Guido Candela 
                     Leggere l'ILVA, 
                  vero e proprio disastro ambientale 
                 Nell'esaminare 
                  i problemi dell'ILVA, come proposti da tre testi significativi 
                  da poco pubblicati (Giuliano Pavone, L'eroe dei due mari; traduzione 
                  in fumetto de “L'eroe dei due mari”, curata da Emanuele 
                  Boccafuso, Virginia Carluccio, Gabriele Benefico, Walter Trono 
                  ed Alberto Buscicchio, con un contributo di Alessandro Marescotti; 
                  i testi e le storie a fumetti di Carlo Gubitosa e Kanjano in 
                  ILVA, comizi d'acciaio) vorremmo ricordare che alcune di queste 
                  problematiche si vanno chiarendo a seguito dei pieni poteri 
                  concessi al commissario ILVA, Enrico Bondi e dal fatto che l'Italia 
                  si è trovata nel mirino dell'UE a causa dell'ILVA. 
                   Le 
                  autorità italiane hanno sempre saputo, ma fingono ancora 
                  di non vedere. Al momento, continuano a garantire all'Ilva di 
                  poter produrre come ha sempre fatto negli ultimi 20 anni. Vogliamo 
                  portarvi la testimonianza del fatto che a Taranto la situazione 
                  non è cambiata, e che tutte le presunte misure prese 
                  dalle istituzioni non sono state efficaci e anche se lo fossero 
                  state, esse non sono state messe in opera. Noi - ha spiegato 
                  Antonia Battaglia, portavoce del Fondo AntiDiossina di Taranto 
                  e di PeaceLink al Parlamento Europeo - stiamo morendo di diossina, 
                  di inquinamento, di aria. Si può morire perché 
                  si respira? Sì, si può. Siamo qui per gridare 
                  con tutta la nostra forza il nostro bisogno di aiuto, la nostra 
                  sete di giustizia. Vi portiamo i sussurri disperati delle mamme 
                  all'Ospedale Moscati di Taranto in attesa che i loro bambini 
                  vengano operati di cancro. Vi portiamo la speranza degli operai 
                  dell'Ilva, la speranza di poter lavorare senza morire. Vi portiamo 
                  le lacrime della gente, la voce di una città a lutto 
                  che ha bisogno dell'aiuto dell'Europa, che ha bisogno di ciò 
                  per cui i nostri magistrati a Taranto lottano e che ci è 
                  negato: la giustizia. 
                  “Noi non vogliamo morire per la produzione, lo abbiamo 
                  fatto per decenni, è ora di cambiare e abbiamo bisogno 
                  del vostro aiuto. Per favore, non lasciate che il nostro appello 
                  cada nel vuoto”. Queste le parole di disperazione dei 
                  cittadini di Taranto contenute anche nei libri di Carlo Gubitosa 
                  e Giuliano Pavone. 
                  Nel suo romanzo L'eroe dei due mari (Marsilio, Venezia, 
                  2010, pp. 304, € 17,00), Giuliano Pavone ci racconta un 
                  divertente e ben impostato imbroglio calcistico che interessa 
                  tutta la città, non solo quindi i tifosi della squadra, 
                  portandoci nello specifico del paesaggio urbano, dell'impianto 
                  siderurgico, dell'insieme del disegno urbanistico tarantino 
                  che potremmo definire “anonimo”. Tra una partita 
                  e l'altra, tra un gol segnato ed uno mancato, si evidenzia il 
                  contesto ambientale del centro siderurgico, a seguito della 
                  morte di tre operai dell'ILVA nel momento in cui tutti stanno 
                  allo stadio impegnati in una tifoseria che può sconvolgere 
                  solo chi non frequenta gli stadi. Il giocatore Cristaldi, il 
                  brasiliano che avrebbe dovuto portare la squadra in serie A, 
                  stordito dall'evento delle morti in fabbrica, diventa inconsapevolmente 
                  l'uomo della denuncia pubblica quando scende in campo con una 
                  maglia, la quale porta una scritta su morti ed inquinamento, 
                  una decisione che costerà cara a lui, alla squadra e 
                  alla città... 
                  A sua volta il testo ILVA, comizi d'acciaio (BeccoGiallo, 
                  Padova, 2013, pp. 192, € 15,00) denuncia come l'ILVA si 
                  collochi al secondo posto, dopo la centrale termoelettrica Federico 
                  Secondo di Brindisi, fra i 10 impianti italiani che più 
                  fanno male all'ambiente (pag. 64) e non dimentica di ricordare 
                  i lavoratori dell'ILVA come “i martiri dell'acciaio” 
                  a causa delle patologie rilevate in rapporto al resto della 
                  popolazione (pag. 118). Interessante anche la traduzione in 
                  fumetto del romanzo di Pavone, arricchita dalla specifica valutazione 
                  di tutte le patologie che colpiscono operai del siderurgico 
                  e popolazione urbana. 
                 Laura Tussi 
                     L'anarchismo di ieri 
                  e l'anarchismo di oggi 
                La casa editrice Virus ha pubblicato l'ultimo libro di Tomás 
                  Ibáñez Anarquismo es movimiento* (Barcellona, 
                  2014, pp. 152, € 12,00), nel quale – come riferisce 
                  la quarta di copertina – l'autore affronta la “potente 
                  vitalità” di cui gode oggi l'anarchismo “nell'intero 
                  pianeta” e ci invita e “scoprire le ragioni e le 
                  nuove modalità di tale rinascita, che si manifesta in 
                  particolar modo nel neo-anarchismo e nel post-anarchismo”. 
                  In effetti Anarquismo es movimiento è un libro 
                  denso di idee (anche se non è un testo lungo: ha solo 
                  150 pagine) sull'”impetuoso rinascere dell'anarchismo 
                  nel XXI secolo” e sul “processo grazie al quale 
                  si è reinventato sul triplice piano delle pratiche, della 
                  teoria e della diffusione sociale”, che apre “prospettive 
                  eccellenti per tutte le pratiche di resistenza, di sovversione 
                  e di ribellione che si oppongono alle imposizioni del sistema 
                  sociale vigente”. Ma, soprattutto, come sottolinea l'autore, 
                  è un libro “politicamente impegnato a favore dei 
                  nuovi modi di concepire e di praticare l'anarchismo”: 
                  sia per “contribuire a dare impulso al nuovo anarchismo 
                  che si sta sviluppando” sia per “aiutare a riformularlo 
                  nel contesto dell'epoca attuale”.
                 
                   
                     | 
                   
                   
                    |   La prima edizione italiana del libro di Tomás Ibáñez  
                  è stata recentemente pubblicata  da Elèuthera (pp. 
                  144, € 13,00)  | 
                   
                 
                Il libro di Tomás Ibáñez è qualcosa 
                  di più di un semplice invito a scoprire e analizzare 
                  il motivo che sta alla base di questa “rinascita dell'anarchismo” 
                  (io direi piuttosto della riattualizzazione del concetto e della 
                  pratica dell'anarchia). Di fatto, si tratta anche di una presa 
                  di posizione che abbraccia queste nuove forme “di concepire 
                  e di praticare” l'anarchia. Vale a dire che, oltre a essere 
                  un libro didattico, è anche un libro polemico, dato che 
                  il suo autore afferma che tale rinascita dell'anarchismo “apre, 
                  infatti, la possibilità di moltiplicare e di intensificare 
                  le lotte contro i dispositivi di dominio, di vanificare più 
                  spesso gli attacchi alla dignità e alle condizioni di 
                  vita delle persone, di sovvertire le relazioni sociali improntate 
                  dalla logica mercantilistica, di strappare spazi per vivere 
                  in un altro modo, di trasformare le nostre soggettività, 
                  di diminuire le disuguaglianze sociali e di ampliare lo spazio 
                  aperto all'esercizio delle pratiche di libertà”. 
                  E lo è perché il suo autore, nell'affermare le 
                  possibilità (reali, non chimeriche) che tale rinascita 
                  dell'anarchismo apre per potenziare le lotte di emancipazione, 
                  ci incita a viverle non in un ipotetico e lontano “domani 
                  o dopodomani”, bensì nel presente; perché 
                  “è nel qui e ora che si realizza l'unica rivoluzione 
                  che esiste e si vive realmente, nelle nostre pratiche, nelle 
                  nostre lotte e nel nostro modo di essere”. 
                  Il libro, quindi, è polemico e lo è sin dall'inizio, 
                  e persino sin dal titolo stesso... Ritenere che l'anarchismo 
                  “è movimento” significa già aprire 
                  il dibattito... Che cosa intende dire Tomás Ibáñez 
                  definendolo in questo modo? Intende forse differenziarlo dai 
                  “guardiani del tempio”, da coloro che “vogliono 
                  preservare l'anarchismo nella forma esatta nella quale lo avevano 
                  ereditato, a rischio di asfissiarlo e di impedirne l'evoluzione?”. 
                  Inoltre, definire rinascita questo fenomeno di riattualizzazione 
                  dell'anarchismo è, come riconosce lui stesso, ritenere 
                  che “era più o meno “scomparso” da 
                  qualche tempo”. È così? Era “scomparso” 
                  o si trattava soltanto di una “eclisse provvisoria”? 
