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				 dopo Parigi 
                  
                Appunti sulla Jihad 
                  
                di Andrea Papi 
                    
                Una visione teocratica e totalitaria che non ammette critiche né forme di libertà di pensiero. Le donne sono trattate con grande inferiorità, l'omosessualità è peccato grave punito fino alla morte. È l'apice di ogni autoritarismo e la più completa negazione del principio di libertà. 
                 
                  Da Wikipedia: Jihad significa “esercitare il massimo sforzo”. È parola 
                  araba che connota un ampio spettro di significati, dalla lotta 
                  interiore spirituale per attingere una perfetta fede fino alla 
                  guerra santa, e fa riferimento ad una delle istituzioni fondamentali 
                  dell'Islam. Durante il periodo della rivelazione coranica, allorché 
                  Maometto si trovava a La Mecca, lo jihad si riferiva essenzialmente 
                  alla lotta non violenta e personale, quindi a quello sforzo 
                  interiore necessario per la comprensione dei misteri divini. 
                  In seguito al trasferimento (Egira) da La Mecca a Medina nel 
                  622, e alla fondazione di uno Stato islamico, il Corano (22:39) 
                  autorizzò il combattimento difensivo e iniziò 
                  a incorporare la parola qital (combattimento o stato di guerra) 
                  per scopo difensivo. Oggi invece è usata in numerosi 
                  circoli come se avesse una dimensione esclusivamente militare. 
                  Apprendere la genesi del significato mi suscita un'ulteriore 
                  ripulsa. I movimenti che oggi si autodefiniscono jihadisti da 
                  più di due decenni rivendicano con orgoglio di essere 
                  autori di efferati fatti di sangue perpetrati in nome del trionfo 
                  della loro fede. Oltre l'orrore e le atrocità, sono anche 
                  responsabili di attribuzioni di significato che deviano dal 
                  senso originario per indurre ad aggressioni militari e imposizioni 
                  schiavizzanti. Faccio pure fatica a chiamarli “fondamentalisti”, 
                  che vuol dire richiamarsi ai fondamenti di base. Mi sembra invece 
                  che siano intransigenti e acritici nella loro interpretazione 
                  della dottrina e che, vivendola fanaticamente come esclusiva, 
                  la portino ad estreme conseguenze volendola imporre. Per questo 
                  preferisco chiamarli “integralisti estremi”. 
                  Il loro scopo fondamentale mi sembra l'asservimento alle oligarchie 
                  teocratiche che ne hanno il comando, le stesse che con un'assolutezza 
                  sconcertante dichiarano di voler sottomettere l'umanità 
                  alla loro visione del mondo. Non a caso propongono il Califfato, 
                  sistema di governo adottato dal primissimo Islam il giorno stesso 
                  della morte di Maometto con a capo un califfo, il “comandante 
                  dei credenti”, inteso in senso più politico che 
                  spirituale come il successore legittimo del Profeta. Il califfo, 
                  che dovrebbe costituire la rappresentanza pro tempore di Allah 
                  sulla terra, ha il compito di realizzare la Umma, l'unità 
                  dei musulmani, e di regnare applicando la Shari'a, la legge 
                  di dio. Una visione teocratica e totalitaria che non ammette 
                  critiche né forme di libertà di pensiero. Nelle 
                  sue realizzazioni le donne sono trattate con grande inferiorità, 
                  relegate a ruoli e mansioni di fatto sottomessi ai ruoli maschili, 
                  mentre l'omosessualità è peccato grave punito 
                  fino alla morte. Tutto ciò rappresenta l'apice di ogni 
                  autoritarismo ed è la più completa negazione del 
                  principio di libertà. 
                  Ai miei occhi di libertario una tale concezione è terrificante 
                  e non può che essere contrastata in quanto tale. Se infatti 
                  per un malaugurato sviluppo degli eventi trionfasse sarebbe 
                  la fine di ogni aspetto umanista e laico, di ogni possibilità 
                  di quelle libere espressioni per le quali i ribelli di ogni 
                  epoca e di ogni parte del globo hanno lottato per millenni e 
                  continuano a farlo. Equivarrebbe ad annichilire l'originario 
                  spirito dell'umanità. 
                  Potere incondizionato 
                Con la strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi, ennesimo 
                  eclatante atto cruento di questa prospettiva teocratico-assolutista, 
                  è la prima volta che viene massacrato un gruppo di individui 
                  la cui unica arma erano le vignette satiriche. È un lampante 
                  messaggio della più spietata intolleranza, una minaccia 
                  che dichiara esplicitamente che è in atto una guerra 
                  per dare potere incondizionato a una dottrina che vuole imporre 
                  a chiunque come pensare, cosa fare, cosa dire e come muoversi. 
                  Se vincesse sarebbe l'apoteosi di un oscurantismo assoluto. 
                  Di fronte a una tale epopea ultrareazionaria, così limpida 
                  nella sua raccapricciante ferocia antiumanista, si frantuma 
                  ogni contorno, ogni cornice, ogni appendice che in qualche modo 
                  possa giustificarla. So perfettamente che l'occidente colonizzatore 
                  è altamente responsabile e complice, più o meno 
                  diretto, dell'attuale egemonia jihadista nel mondo islamico. 
                  Abbiamo tutti letto da più parti che Bin Laden fu addestrato 
                  dalla Cia, che l'Isis, ora Is, fu inizialmente fomentato e armato 
                  dagli americani per abbattere il despota siriano Assad, che 