                  Per saperlo, per “accertarsi che le cose siano andate 
                  effettivamente così”, Tomás ci invita a 
                  gettare “un rapidissimo sguardo” alla storia dell'anarchismo, 
                  pur tenendo conto, previamente, di “due scenari teorici 
                  in cui la questione di una eventuale eclisse dell'anarchismo 
                  non si porrebbe neppure...”. Il primo di questi scenari 
                  sarebbe quello nel quale della dicotomia “anarchia versus 
                  anarchismo”, si assume come riferimento l'anarchia più 
                  che l'anarchismo, poiché si ritiene che l'anarchia sia 
                  “una entità ontologicamente distinguibile”, 
                  una “delle molteplici modalità possibili della 
                  realtà”; vale a dire: se attribuiamo al termine 
                  anarchia un significato essenzialista e metafisico invece del 
                  suo significato etimologico, cioè senza dirigenti, senza 
                  sovrani, senza governi. L'altro scenario, che non ha neppure 
                  senso porre, è quello che si presenterebbe se si separa 
                  “l'anarchismo in quanto movimento, da un lato, e l'anarchismo 
                  in quanto contenuto teorico, dall'altro”; perciò, 
                  non solo “gli elementi concettuali o assiologici che lo 
                  caratterizzano” non sono separabili “da un pensiero 
                  sociale che prende forma nell'ambito di condizioni politiche, 
                  economiche, culturali e sociali molto precise, e a partire da 
                  lotte sociali determinate”, ma anche perché, per 
                  accettare una simile separazione, si dovrebbe previamente accettare 
                  l'esistenza di due mondi differenti, come postulavano Platone 
                  e i dualisti (di allora e di oggi). 
                  Così, se “anarchia e anarchismo sono due elementi 
                  inseparabili di un tutto”, in quanto espressione di un 
                  desiderio e di una scommessa per la libertà contro l'autorità, 
                  se inoltre è necessario fondere in “un tutto inscindibile 
                  l'anarchismo come corpus teorico e l'anarchismo come movimento 
                  sociale”, come non riconoscere che, fino a questo punto 
                  e nonostante possibili divergenze riguardo la pertinenza semantica 
                  di questa o quella parola, espressione o concetto, è 
                  difficile non concordare con Tomás in questa prima parte 
                  del suo libro se non si è un anarchico essenzialista 
                  o piattaformista dell'ultima ora. Dove l'identità di 
                  opinioni comincia a essere più polemica è a partire 
                  dalle sue “brevi considerazioni storiche” su una 
                  storia, la storia dell'anarchismo, la quale, come l'autore riconosce 
                  “ha riempito migliaia di pagine e continuerà a 
                  riempirne ancora migliaia”. 
                  È logico che, a partire da questo punto, il libro diventi 
                  più polemico, dato che riassumere in poche righe una 
                  storia così ricca e lunga provoca possibili disaccordi, 
                  poiché la storia, nonostante la pretesa di obiettività 
                  degli storici, è un campo nel quale il soggettivismo 
                  l'ha sempre fatta da padrone. Ma, nonostante i possibili disaccordi 
                  e le polemiche che possono suscitare, l'importante è 
                  che Tomás li prenda in considerazione e che non abbia 
                  paura di dire ciò che pensa. Proprio perché preferisce 
                  suscitare il dibattito argomentando le sue posizioni invece 
                  di rincorrere una approvazione non argomentata. 
                  Così, riassumendo la storia dell'anarchismo a partire 
                  dalla “Rivoluzione francese del 1848, con gli scritti 
                  di Joseph Déjacque, di Anselme Bellagarrique e, soprattutto, 
                  di Pierre-Joseph Proudhon” per arrivare alla Rivoluzione 
                  spagnola del 1936, Tomás afferma che “l'anarchismo 
                  nel corso di questi anni fu un pensiero vivo [...] in contatto 
                  con il mondo nel quale è inserito [...], capace di incidere 
                  sulla realtà”. E, sulla storia successiva e fino 
                  alla fine degli anni sessanta, Tomás ci dice che “l'anarchismo 
                  si ripiegò, si contrasse e praticamente scomparve dalla 
                  scena politica mondiale e dalle lotte sociali per numerosi decenni”, 
                  e “invece di essere una pellicola in movimento” 
                  [...], l'anarchismo andò fossilizzandosi dagli anni quaranta 
                  del Novecento sin quasi alla fine degli anni sessanta”. 
                  Si tratta di affermazioni che, senza dubbio, susciteranno discussioni. 
                  Quindi, benché alcuni di noi le accettino come considerazioni 
                  generali di quei periodi per quanto riguarda l'anarchismo “ufficiale” 
                  (quello delle organizzazioni che pretendevano di monopolizzarlo), 
                  non ci sembra che corrispondano all'anarchismo di coloro che 
                  combattevano tale fossilizzazione e si sforzavano di essere 
                  coerenti con un anarchismo vivo e in contatto con il mondo del 
                  suo tempo.
                 
                 Analogamente, susciterà polemica anche ciò che 
                  afferma sulla “rinascita libertaria”. Non solo perché 
                  colloca tale rinascita alla fine degli anni sessanta, ma anche 
                  perché ritiene che non avrebbe potuto “spuntare 
                  una nuova tappa di fioritura anarchica” senza i “grandi 
                  movimenti di opposizione alla guerra del Vietnam” nei 
                  “campus di Stati Uniti, Germania, Italia o Francia” 
                  e senza “lo sviluppo in una parte della gioventù 
                  di atteggiamenti anticonformisti, sentimenti di ribellione contro 
                  l'autorità e di sfida nei confronti delle convenzioni 
                  sociali e, infine, con la favolosa esplosione del Maggio '68 
                  in Francia”. 
                  E ciò non solo perché colloca l'origine di tale 
                  fioritura in quei movimenti e più particolarmente nel 
                  Maggio '68, ma anche perché non analizza il motivo per 
                  cui quei movimenti riuscirono a provocarla, nonostante fosse 
                  evidente che, come lui stesso ammette, nessuno di quei movimenti 
                  fosse o potesse essere considerato propriamente “anarchico”: 
                  sia per l'obiettivo concreto che li ha suscitati sia per il 
                  numero di anarchici che vi hanno partecipato. E la stessa cosa 
                  si può dire del favore di cui ha goduto ultimamente l'anarchismo 
                  nelle lotte, nelle piazze e persino negli ambienti culturali 
                  e universitari. 
                  Per questi motivi non deve sorprendere che Tomás concluda 
                  questo primo capitolo, dedicato alla “impetuosa rinascita 
                  dell'anarchismo nel XXI secolo”, ammettendo che “la 
                  rinascita dell'anarchismo ha continuamente fatto passare, per 
                  così dire, di sorpresa in sorpresa” sia lui sia 
                  molti altri; quindi è ovvio che se, quando si sono verificate 
                  queste “sorprese”, fosse stato già consapevole 
                  – come lo è oggi – che è “l'importanza 
                  concessa al fenomeno del potere quella che spiega la potente 
                  attualità dell'anarchismo”, allora non si sarebbe 
                  sorpreso del fatto che l'anarchismo ricompaia e si riattualizzi 
                  in tutte quelle occasioni in cui si pone in modo concreto la 
                  lotta contro la dominazione. Non solo perché l'anarchismo 
                  è l'espressione teorica e pratica più in consonanza 
                  con il rifiuto di tutte le forme in cui la dominazione si manifesta, 
                  ma anche perché da tempo la storia lo ha “assolto 
                  dall'accusa di essere rimasto cieco di fronte alle cause principali 
                  dell'ingiustizia e dello sfruttamento, che alcuni situavano 
                  esclusivamente nell'ambito dell'economia”. Né dobbiamo 
                  dimenticare che da molto tempo la storia ha evidenziato il carattere 
                  illusorio delle alternative che promettevano la libertà 
                  attraverso la sottomissione. 
                  Ebbene, non è perché Tomás è consapevole 
                  di ciò né perché ciò costituisce 
                  la base della sua analisi che il terzo e quarto capitolo del 
                  libro, smetteranno di dare adito alla discussione e alla polemica. 
                  Anzi, poiché sia la rinascita/rinnovamento sia il post-anarchismo 
                  sono problematiche che, nonostante siano motivate da un indiscutibile 
                  desiderio di perfezionismo dell'anarchismo che li ha preceduti, 
                  sono necessariamente sottomesse al soggettivismo interpretativo 
                  dei lettori, così come lo sono a quello dei protagonisti 
                  di tali iniziative innovatrici... 
                  Infine, che tale rinnovamento assuma la forma che Tomás 
                  definisce neo-anarchismo, su un piano più pratico, e 
                  post-anarchismo su un piano più teorico, e che entrambe 
                  derivino da “una nuova analisi dei rapporti di potere 
                  e delle caratteristiche assunte dall'esercizio del potere nella 
                  società contemporanea”, non le avalla come forme 
                  definitive dell'anarchismo odierno e ancor meno le esime da 
                  critiche e polemiche. Perché è evidente che una 
                  cosa è integrare nella riflessione anarchica “la 
                  critica post-strutturalista/post-moderna, soprattutto nella 
                  sua variante foucaultiana” e un'altra è ridurre 
                  l'anarchismo a tale critica. Soprattutto perché, come 
                  riconosce Tomás per il post-anarchismo, quest'ultimo 
                  e l'anarchismo classico “si differenziano, di fatto, piuttosto 
                  poco”, e anche perché lo stesso Saul Newman “ha 
                  addolcito, per così dire, la sua critica nei confronti 
                  dell'anarchismo classico, sfumando le recriminazioni contro 
                  i suoi contenuti moderni e prestando maggiore attenzione alle 
                  continuità che alle contrapposizioni tra i due anarchismi”. 
                  Il che trasforma il post-anarchismo in un esercizio di pura 
                  “creatività intellettuale anarchica”. 
                  Da ciò discende il fatto che, consapevole che le sue 
                  convinzioni come le sue ipotesi “possono suscitare adesioni 
                  in alcuni oppure provocare riserve in altri”, Tomás 
                  ci propone, nel quinto e ultimo capitolo del libro, una “prospettiva 
                  libertaria” sulla base di cinque questioni, che lascia 
                  aperte come possibili piste dei “percorsi attraverso i 
                  quali l'anarchismo dovrà imboccare, con passi più 
                  decisi di quelli praticati oggi, per proseguire nella sua espansione 
                  e approfondire il suo rinnovamento”. 
                  Si tratta di piste che sicuramente susciteranno adesioni e riserve, 
                  come quelle suscitate nei quattro capitoli precedenti e quelle 
                  che potranno suscitare le tre Adendas che completano 
                  il libro. Sono Adendas che, poiché riguardano 
                  “la questione del moderno e del postmoderno, il post-strutturalismo 
                  e il relativismo”, possono essere consultate da quanti 
                  desiderano “approfondire più in specifico” 
                  quello che è “l'argomento principale del libro”. 
                  Cosa che, a mio parere, aumenta l'interessa della lettura di 
                  Anarquismo es movimiento. 
                  Octavio Alberola 
                  traduzione dal castigliano di Luisa Cortese 
                  
                 * Questo libro sarà prossimamente pubblicato 
                  in francese, italiano e portoghese e può essere scaricato 
                  al sito www.viruseditorial.net/pdf/anarquismo_es_movimiento_baja.pdf.  
                  
                   
				Il vescovo 
                  “dimissionato” 
                Nelle prime competizioni elettorali della nascente Repubblica 
                  italiana, in quelle dal '46 al '49, nei paesi che ricadevano 
                  nella diocesi di Patti (Me), il partito della Democrazia Cristiana 
                  subiva clamorose sconfitte alle amministrative mentre risultava 
                  vincente in quelle nazionali. La colpa del fallimento, i notabili 
                  locali della D.C., la attribuirono al vescovo, Angelo Ficarra, 
                  che poco o nulla faceva, secondo loro, per propagandare il partito 
                  dei cattolici e i suoi candidati: e se ne lamentarono con la 
                  Santa Sede, richiedendo, peraltro, un duro intervento dell'organismo 
                  preposto al controllo dei vescovi, affinché si convincesse 
                  monsignor Ficarra a “dimettersi”. Cosa che avvenne 
                  nel '53, rendendo la vicenda di Ficarra, nel clima problematico 
                  del secondo dopoguerra, emblematica dell'impossibilità 
                  di dissentire, all'interno della chiesa, dalla gerarchia e di 
                  pensare come distinte le sfere della politica e della religione.  
                  Rimosso in fretta dalla memoria del clero siciliano e poco citato 
                  nelle ricostruzioni delle vicende storiche della chiesa nell'Isola, 
                  il “caso Ficarra” venne scoperto da Sciascia, che 
                  ne scrisse, nel '79, in Dalla parte degli infedeli ed 
                  ora viene ripreso con approfondito acume analitico da Enzo Pace 
                  (Angelo Ficarra. Un vescovo senza chiesa, Morcelliana, 
                  2014, pp. 152, € 15,00) che mostra come, oltre alle ragioni 
                  politiche del “dimissionamento” forzato di Ficarra, 
                  ve ne fossero altre, legate alla sua visione modernista del 
                  cattolicesimo, inaccettabile in quegli anni ma anticipatrice 
                  del Concilio Vaticano II. 
                 Silvestro Livolsi 
                     
				Sale da ballo 
                  e rivoluzione 
                La società spesso perdona il criminale 
                  ma non perdona mai il sognatore 
                  Oscar Wilde, Il critico come artista 
                  
                 È da poco uscito anche in Italia (con oltre sei mesi 
                  di ritardo dalla prima mondiale) Jimmy's Hall (2014, 
                  109 min.) ultimo film di Ken Loach. Ultimo nel senso di più 
                  recente, e nel senso che sarà l'ultimo – stando 
                  alle dichiarazioni del regista. Che senso e valore può 
                  avere “la critica da giornale” di un film? Giustificare 
                  una valutazione da 1 a 10? Scrivere quattro righe per orientare 
                  il pubblico? Lasciamo questo ingrato mestiere ai professionisti 
                  salariati che lo fanno per guadagnare la pagnotta, e che hanno 
                  visto in questo film: “un invito alla gioiosità 
                  per la sinistra europea”, “il ruolo repressore della 
                  Chiesa”, “un western politico dove i cattivi vincono 
                  sui buoni”. 
                  Non so che senso possa avere scrivere delle parole riguardo 
                  a un film (quindi soprattutto ad un'emozione); lo faccio per 
                  Loach e per me, per “riflettere”, per un'urgenza 
                  di dire qualcosa in più, perché questo spettacolo 
                  merita di proseguire anche dopo calato il sipario. Perché 
                  non si perda tutto nel senso di straniamento e leggera desolazione 
                  che accompagna sempre la fine di qualsiasi film. Jimmy's 
                  Hall non merita questo. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Una scena del film Jimmy's Hall  | 
                   
                 
                 Il genio Stanley Kubrik aveva ammesso di non essersi mai veramente 
                  posto il problema del cinema, ovvero perché uno strumento 
                  tecnico (la cinepresa) dovesse venir utilizzato soltanto (almeno 
                  “artisticamente”) per “rendere” sullo 
                  schermo un racconto, una storia, o ciò che ha sostituito 
                  la pièce teatrale. Lo stesso fa Loach, come tanti 
                  altri registi di successo: non sperimenta, non cerca avanguardismo, 
                  semplicemente accetta le regole del “cinema come spettacolo” 
                  e gioca a quel gioco. Se Loach lo ha fatto sempre bene è 
                  prima di tutto perché ha sempre fatto coincidere l'estetica 
                  con l'etica (e viceversa); la non improvvisabile conditio 
                  sine qua non che (almeno nel contesto contemporaneo di decomposizione 
                  e corruzione artistica), dal cinema alla letteratura, dal teatro 
                  alle arti figurative, differenzia l'artista dalla schiera sempre 
                  più vasta degli intrattenitori, dei professionisti-dilettanti, 
                  di chi ne ha solo velleità. Per questo Loach è 
                  tra i pochissimi che meritano attenzione. Tanto più se 
                  si tratta del film che ne dovrebbe segnare l'uscita di scena. 
                  Già dalle anticipazioni dello show, si può dire 
                  almeno una cosa: l'Irlanda. Loach torna a scegliere l'Irlanda, 
                  dopo l'Agenda Nascosta, dopo il capolavoro The wind 
                  that shakes the barley. Sceglie l'Irlanda per la terza volta, 
                  anche per il suo ultimo film. E questo è già dire 
                  qualcosa, considerando come gli inglesi - al connazionale Loach 
                  - non hanno mai perdonato la sua netta presa di posizione in 
                  favore dell'Irlanda. 
                  Su Jimmy's Hall non ci sarebbe molto da dire, ad un livello 
                  base di “lettura”: è un racconto che può 
                  emozionare alcuni, annoiare altri. La premiata coppia Laverty 
                  (sceneggiatura) e Loach sviluppa una storia dalla trama volutamente 
                  “banale” sulla figura di James Gralton, attivista 
                  sociale irlandese degli anni '20 – '30, realmente vissuto. 
                  Il soggetto non ha la carica emotiva o immaginaria che può 
                  venir data dalla guerra civile spagnola o la guerra d'indipendenza 
                  irlandese, e neanche l'agilità e la godibilità 
                  di un'intelligente commedia. Tuttavia Jimmy's Hall compensa 
                  alla grande offrendo altri livelli di lettura, e infiniti piani 
                  che si intersecano. È impossibile raccontare un film 
                  a parole, stupido dare giudizi, ma è possibile e opportuno 
                  elaborare delle emozioni, condividere delle prospettive. 
                  Scegliendo un tale soggetto (isolato nel tempo, nello spazio, 
                  nella Storia), Loach non poteva fare di meglio per poter parlare 
                  dell'urgenza e della battaglia dei nostri giorni, o se preferite 
                  di un secolo dopo le vicende di Jimmy Gralton. C'è una 
                  crisi finanziaria mondiale che aleggia attorno alla campagna 
                  millenaria irlandese, c'è un ordine fasullo (stato e 
                  chiesa, nelle loro effettive e terribili declinazioni locali) 
                  ri-nato dalla “rivoluzione” e “naturalmente” 
                  imposto sulla vita degli abitanti. 
                  Il ritorno di Gralton in un contesto così piccolo e chiuso 
                  rispetto alla New York in cui si era “andato ad esiliare”, 
                  segna l'inizio della fiction, che ruota attorno alla Hall, un 
                  vero “centro sociale”, nel senso non politicizzato 
                  (quindi veramente politico) di casa del popolo, spazio di tutti. 
                  Il pericoloso “comunista” Gralton (così viene 
                  visto dalle allarmate autorità locali) non riesce a stare 
                  “lontano dai guai”, anche se in realtà sono 
                  gli stessi abitanti del luogo, nella loro parte più ribelle 
                  e innocente, a dar voce alla richiesta di riaprire la Hall di 
                  Gralton. E Jimmy sa bene a cosa si andrà incontro, sa 
                  tutto fin dall'inizio. Ma è impossibile non tentare, 
                  non c'è altra scelta. Come sapranno tutti quelli che, 
                  come Gralton, conoscono un senso del dovere che va ben al di 
                  là della cosidetta “educazione civica”. 
                  Jimmy uscendo dalla Hall abbandonata e sorpreso dai suoi amici 
                  sul “luogo del delitto”, risponde a chi gli chiede 
                  se è pronto a ricominciare: “life's too short”. 
                  La vita è troppo breve, per non lottare, per non rischiare, 
                  anche se si trattasse di giocare il tutto per tutto, anche se 
                  in fondo non è che per una piccola sala da ballo. La 
                  vita è troppo breve per non scegliere la parte della 
                  vera giustizia (che ovviamente non è quella da cui Gralton 
                  dovrà sfuggire), per non tentare neanche di costruire 
                  un vissuto quotidiano non solo più giusto, ma più 
                  divertente, più vivo, più felice. Più umano. 
                  E la Jimmy's Hall, che lui ne sia consapevole o meno, 
                  è una sorta di testamento, che Loach ha voluto lasciare 
                  a tutti, a un destinatario generico che potrebbe essere anche 
                  l'universo. 
                  Magari non troppo volontariamente - così come il poeta 
                  trova la poesia per il solo seguire l'assonanza di un verso, 
                  senza “saperlo” - Loach ha voluto indicare nella 
                  Hall una via da seguire nell' “Irlanda” globale 
                  di questi nostri anni, indicando una via fatta di “semplici” 
                  esseri umani che si unificano in uno spazio e un tempo di vita 
                  grazie al processo di costruzione di un gioco collettivo - o 
                  ancor meglio di una danza collettiva - che profuma di dignità, 
                  di giustizia, di vita. 