                  Boko Haram al suo sorgere in Nigeria è stato sottovalutato 
                  e continua a perpetrare indisturbato agghiaccianti stragi di 
                  civili e stupri di massa, come pure che negli anni novanta furono 
                  praticamente ignorati i macellai algerini che a colpi di machete 
                  massacravano nelle loro case tutti coloro che osavano metterli 
                  in discussione. 
                  Queste informazioni, ormai di dominio pubblico, non possono 
                  pregiudicare nulla. Il fatto che l'occidente della politica 
                  corrotta e degli affari (sempre sporchi) sia in buona parte 
                  responsabile e complice, che continui nascostamente a permettere 
                  che costoro si armino e si finanzino con commerci più 
                  o meno leciti, o che vengano finanziati da stati e multinazionali 
                  potenti che pensano di trarne profitto, non può incidere 
                  in alcun modo rispetto al giudizio e alla considerazione su 
                  queste orde di assassini e macellai che propagandano di agire 
                  in nome del loro dio. Ciò che l'attuale movimento jihadista 
                  rappresenta è talmente pregnante da trovarsi al di là 
                  delle connivenze, più o meno ambigue e più o meno 
                  occulte, che ne permettono la perpetuazione. 
                  Ritengo invece che per comprendere meglio cosa stia succedendo 
                  bisogna andare oltre le contingenze relativizzanti, risalire 
                  all'essenza del processo in atto e cercare di cogliere e identificare 
                  il deus ex machina che dà il la, l'archetipo congenito 
                  che spinge l'insieme delle cose a manifestarsi al di là 
                  della molteplicità delle differenziazioni. In questa 
                  attualizzazione dello jihadismo il primo aspetto determinante 
                  che salta agli occhi è la potentissima tensione androcratica 
                  (potere del maschio) che la ispira e la forgia. Ci fa intravedere 
                  che stiamo attraversando una transmutazione (trans, passaggio, 
                  mutazione, cambiamento radicale irreversibile) di tipo epocale, 
                  che ci stiamo trasferendo verso una dimensione collettiva, culturale 
                  e antropologica insieme, qualitativamente diversa da quella 
                  in cui l'avvento della modernità ci aveva illusi di poter 
                  continuare a dimorare. Stiamo vivendo un cambio di paradigma 
                  socio/esistenziale. 
                  Sta montando una fortissima spinta total/autoritaria che ha 
                  assunto l'attuale forma jihadista. Una propensione simbolica 
                  e una mutazione di senso che vorrebbero riportarci a quando, 
                  attorno al 2500 a.c., gli insediamenti stanziali gilanici, in 
                  cui era prevalente la complementarietà tra i generi e 
                  la mutualità delle relazioni comunitarie, furono annientati 
                  dalla furia bellica di orde di nomadi che con brutale violenza 
                  imposero un efferato dispotismo androcentrico impregnato di 
                  schiavismo (1). 
                  La lezione di Kobane 
                Con la decadenza in atto del capitalismo, in questa fase a 
                  egemonia finanziaria, che per sua natura non è né 
                  androfilo (amico dell'uomo) né ginofilo (amico delle 
                  donne) ma per l'appropriazione egoistica personale, la schiacciante 
                  predominanza dei sistemi fondati su dispotismo e sottomissione 
                  sta cominciando a incrinarsi seriamente. Se questo processo 
                  che ha preso avvio continuasse, c'è il rischio per il 
                  potere che potrebbe lasciare spazio a qualità e livelli 
                  di relazioni sociali fondati sulla cooperazione e la mutualità, 
                  fino a un futuribile annullamento di gerarchie e strutture di 
                  dominio. La tensione androcratica, ancora molto forte e diffusamente 
                  imperante, di fronte a questo rigurgito di un passato che si 
                  era illusa di aver definitivamente seppellito, sta tentando 
                  di rialzare la testa per riportare il tutto alla condizione 
                  di assoggettamento che era riuscita a imporre con forza schiacciante 
                  all'incirca 4.500 anni fa. 
                  Anche per questo è fondamentale la lotta che i compagni 
                  e le compagne libertari/e kurdi/e stanno conducendo, armi in 
                  pugno, a Kobane per fermare l'avanzata del califfato “Is”. 
                  Nonostante siano lasciati/e soli/e e non armati/e in modo adeguato, 
                  continuano eroicamente a fronteggiare un nemico super armato 
                  e addestrato. Lo hanno dichiarato ogni volta che ne hanno avuto 
                  l'occasione: la loro resistenza non è solo per loro stessi, 
                  ma per la libertà universale, compresi i valori che noi 
                  tanto esaltiamo. Nonostante siano l'unico finora efficace avamposto 
                  di resistenza, l'occidente continua criminalmente a non sostenerli 
                  e ad essere ambiguo nel conflitto contro l'avanzata jihadista 
                  che gli ha dichiarato guerra.
                  Andrea Papi
                  1. Tutto ciò è ampiamente 
                  documentato dalle ricerche archeologiche di Marija Gimbutas 
                  (La civiltà della dea, voll. 1 e 2, Stampa Alternativa, 
                  2012) e indirettamente confermato da numerosi studi antropologici 
                  che mostrano come in epoche pre/storiche avesse grande prevalenza 
                  un diffuso livello di relazioni comunitarie non centraliste, 
                  mutuali, non aggressive e non androcratiche (Ashley Montagu, 
                  Il buon selvaggio, Elèuthera, 2012)   |