                  C'è molto altro nel film, che è giusto non tentar 
                  di rendere a parole. Il ruolo del parroco, con la sua cieca 
                  e folle ma consapevole povertà spirituale; l'amorevole 
                  madre di Jimmy preoccupata che gli stivali del figlio siano 
                  puliti e dignitosamente orgogliosa delle sue scelte, tanto nobili 
                  quanto coraggiose (e quindi discutibili). E tutte le figure 
                  minori, sempre nella “banalità” apparente 
                  della trama, prese singolarmente portano piccoli messaggi e 
                  piccoli insegnementi a sé stanti. Come la figlia ribelle 
                  del fascista, il vice parroco (nella sua lieve evoluzione), 
                  i ragazzi in bicicletta (elemento silenzioso che fa da sfondo 
                  a tutto il film, forse anche questo da inserire nel testamento 
                  di Loach?). 
                  Poi c'è la cosidetta “storia d'amore” tra 
                  Gralton e la sua amata O'onag, inventata da Loach e Laverty 
                  ed enfatizzata dal sottotitolo del marketing italiano (Jimmy's 
                  Hall – Una storia d'amore e libertà). Ancor meno, 
                  se c'è di mezzo l'amore tra donna e uomo, è il 
                  caso di rendere a parole un mix di immagini, musiche, dialoghi. 
                  Però una cosa si può dire: è un altro articolo 
                  del “testamento di Loach”; l'unione tra una donna 
                  e un uomo, unione profonda, fisica ma ancor più unione 
                  spirituale, senza tempo, come elemento fondante, sia individuale 
                  che collettivo, di evoluzione nella lotta e nella danza della 
                  vita. Una “lotta” amorosa su cui, in un livello 
                  diverso, incombono in fondo le stesse minacce che vogliono la 
                  chiusura della Hall. 
                  Alla fine la Hall va in fiamme, il pericolo Gralton viene allontanato 
                  per sempre, perché una semplice sala da ballo può 
                  essere abbastanza per smascherare tanti inganni, tanti autoritarsimi 
                  che mantengono, senza un vero motivo, donne e uomini in catene. 
                  Ma alla fine chi sono i vincitori e chi i perdenti? Si può 
                  dire che Gralton, come tanti altri, perde vincendo o vince perdendo. 
                  Ma poco conta. Di sicuro resta il fatto che, in fondo, tutti 
                  perdono una stessa cosa, un qualcosa di grande, di importante, 
                  di gioioso. E perché? Soltanto per follia, per crudeltà, 
                  per arrettratezza culturale, umana, spirituale, per paura. Ma 
                  i giovani diventano vecchi, e i vecchi muiono, e la battaglia 
                  rimasta in sospeso ritorna e ritornerà di continuo, come 
                  ritorna anche oggi dovunque. 
                  Con il suo ultimo sorriso sincero e lieve ai suoi giovani amici 
                  estimatori, Jimmy Gralton non può che dire anche a ciascuno 
                  di loro: “Quanto stai lottando per la giustizia, per la 
                  felicità collettiva? O forse sei disposto a rinunciare 
                  a ogni lotta, e ritirarti a una tranquilla vita privata, dove 
                  dominano l'indifferenza, l'egoismo, la sottimissione?”. 
                
                
                  Senza dubbio Jimmy's Hall è una storia d'amore, 
                  ma non tanto per le pur splendide parentesi di quel surrogato 
                  tanto “pubblicizzato” che è il rapporto uomo-donna, 
                  ma per l'amore come forza universale che unisce e muove tutto 
                  e tutti, e che spinge Jimmy a fare ciò che fa. Quell'amore 
                  che hanno vivo in loro tutti i bambini, gli animali, le piante, 
                  e quell'amore che in padre Sheridan, il parroco nemico di Gralton, 
                  è soffocato e accecato. Quando Gralton dice al parroco 
                  “nel tuo cuore c'è più odio che amore”, 
                  il film ci chiede anche: “Quanto amore c'è vivo 
                  in te? nella tua vita? Quanto ne trasmetti? Quanto odio? Quanta 
                  paura? Quanto coraggio?”. 
                  Un'altra parola chiave del testamento di Loach: il coraggio. 
                  Tutta la figura di Gralton è costruita secondo il cliché 
                  dell'eroe: innazitutto perché è solo, pur essendo 
                  parte di un gruppo (infatti solo lui verrà arrestato, 
                  solo lui scapperà). L'eccezzionalità di questo 
                  eroe, non sta in abilità fisiche, nel maneggio delle 
                  armi, e nemmeno in una particolare elevazione culturale o capacità 
                  oratoria. È eccezzionale perchè ha coraggio, e 
                  in più - in quanto simbolo - ha la capacità di 
                  trasmetterlo agli altri. Il coraggio di Gralton è autentico 
                  coraggio, capacità e forza morale di agire nonostante 
                  la paura (delle conseguenze, del giudizio). Uno stato dell'essere 
                  umano, alla portata di tutti, e un bene prezioso in una società 
                  che lo reprime nella stessa misura con cui “incoraggia” 
                  alla passività e al conformismo. 
                  C'è chi ha voluto vedere similitudini un po' campate 
                  in aria con altri registi, o altre pellicole dello stesso Loach 
                  come Terra e Libertà, o il più recente 
                  Angel's share, oltre all'ovvio richiamo a Il vento 
                  che accarezza l'erba. A me è venuto spontaneo ritornare 
                  a Kes, il primo lungometraggio di Loach (del lontano 
                  1969). Lì si racconta la vicenda di un ragazzino (Billy) 
                  che nello squallore umano e ambientale di un sobborgo industriale 
                  inglese, trova un falchetto. Gli dà un nome, Kes 
                  appunto, e se ne innamora e impara ad addestrarlo, e trova in 
                  Kes l'amore, la gioia e la richezza che né la famiglia, 
                  né la scuola, né niente altro di una vita povera 
                  e crudele riescono a dargli. Fino a quando Kes verrà 
                  barbaramente ucciso, dal “malvagio” fratello maggiore 
                  di Billy. 
                  Ben 45 anni dopo Loach ripropone in fondo lo stesso tema, con 
                  al posto del falco una sala da ballo, al posto di un bambino 
                  un attivista socialista, segnando il passaggio da una dimensione 
                  di individualità e di innocenza, ad una evoluzione che, 
                  per forza di cose, deve essere collettiva. Forse il nucleo del 
                  messaggio di Loach è questo: la battaglia è (deve 
                  essere) collettiva. Solo unendosi gli uni agli altri si può 
                  ottenere una casa dignitosa per tutti, che nessuno venga sfruttato, 
                  che ciascuno abbia il sacrosanto diritto di dedicare la vita 
                  a un falco, a una sala da ballo o a ciò che il suo cuore 
                  più desidera. In una rete di fratellanza, in cui ognuno 
                  corre in soccorso dell'altro; dove non c'entra niente la “politica” 
                  (l'esser “politicizzati”), dove non c'entra niente 
                  né Marx né il Vaticano; dove non c'è nessun 
                  fratello che uccide un altro fratello, nessuna divisione, ma 
                  ci sono protestanti e cattolici che manifestano a Belfast gli 
                  uni a fianco agli altri. 
                  Resta sul film “l'idiozia” di fondo del cinema: 
                  perché spendere energie per ri-creare questa Hall in 
                  una finzione impalpabile e non nella realtà quotidiana? 
                  Se non c'è un giudizio, non è tanto per il sacrosanto 
                  diritto-dovere all'inutilità dell'arte, ma per la speranza 
                  che questo messaggio universale possa essere anch'esso una piccola 
                  scintilla che faccia divampare un fuoco benefico, e che questo 
                  fuoco si propaghi dovunque. 
                  Non so quante persone hanno visto e trovato bello o gradevole 
                  questo film, ma certo sarebbe sufficiente che poche persone 
                  si unissero per fare cose tanto piccole quanto enormemente ammirevoli 
                  e stra-ordinarie; specialmente per chi le crea e chi le vive, 
                  proprio come la Hall di Jimmy. 
                  Ricordando che, non c'è (o almeno non ci dovrebbe essere) 
                  bisogno di nessun Jimmy Gralton per aprire dovunque delle sale 
                  da ballo un po' speciali (anche solo - tanto per iniziare - 
                  come spazi mentali e di relazioni umane), dove possano danzare 
                  gli spiriti, i desideri, i sogni delle persone. Perché 
                  la vita è breve per tutti noi, non solo per Jimmy Gralton. 
                  E come nel film è evidente quanto siano stupidi e malvagi 
                  “i cattivi”, così deve essere evidente quanto 
                  sia stupido e malvagio arrivare un giorno a rimpiangere di non 
                  aver fatto tutto quel che si poteva provare a fare per una vita 
                  più giusta e felice; per tutti, ma prima di tutto per 
                  se stessi, per ciascuno di noi, nell'individuale che può 
                  trovare piena richezza solo nella condivisione collettiva. 
                 Michele Salsi 
                     Donne dietro le sbarre/ 
                  Più consapevoli che vittime. E ribelli 
                 La 
                  ricerca qualitativa (Recluse. Lo sguardo della differenza 
                  femminile sul carcere, Ediesse, Roma, 2014, pp. 315, € 
                  16,00), condotta nel 2013 da Susanna Ronconi, formatrice, Grazia 
                  Zuffa, psicologa, in collaborazione con la Società della 
                  Ragione, nei carceri di Firenze Sollicciano, Pisa e Empoli, 
                  raccoglie e analizza interviste a donne detenute - in gran parte 
                  tra i 26 e 35 anni - personale educativo e agenti di polizia 
                  penitenziaria. La finalità: contenere la sofferenza e 
                  prevenire gesti di autolesionismo e suicidi, con attenzione 
                  alla differenza femminile in un sistema carcerario pensato e 
                  strutturato su un modello maschile. 
                  Lontano da stereotipi, l'analisi rivela che le donne si dimostrano 
                  più consapevoli che vittime, sono le prime nella ribellione 
                  verso l'autorità della pena. Avanzano richieste di forme 
                  alternative alla carcerazione, dimostrando l'estraneità 
                  della donna alle strutture di coercizione. Come sottolinea Susanna 
                  Ronconi, la ricerca rivela l'inganno che attribuisce una minorazione 
                  della donna carcerata a “deficit del femminile”, 
                  anziché addebitarla all'istituzione totale, che di questa 
                  minorazione è costante riproduttrice. 
                  Le narrazioni biografiche denunciano la dimensione della spersonalizzazione, 
                  del corpo percepito come oggetto di controllo, e una forte dose 
                  di sofferenza aggiuntiva per l'attesa protratta senza risposte 
                  alle richieste, seguita da una percezione di impotenza e abbandono. 
                  Soprattutto dalle biografie materne si coglie l'ambivalenza 
                  dell'essere madre in carcere: i primi ad essere sacrificati 
                  sono gli affetti familiari, i figli. La madre carcerata si sente 
                  oppressa da ulteriori sensi di colpa per il ruolo di figlia, 
                  costretta a dover demandare a madri-nonne l'azione di cura dei 
                  propri figli. 
                  Ma essere madre e figlia carcerata può voler dire, allo 
                  stesso tempo, avvertire un debito di cura nei confronti della 
                  propria madre malata. Inoltre, sapere che le relazioni a casa 
                  vengono intessute dalla donna e la sua assenza può determinare 
                  rottura definitiva degli equilibri, già precari, genera 
                  un senso di perdita del ruolo affettivo. 
                  Tuttavia, Grazia Zuffa vede nella rete familiare delle “madri 
                  che curano le madri” un'altra faccia del materno, non 
                  ancora valorizzata. Così come andrebbe ripreso il lavoro 
                  sulla retorica pervasiva e pericolosa della funzione riabilitativa 
                  del carcere: il maschio deve diventare un “onesto cittadino 
                  e lavoratore”, la donna tornare a essere o diventare una 
                  “buona madre” plasmata su un modello liquido, confuso 
                  e molteplice. Tuttavia le donne recluse - solo il 4% di tutta 
                  la popolazione carceraria - diventano un cristallo attraverso 
                  il quale la società cerca di ristabilire una norma. La 
                  maternità incarna ancora oggi la “onestà 
                  e virtù” femminile: con il reato si tradisce la 
                  maternità, e la perdita dei figli ne è la punizione. 
                  Come suggerisce la riflessione di Maria Luisa Boccia, teorica 
                  della differenza, - riportata nella conversazione a tre nel 
                  settimo capitolo - bisognerebbe rinnovare anche lo sguardo sulla 
                  maternità, prestando attenzione a come è veicolata 
                  attraverso il carcere. Costruire un nuovo discorso sulla maternità 
                  sarebbe fondamentale non solo per le donne detenute, ma per 
                  tutte le donne. 
                  Paradossi, ostacoli burocratici rappresentano inoltre gli impedimenti 
                  di un'istituzione totale che dichiara di puntare alla riabilitazione. 
                  Al contrario, invece, ne replica le diseguaglianze sociali, 
                  soprattutto quando non fornisce adeguate risposte e beni necessari 
                  per la vita quotidiana. Smarrimento, solitudine, scoramento, 
                  rabbia, dolore trovano lenimento nel suicidio o sfogo in gesti 
                  autolesivi. Al riguardo, uno studio nel carcere di Padova, riportato 
                  sulla rivista “Nuovi orizzonti” e i dati di questa 
                  ricerca nei carceri toscani riferiscono di un maggior rischio 
                  di suicidio per le donne, e minori atti di autolesionismo da 
                  taglio, da ricondurre a una maggior cura e rispetto del proprio 
                  corpo. Ma emerge altresì che le donne sanno mettere in 
                  atto strategie specifiche di resilienza, orientate a coltivare 
                  il domani. Comportamenti di protezione dalla sofferenza si collocano 
                  in un processo personale fatto di riconoscimento, valorizzazione, 
                  attivazione di risorse anche pregresse, per far fronte al cambiamento. 
                  Così le donne scoprono una loro identità percepita 
                  come molteplice e in mutamento, capace di reagire all'immobilismo 
                  consolidato del carcere. 
                  Tra carcerate, le donne suppliscono alle figure interne con 
                  il compito di sostegno personale, in prevalenza nella dimensione 
                  dell'ascolto. Ricercano solidarietà in relazioni individuali 
                  scelte per affinità e rispetto, inclini alla dimensione 
                  intima e affettiva in grado di lenire solitudini, liberare vissuti, 
                  portare all'autoriflessione. Ma per andare oltre e approdare 
                  al riconoscimento di competenze e valore: Ognuna di loro 
                  mi ha insegnato tanto, oppure: Era la persona che quando 
                  la vedevo mi dimenticavo di tutto, mi sentivo a casa e a mio 
                  agio. Ancora: L'unica vera amica, per me lei è 
                  una sorella, un'amica, una confidente, lei sopporta me, io sopporto 
                  lei, si sta facendo progetti per il fuori. 
                  I piccoli gesti quotidiani di cura mettono in moto un circolo 
                  virtuoso che rinforza autostima e autoefficacia: Se una mattina 
                  ti svegli e la tua compagna di cella dice - lo faccio io il 
                  caffè - ti senti accudita. È molto importante 
                  sentirsi qualcuno; poi automaticamente anche tu fai sentire 
                  così l'altra persona. 
                  Riordinare, pulire lo spazio angusto della cella, mettersi il 
                  rossetto è cura di sé. 
                  Il rispetto di se stesse rappresenta anche la scoperta di essere 
                  cittadine in grado di prendere parola e di partecipare a momenti 
                  collettivi che restituiscono senso e autostima, promuovono un 
                  riconoscimento sociale: È una gioia sentire dire: 
                  - un saluto da tutte le ragazze detenute di Empoli che hanno 
                  aderito allo sciopero della fame per il sostegno delle altre 
                  - Abbiamo aderito ad uno sciopero della fame dal 26 per cinque 
                  giorni perché ascoltiamo Radio Radicale.  
                  Investire bene e promuovere un uso diverso del tempo, sfruttando 
                  al massimo le poche risorse offerte e soprattutto producendone 
                  di nuove in modo autonomo, rappresentano altre energie di resilienza. 
                  Le donne dimostrano di sapersi adattare per dare significato 
                  all'esperienza: Ho iniziato a fare il corso di muratura, 
                  anche; con altre due mie compagne, di là ci sono cinque 
                  uomini. Abbiamo fatto anche la teoria: sicurezza sul lavoro, 
                  sicurezza sui cantieri, pari opportunità. Poi a settembre 
                  (speriamo di non esserci) si dovrebbe iniziare a ristrutturare 
                  la palestra sopra. E di saper valorizzare le proprie competenze 
                  in maniera informale: Adesso c'era il teatro, mi sono offerta 
                  volontaria per cucire i vestiti da teatro; in cucina sono senza 
                  grembiuli, mi sono offerta volontaria per cucire i grembiuli. 
                  Che mi invento io se una mia amica mi dice - aggiustami una 
                  gonna - gliela riparo. 
                  Il tempo vuoto è tempo di occasioni, tempo di scoperta 
                  di inclinazioni e di passioni. Diventa tempo per sé: 
                  l'attività fisica, lo sport, la danza impegnano il tempo. 
                  Restituiscono al corpo i suoi diritti: esprimersi, percepirsi, 
                  curarsi. Insieme a musica, scrittura, lettura: per le donne 
                  piaceri intimi e opportunità espressive. 
                  Inoltre, la detenzione è una cesura nel tempo. Ma l'esperienza 
                  carceraria può diventare opportunità per ripensare 
                  quel passato che si vorrebbe lasciare alle spalle, per ricucire 
                  legami interrotti, acquisire maggior consapevolezza anche per 
                  immaginare un futuro possibile. 
                  Nei carceri misti, possono germogliare nuove relazioni affettive, 
                  anche se a distanza, fatte di occasioni fugaci di incontri, 
                  di scrittura o di comunicazione muta e a distanza, dalle finestre: 
                  È un panno bianco che o muovi o batti (a,b,c,d) è 
                  complicatissimo, io ci ho messo tre giorni ad impararlo perché 
                  mi interessava chiacchierare con lui. 
                  Per approfondire i significati dello “sguardo della differenza 
                  femminile”, Maria Luisa Boccia pone l'attenzione sull'ambiguità 
                  del femminile come terreno della cura e della relazionalità. 
                  Se la cura è offerta dalle operatrici e operatori dell'istituzione 
                  carceraria, sull'assunto della dipendenza, vulnerabilità, 
                  debolezza, non responsabilità, e improntata a precisi 
                  modelli adottati nelle istituzioni totali, costruiti per soggetti 
                  deboli e vittime, la relazione di cura diventa costitutiva del 
                  controllo. Quindi occorre trovare la mediazione giusta tra chi 
                  ha bisogno di cura e chi la esercita, per favorire una relazione 
                  evolutiva, che accompagni verso l'autonomia. 
                  La ricerca inoltre mette in luce l'opportunità di “attivare 
                  la soggettività delle donne detenute per cambiare la 
                  quotidianità del carcere”. Una sfida che va oltre 
                  il riconoscimento di un diritto. Non si può prescindere 
                  da una riflessione sulle pratiche del carcere da parte di chi 
                  lo vive: detenute, operatrici, volontarie. Se non c'è 
                  consapevolezza soggettiva sulle prassi da mettere in atto, non 
                  ci sarà riforma, perché nemmeno la miglior legge 
                  saprà cambiare la realtà. Boccia sottolinea che 
                  “lo sguardo della differenza” da adottare implica 
                  dare spazio alle soggettività, alla presa di parola in 
                  prima persona, da parte di detenute e operatrici, e alle loro 
                  pratiche. Solo così si potrà dare centralità 
                  a un'istanza di liberazione. 
                 Claudia Piccinelli 
                     Errico Malatesta 
                  e la Signora 
                 Il 
                  18 maggio 1901 Errico Malatesta scrisse una lettera, intercettata 
                  dalla polizia, in cui accennava a trattative con una «Signora» 
                  disposta a finanziare progetti sovversivi in Italia. La signora 
                  era l'ex-regina di Napoli Maria Sofia di Baviera e la lettera 
                  ha dato la stura a innumerevoli illazioni, a cui in buona parte 
                  è rimasta a tutt'oggi impenetrabile. Il libro di Enrico 
                  Tuccinardi e Salvatore Mazzariello, Architettura di una chimera: 
                  Rivoluzione e complotti in una lettera dell'anarchico Malatesta 
                  reinterpretata alla luce di inediti documenti d'archivio 
                  (Universitas Studiorum, Mantova, 2014, pp. 184, € 16,00), 
                  poggia su un'idea felice: a partire da questo singolo documento, 
                  seguire tutti i fili che da esso si dipartono per ricostruire, 
                  attraverso una paziente e minuziosissima ricerca, l'universo 
                  di persone, contatti e progetti che ruotano attorno ad esso. 
                  Ne esce l'affascinante affresco di una rete transnazionale e 
                  transpartitica che si dipana attorno all'oceano Atlantico, da 
                  Londra a Parigi, Napoli, San Paolo, New York, L'Avana, coinvolgendo 
                  anarchici, socialisti eterodossi, nostalgici borbonici, ex-rivoluzionari 
                  ora al servizio degli americani, i quali nell'arco di decenni 
                  si muovono da un continente all'altro, si incontrano, si separano, 
                  si scrivono, si ritrovano, si scambiano informazioni, condividono 
                  amicizie, fanno progetti, in un reticolo di contatti tanto mutevole 
                  e inafferrabile quanto fitto e persistente. Altrettanta attenzione 
                  è dedicata all'«altra rete», quella di ministri, 
                  poliziotti, questori, ambasciatori, spie, indaffarati a seguire 
                  i primi nelle loro peregrinazioni, a carpire le loro intenzioni, 
                  a impedire le loro iniziative. 
                  È questo il tipo di ricerca di cui ha bisogno la storia 
                  dell'anarchismo per andare oltre le apparenze. Come diceva E. 
                  P. Thompson riguardo al Luddismo, l'anarchismo è un movimento 
                  «opaco»: su di esso scarseggiano le fonti, perché 
                  così volevano i suoi protagonisti. Mettendo in luce la 
                  continuità nel tempo e nello spazio di quel fiume carsico 
                  che è l'azione anarchica, questo tipo di ricerca contribuisce 
                  a dissipare il luogo comune di un anarchismo millenarista e 
                  irrazionale – fatto di rivolte effimere e sempre in balia 
                  degli eventi – così congeniale agli storici che 
                  trovano comodo fermarsi alle apparenze per trovare una facile 
                  conferma ai loro pregiudizi. 
                  Il quadro transnazionale che emerge è tanto più 
                  efficace quanto più gli autori lo dipingono senza enfatizzarlo, 
                  come se esso si dipanasse dalla loro ricerca quasi involontariamente, 
                  senza che essi lo cercassero e ne facessero il loro obiettivo. 
                  Ciò che interessa agli autori è piuttosto fare 
                  luce «su un appassionante intrigo d'inizio '900», 
                  identificarne i personaggi chiave e chiarire l'intreccio di 
                  eventi. Gli eventi in questione sono l'attentato di Gaetano 
                  Bresci a Umberto I, con l'annessa vexata quaestio del 
                  coinvolgimento di Malatesta, e soprattutto il progetto di evasione 
                  di Bresci, che gli autori sostengono, documenti alla mano, essere 
                  stato al centro delle trattative fra Maria Sofia e Malatesta, 
                  e che nelle intenzioni di quest'ultimo doveva essere la scintilla 
                  che avrebbe potuto dare inizio a una rivolta anti-monarchica. 
                  L'esistenza di questo progetto, frettolosamente liquidato da 
                  gran parte della critica come pettegolezzo storico, spiegherebbe 
                  anche il «suicidio» di Bresci, la più radicale 
                  misura che il governo potesse escogitare per prevenire quel 
                  progetto. 
                  Tuccinardi e Mazzariello svolgono un egregio lavoro «investigativo», 
                  dando un nome ai vari protagonisti, scoprendone di insospettati, 
                  soppesando tutte le ipotesi e talvolta rivalutandone di screditate, 
                  non lasciando alcun sentiero inesplorato, argomentando con scrupolo 
                  e cautela in sostegno delle tesi avanzate. Essi gettano così 
                  nuova luce su una pagina della vita di Malatesta rimasta finora 
                  in ombra. 
                  Consci del valore del loro lavoro, gli autori auspicano che 
                  esso possa indurre «ad una rilettura e forse persino ad 
                  una revisione storiografica di primaria importanza» e 
                  in tale ottica inquadrano l'azione di Malatesta nel 1901 all'interno 
                  di una più ampia svolta tattica inaugurata dall'opuscolo 
                  Contro la Monarchia, del 1899. 
                  Tuttavia, la parte interpretativa – la quale, va detto, 
                  rimane comunque soltanto abbozzata – è quella più 
                  debole del libro. Contro la Monarchia fu sicuramente 
                  una svolta fondamentale, ma non nel senso che gli autori suggeriscono. 
                  Nel fare riferimento a quell'opuscolo essi inseriscono l'intesa 
                  fra partiti rivoluzionari in esso propugnata e i contatti con 
                  l'ex-regina all'interno di una stessa svolta, consistente nell'apertura 
                  a forze esterne all'anarchismo. In realtà questi due 
                  tipi di alleanze appartengono a filoni, fra di loro indipendenti, 
                  che si ritrovano in Malatesta in tutte le epoche. Basti pensare, 
                  rispettivamente, al fronte unico e al tentato accordo con D'Annunzio, 
                  durante il biennio rosso. In estrema sintesi, lo schema interpretativo 
                  proposto è questo: fino al 1898 Malatesta inseguì 
                  una chimera, la rivoluzione puramente anarchica; preso atto 
                  della realtà, si adattò pragmaticamente ad architettare 
                  complotti con chiunque fosse disponibile. Ritorna insomma lo 
                  stereotipo impossibilista della dicotomia fra utopia e realtà. 
                  Tuttavia, Contro la Monarchia non fu una svolta rispetto 
                  a un presunto esclusivismo anarchico, che mai appartenne a Malatesta, 
                  ma rispetto all'esperimento di «lavoro lungo e paziente» 
                  chiuso brutalmente dalle cannonate del 1898; e la svolta consistette 
                  nella nuova coscienza che l'insurrezione precede, non segue, 
                  il progresso graduale. 
                  Più in generale, credo sia vano aspettarsi di fare scoperte 
                  sensazionali sulle idee che guidavano l'azione degli anarchici. 
                  Tutt'al più si sfondano porte aperte. Tanto opaca era 
                  la loro azione quanto trasparenti le loro idee, che la coerenza 
                  tra mezzi e fini preservava da qualsiasi machiavellismo. Per 
                  capire quelle idee non c'è da scavare negli archivi, 
                  ma da leggere i loro scritti. Da essi si capirà bene 
                  quanto, all'interno della coerenza tra mezzi e fini di Malatesta, 
                  ci fosse tanto posto per accordi perfino con ex-regine, quanto 
                  poco ce ne fosse per farsi anche solo nominare candidato-protesta. 
                  Concludo notando alcune bizzarrie del libro. Una è che 
                  il disegno in copertina, rielaborazione di una foto, viene presentato 
                  come «probabile autoritratto». Un'altra è 
                  che al lettore vengono inflitti lunghissimi estratti, fino a 
                  cinque pagine, in lingue straniere. Le traduzioni sono relegate 
                  in appendice, ma sarebbe stato meglio fare il contrario, magari 
                  condensando. Ottimo invece l'apparato iconografico, ulteriore 
                  segno di esemplare accuratezza e completezza. 
                  Il libro non costituisce l'ultima parola sugli eventi. Le tesi 
                  svolte, per quanto ben documentate, rimangono in parte congetture. 
                  Tuttavia, il libro alza di molto l'asticella. Gli storici che 
                  vorranno dire qualcosa di nuovo sul tema dovranno lavorare sodo, 
                  e ciò è quanto di meglio ci si possa augurare: 
                  anche questo è un modo per riconoscere all'anarchismo 
                  la dignità culturale che gli spetta. 
                 Davide Turcato 
                     Le cose che vengono 
                  da dio 
                 Se 
                  c'è un argomento ostico da introdurre in “ambiente 
                  anarchico” è proprio quello riguardante la “religione”. 
                  Se, giustamente, questa ostilità è motivata dalla 
                  storia – qui da noi leggi storia della Chiesa cattolica, 
                  con l'influenza che ha sempre avuto nel determinare vite ed 
                  eventi – non lo è altrettanto quando in questione 
                  è il senso religioso della vita, inteso come ricerca 
                  etica, come orientamento rispetto alle molteplici direzioni 
                  che si possono prendere lungo il cammino. 
                  Si compie spesso, secondo me, il fatidico errore di buttar via 
                  il bambino insieme all'acqua sporca. Da parte mia, che certo 
                  non sono anarchica d.o.c. ma solo una che insiste ad andare 
                  ostinatamente in direzione contraria, o quantomeno ci prova, 
                  penso sia un gran peccato. Che quell'acqua sia molto sporca 
                  non lo mette in dubbio nessuno, che quel bambino sia da salvare 
                  è altrettanto certo. Soprattutto in questi tempi, nei 
                  quali la fede islamica è nell'occhio del ciclone per 
                  tutti i fatti più recenti, è necessario operare 
                  delle distinzioni nette e ragionare su chi e perché può 
                  essere detto religioso. 
                  Introduco con questa premessa la conversazione intercorsa, nell'agosto 
                  2013, tra Leonardo Boff e Luigi Zoja - il primo conosciutissimo 
                  teologo della liberazione, il secondo altrettanto conosciuto 
                  psicanalista junghiano - raccolta nel libro Tra eresia e 
                  verità (Chiarelettere, Milano, 2014, pp. 145, € 
                  10,00). Conversazione che termina con una domanda e una risposta: 
                  «Nel 2011 la teologia della liberazione ha celebrato il 
                  suo quarantesimo compleanno. Cosa rispondi a chi sostiene che 
                  è superata?» 
                  «Rispondo che è ormai diffusa in tutti i continenti 
                  e rappresenta un modo diverso di fare teologia, a partire dai 
                  reietti della Terra e dalle periferie del mondo. [...] Nel 2008 
                  c'erano 860 milioni di poveri al mondo, oggi sono prossimi al 
                  miliardo. [...] Fino a quando ci saranno persone discriminate 
                  e oppresse avrà sempre senso, partendo dalla fede, parlare 
                  e agire in nome della liberazione. [...] La nostra sfida non 
                  è quella di accrescere le schiere dei cristiani, ma di 
                  creare persone oneste, umane, solidali, compassionevoli, rispettose 
                  della natura e degli altri. In questo modo si realizza il progetto 
                  di Gesù.» 
                  Detta la fine, cito anche dall'inizio: «Nel suo approccio 
                  originale alla psicoanalisi Boff ha avuto il merito di far coincidere 
                  l'idea junghiana di archetipo con quella indigena della Pacha 
                  Mama, la grande Dea Madre o Madre Terra. [...] si può 
                  dire che la dimensione psicologica sia diventata sempre più 
                  importante nel corso della tua vita?» 
                  «Sono cresciuto in un mondo in cui primitivo e moderno 
                  si sono incontrati e contaminati. [...] Il rispetto per la Terra 
                  come sistema vitale unitario è un archetipo da riattivare 
                  e appartiene alla dimensione del sacro. [...] La nostra cultura 
                  ha separato l'uomo dalla natura e l'ha spinto a dominarla, distruggendo 
                  quel senso di totalità che contraddistingue ogni visione 
                  spirituale della vita. Le religioni venerano le Scritture, l'ostia 
                  consacrata, lo spazio del tempio, ma non riescono ad aprirsi 
                  al mistero del mondo e all'energia che alimenta l'intero Universo. 
                  Questa lacuna spirituale è uno dei più gravi problemi 
                  della modernità. La teologia sostiene che tutti gli aspetti 
                  del Creato sono simboli e segni del creatore, sacramenti naturali. 
                  Ma sono parole morte perché noi non viviamo questa dimensione. 
                  Abbiamo avvicinato le popolazioni indigene per sterminarle perché 
                  non avevano il senso della proprietà privata ...» 
                  È facilmente immaginabile come nel mezzo a questi due 
                  brani si sviluppi una conversazione dove il termine religioso 
                  è sempre sotteso ad un'autentica ricerca di verità, 
                  ricerca che non ha interesse nel difendere un credo in particolare 
                  ma, al contrario, è consapevole che la religione può 
                  essere usata per addomesticare e invitare la gente alla rassegnazione, 
                  oppure per mobilitarla nella prospettiva della liberazione. 
                  Liberazione che per essere reale non può dirsi solo umana, 
                  ma deve coinvolgere la Terra con tutti i suoi abitanti, allo 
                  stesso modo continuamente sfruttati e sterminati. Nell'auspicio 
                  di una democrazia socio-cosmica dove ad alberi, acqua, montagne 
                  e animali possa venir riconosciuto il diritto di cittadinanza 
                  perché, se - come anche Jung aveva intuito, già 
                  a suo tempo - lo sfruttamento della terra avrebbe causato una 
                  crisi globale, il cambiamento necessario ad uscire dalla stessa 
                  può avvenire solo riallacciando legami profondi con ciò 
                  che ci circonda 
                  “Tra eresia e verità” è un libro leggero 
                  e di piacevole lettura - anche se il titolo inviterebbe ad intendere 
                  il contrario - dove lo spessore umano di chi parla riesce a 
                  toccare con leggerezza mai superficiale temi profondissimi e 
                  imprescindibili e dove il dialogo è intercalato da ricordi 
                  e aneddoti. Così possiamo immaginare un Leonardo Boff 
                  bambino, con nonni veneti emigrati in Brasile alla fine dell'Ottocento, 
                  vivere in una zona selvaggia e abitata da pochi indigeni, e 
                  riusciamo a vedere un giovane studente di teologia nella Germania 
                  della seconda metà degli anni Sessanta, con tutti gli 
                  incontri che incominciarono a formare la sua personalità. 
                  La loro riflessione, dopo aver visto da più angolature 
                  e dati alla mano le problematiche di miseria materiale di tanta 
                  parte della popolazione mondiale, ci ricorda come per altri 
                  oggi la miseria sia mancanza di senso critico, docile disponibilità 
                  a trasformarsi in consumatori, e che quindi - nel cercare soluzioni 
                  autenticamente praticabili - non abbiamo a che fare solamente 
                  con un problema economico ma anche educativo e psicologico. 
                  Anche qui, come in altri libri da me recensiti (evidentemente 
                  il tema mi sta a cuore), viene auspicata un'economia del 
                  sufficiente, rispettosa di ogni cosa che vive, e si sottolinea 
                  come l'opposto della religione non sia l'ateismo ma la mancanza 
                  di connessione con il Tutto. 
                  In ultima analisi possiamo dire che quella che ci viene mostrata 
                  è una teologia della liberazione integrale, che comprende 
                  tutte le dimensioni dell'essere umano, quella sociale, quella 
                  politica e quella personale, una teologia che vede il nostro 
                  dramma più grande nell'essere sradicati, nell'aver perso 
                  la nostra spiritualità, che non è adorazione di 
                  immagini o parole ma, ripeto, capacità di vivere un sentimento 
                  di appartenenza. 
                  Convinta come sono che recuperare questa dimensione interiore 
                  sia indispensabile oggi per tutti, anarchici e non, voglio concludere 
                  questo mio invito alla lettura riportando le parole di una donna 
                  - anarchica e religiosa come fu Simone Weil - parole che, in 
                  qualche modo, vengono a completare i temi toccati nel libro: 
                  «Il criterio delle cose che vengono da Dio è che 
                  esse presentano tutti i caratteri della follia, eccetto la perdita 
                  dell'attitudine a discernere la verità e ad amare la 
                  giustizia. [...] Devono esserci [...] momenti in cui [...] la 
                  follia d'amore solamente è ragionevole. Questi momenti 
                  non possono essere che quelli dove, come oggi, l'umanità 
                  è divenuta folle a forza di mancanza d'amore.» 
                 Silvia Papi 
                     La grande storia 
                  del surrealismo 
                 Quest'ultimo 
                  (ed ennesimo) volume di Arturo Schwarz (Il Surrealismo. Ieri 
                  e oggi. Storia, filosofia, politica, Skira, Milano 2014, 
                  pp. 540 + cd, € 59,00), frutto di oltre dieci anni di lavoro, 
                  si propone di presentare il Surrealismo non solo come movimento 
                  letterario e artistico, ma come filosofia di vita. Schwarz, 
                  storico, saggista e poeta, surrealista militante curatore di 
                  mostre e appassionato collezionista nasce nel 1924 ad Alessandria 
                  d'Egitto, come Marinetti, non ama quest'ultimo, e con lui il 
                  Futurismo, magari adora Leda Rafanelli che (fra Ungaretti, Pea, 
                  e gli anarchici lì emigrati), in un reale o immaginato 
                  passaggio dalla città, ha, come lei, amato la kabbalah. 
                  Biograficamente coinvolto nel clima alchemico di quel luogo 
                  immaginista ha, come loro, inventato la propria esistenza. In 
                  quella mitica biblioteca il libro troverà posto. 
                  “Quando, nel 1898, Freud scrive L'interpretazione dei 
                  sogni, crolla il concetto che vede l'essere umano padrone della 
                  natura e di se stesso. Freud fa prendere coscienza del fatto 
                  che il nostro vivere quotidiano non è determinato soltanto 
                  dalla coscienza, ma da un inconscio che occupa in realtà 
                  i nove decimi dell'attività mentale dell'individuo”, 
                  Schwarz al Convegno sulla Storiografia del maggio scorso a Reggio 
                  Emilia continua: “il Surrealismo non si limita ad essere 
                  nichilista ma vuole essere una nuova filosofia della vita i 
                  cui elementi essenziali saranno esplicitati nel Primo Manifesto 
                  del Surrealismo (1924), aggiungendo che il Surrealismo, ripetiamolo, 
                  è una filosofia libertaria della vita e non semplicemente 
                  una nuova corrente artistica o una nuova scuola letteraria. 
                  È uno strumento di conoscenza che ambisce a cambiare 
                  il mondo e cambiare la vita.” 
                  Questi i parametri dell'opera che si sviluppa su tre livelli, 
                  o libri, due di carta, il terzo (apparati) ricco cd in tre sezioni. 
                  Il primo è il repertorio ragionato dei periodici, il 
                  secondo, l'elenco completo delle collettive, il terzo la bibliografia 
                  sintetica. Di particolare pregio l'elenco degli autori e la 
                  periodizzazione (1924-65, Breton vivo - 1966 -, la fase successiva). 
                  Strumenti fondamentali, specie il repertorio dei periodici dal 
                  1919 al 2010, che include gli “affini” coevi o di 
                  filiazione. 
                  Superfluo elencare, risultando ineludibile la consultazione 
                  per chiunque voglia approcciare in modo approfondito il tema. 
                  Il criterio cronologico delle adesioni e filiazioni dà 
                  il senso della permeazione del fenomeno, dal 1919 ad oggi, come 
                  in un film, in ordine di apparizione. Francia, Spagna, Belgio, 
                  ex Iugoslavia, Perù, Giappone, Cecoslovacchia, Inghilterra, 
                  Norvegia, Stati Uniti, continuando con America latina, Svizzera, 
                  Nord Africa, Portogallo, Austria. L'analogia, la psicanalisi 
                  e Freud inondano la pubblicistica surrealista, meno l'Italia 
                  che ne resterà solo scalfita, come più volte ha 
                  notato l'autore, il quale sarà prima condirettore (pseud. 
                  Tristan[!] Sauvage) e poi direttore fra 1959 e 1960, di una 
                  rara rivista milanese. A seguire Olanda, Hawaii, Islanda, Germania 
                  e Canada. Formazione e sviluppo del movimento, quindi evoluzioni 
                  recenti, specie internazionali. 
                  Nel libro il movimento attuale è considerato continuazione 
                  e non post, perché col surrealismo, qualcosa è 
                  successo per sempre (ready made, automatismo, superamento 
                  dei limiti), come è accaduto anche per il Futurismo. 
                  Si afferma che il Surrealismo si trova in J. Johns, Rauschenberg, 
                  Baj, Dangelo, Kaprow, Serra, Celant, fino alla transavanguardia. 
                  L'impulso romantico è già nella prima fase (1916-22) 
                  a fronte del nichilismo dadaista, come più volte ribadito, 
                  mantenendo distinti i movimenti e anticipando la nascita del 
                  S. al 1916 con Freud e Jarry e coevo nei fatti a Dada, e in 
                  divenire. Da psichiatra, Breton coglie appieno le potenzialità 
                  di Freud, e le usa, specie nel senso della rottura dei freni 
                  inibitori, trasformando il sub in-conscio. L'humor 
                  nero e la funzione dell'inconscio sono modelli interpretativi 
                  che superano la periodizzazione. Breton percorre e precorre 
                  fra sensibilità e incontri (Vaché e Jarry) il 
                  Surrealismo e cavalcando Wilhelm Reich riconosce la rivoluzione 
                  sessuale come Rivoluzione. Il trionfo del principio del piacere 
                  sul principio di realtà,sostanzia la differenza. Nel 
                  '17 Breton incontra Soupault e Aragon formando così il 
                  primo gruppo. 
                  Nella prima parte pone i distinguo, le differenze fra movimenti 
                  troppo spesso ritenuti simili, ne antepone le sensibilità 
                  ne traccia il percorso. L'Arte si sente e si vive e ciascuno 
                  trae ciò che vive entrando in contatto. Ma una cosa è 
                  il pubblico altra l'artista. Il secondo può rivendicare 
                  per il gruppo, il primo,definire per se medesimo. Poi, come 
                  sempre, c'è chi, sia politicamente che eticamente,ha 
                  poco a che vedere col movimento,come nel caso di Avida-dollars 
                  (Dalì), che ci è comunque caro per Un chien 
                  andalou e L'ge d'or di Buñuel. Dada e Surrealismo 
                  si intersecano occasionalmente distinguendosi immediatamente 
                  poi. 
                  Questa è la sintesi cara a Schwarz che rivendica con 
                  orgoglio l'attività politica rivoluzionaria costante 
                  nel lungo periodo. Il sogno ad occhi aperti dei surrealisti 
                  non fece mai perdere loro di vista la realtà nella quale 
                  lottavano, furono contro carceri, esercito, stato. Un sentire 
                  forte e marcato in Artaud, autenticamente anarchico, che connota 
                  se non l'intero, almeno parti contaminanti del Movimento. Nel 
                  libro-archivio si trovano connotati libertari e anarchici che 
                  Schwarz con successo indica e fa emergere. Tratteggia in particolare 
                  il trotskijsmo che è parte significativa, ma Buñuel, 
                  Péret o Mirò già aderente a gruppi anarchici 
                  spagnoli e ancora Baj e precise figure dell'anarchismo internazionale 
                  sono presenza documentata. Col '51 inizia una collaborazione 
                  con «Le Libertaire» della Federation Anarchiste 
                  Française, attraverso una Dichiarazione preliminare del 
                  12 ottobre (31 testi specie di Péret, che lì si 
                  trovava a suo agio, e Breton). 
                  Il Surrealismo non è scuola o corrente è un modo 
                  di agire libero, scrive Schwarz, per trasformare il mondo cambiare 
                  la vita. E la vita si trasforma con l'amore fisico e l'amour 
                  fou, l'amore come illuminazione, anche se è facile notare 
                  la presenza, fra i teorici del surrealismo, di soli maschi. 
                  Il trionfo del piacere non solo fisico e il gioco, si trasferiscono 
                  nella parola scritta erede del verso libero luciniano e nella 
                  scrittura automatica. L'arte, l'anarchia, e anche il surrealismo, 
                  sono internazionali e per l'autore, senza tempo. Attinge dalle 
                  culture del passato e grazie all'espansione non si conclude, 
                  e ciascuno è libero, nell'alveo disegnato, di seguire 
                  il proprio percorso. Dopo il '69 vi è anche rilettura, 
                  storicizzazione, ristampa, amplificazione, valutazione degli 
                  effetti, ma il movimento resta vitale perché condannato 
                  a innovare. 
                  Così si apre il secondo libro post-Breton, e/o in continuità, 
                  paese per paese, con sintesi storiche, percorsi, analisi, principali 
                  pubblicazioni, gruppi ecc., di volta in volta segnalati curati 
                  da uno o più autori o gruppi e collettivi. Scorrono così 
                  Belgio Cecoslovacchia Danimarca, Francia e Gran Bretagna con 
                  numerosi gruppi. Ed ancora Grecia, Jugoslavia, Paesi Bassi, 
                  Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Turchia, quindi America 
                  latina, Argentina, Brasile, dove Péret sarà fra 
                  '29 e '31, Caraibi, Cile (S. Matta), Colombia, Messico, Perù, 
                  e Asia, specie Giappone, dove nel '20 alcuni anarchici fondano 
                  il Partito comunista anarchico al quale aderiscono tutti 
                  i dadaisti. La disamina prosegue con l'Africa - movimento 
                  surrealista arabo in esilio a Parigi -, che, inizialmente marxista, 
                  tenderà all'anarchismo con la rivista «Le désir 
                  libertaire». Per chiudere: Stati Uniti. A Chicago il gruppo 
                  della Roosevelt University si ispira agli anarchici di Haymarket 
                  ed all'IWW, apre la libreria Solidarity (1964), conia “fate 
                  l'amore non la guerra”, a Parigi incontra Debord e a Londra 
                  fa nascere la rivista anarco-surrealista «Heatwave» 
                  e si relaziona al pedagogista anarchico Sakolsky ed a Löwi 
                  che nel 2009 accosta e include anarchia e surrealismo. 
                 Alberto Ciampi 
                 
                    Un 
                  po' provo
                   un po' staffetta partigiana 
                Con gli occhi, le parole e la bici di Luigi Chiarella, seguiamo 
                  le trasformazioni d'inizio secolo di Torino; gli anni dieci 
                  per il capoluogo piemontese sono gli anni delle illusioni targate 
                  olimpiadi invernali, sono gli anni della manifestazione più 
                  dura della crisi. Leggendo Diario di Zona (Edizioni Alegre, 
                  Roma, pp. 320, € 16,00) viene naturale l'accostamento alla 
                  letteratura operaia di un altro grande autore calabrese, Vincenzo 
                  Guerrazzi, che negli anni settanta fece epoca con il suo: il 
                  Nord e Sud uniti nella lotta. Nel fluire del racconto di Chiarella, 
                  non si parla più della fabbrica, di catene di montaggio, 
                  di classe operaia, il profilo è diverso, lo sfruttamento, 
                  se possibile più duro da sopportare se hai studiato, 
                  hai una coscienza politica matura e nessun contratto definitivo. 
                  Ma Yamunin, così si firma l'autore nel suo blog, https://yamunin.wordpress.com 
                  va ben oltre, perché il suo è un vero e proprio 
                  oggetto narrativo indefinibile. 
                  Il libro tra l'altro è inserito in una collana molto 
                  interessante diretta da Wu Ming 1, che rientra in un progetto 
                  editoriale di Alegre che potete approfondire qui: http://www.ilmegafonoquotidiano.it/news/10x10-mi-abbono-ad-alegre-e-racconto-altre-storie. 
                  Un flusso di citazioni letterarie, musicali, sembra che per 
                  ogni zona nella quale è impegnato a lavorare, scorra 
                  una colonna sonora, si alternano a slogan letti sui muri e alle 
                  targhe in memoria dei partigiani uccisi, patrimonio comune che 
                  abbiamo cominciato a disperdere. L'autore-protagonista porta 
                  con sè un doppio fardello, che per certi versi lo accomuna 
                  ad Alberto Prunetti, un altro narratore di vaglia dell'Alegre 
                  edizioni; Yamunin è un operatore della cultura, recita 
                  e scrive per il teatro, ma per sopravvivere si cala nei tombini 
                  e nelle cantine di Torino per leggere da precario letturista 
                  i contatori dell'acqua. 
                  È in questo scendere nel ventre molle della metropoli 
                  che il racconto si fa più vivo e fotografa con le parole 
                  luoghi e persone. 
                  Mi sorprende della narrazione la massa di riflessioni alle quali 
                  induce, pur nella semplicità quotidiana del lavoro, mi 
                  sorprende la gentilezza e la calma con la quale si ribella, 
                  s'indigna con le domande e le parole; ecco Yamunin mi sembra 
                  in sella alla sua bicicletta, così provos, una staffetta 
                  partigiana delle lotte di oggi. Anche quando lo sguardo è 
                  più distaccato, come nel passaggio della sua escursione 
                  in solitaria sulla collina di Superga, si coglie la capacità 
                  dell'autore di cogliere prospettive diverse: così dalla 
                  collina più alta di Torino traccio una linea che passa 
                  dalla basilica di Superga, attraverso lo stivale e arriva al 
                  santuario della Madonna di Polsi a San Luca, sembra Saba in 
                  Trieste: potente! 
                 Fabio Cuzzola 
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