Per una critica radicale 
                  dell'economia politica 
                 Dieci 
                  anni prima dello scoppio del crack finanziario, su una rivista 
                  tedesca del 1995, un caustico pubblicista di nome Robert Kurz 
                  raggelava l'euforia dei Nineties, sostenendo che «se l'estate 
                  siberiana del boom fordista nel dopoguerra» era stata 
                  già breve, «l'epoca seguente del “capitalismo 
                  da casinò”» degli anni '80 e '90 sarebbe 
                  stata «ancora più breve» (1). 
                  La crisi finale, anzi, era già in corso dagli anni '70 
                  e presto uno scoppio fragoroso l'avrebbe annunciata al mondo. 
                  «Crisi?... quale crisi?», chiosavano nel frattempo 
                  gli osservatori economici, e la tesi di Kurz restò «voce 
                  di uno che grida nel deserto». Gli «uomini il cui 
                  orizzonte è il mercato – commentò Kurz –, 
                  [...] “credono” alla crisi assoluta solo quando 
                  loro stessi mangiano dalla pattumiera». 
                  Quattro lustri dopo, quando anche il soddisfatto «ceto 
                  medio ha iniziato a frugare nei contenitori» (2) 
                  dell'immondizia, le idee della «critica del valore» 
                  che Kurz ha elaborato con E. Lohoff, N. Trenkle, A. Jappe fra 
                  gli altri, cominciano a suscitare meno indifferenza: sic transit 
                  gloria mundi. 
                  Nello scorso mese di giugno è uscito, per Mimesis, Terremoto 
                  nel mercato mondiale (Mimesis, Milano, 2014, pp. 86, € 
                  5,90), di Trenkle e Lohoff. Il libretto, in poche pagine, rende 
                  gli strumenti del pensiero marxiano adatti a ristabilire il 
                  giusto nesso tra «l'enorme bolla dei mercati finanziari» 
                  e la più generale crisi del capitalismo. Il lettore viene 
                  così scrollato dall'ipnosi, di sapore antisemita, delle 
                  attuali «personificazioni» della crisi che vanno 
                  dalle urla contro la casta degli speculatori, ai deliri del 
                  signoraggio. 
                  Attribuire responsabilità esclusivamente al capitale 
                  finanziario, inoltre secondo gli autori, significa rovesciare 
                  la «connessione di causa-effetto» della logica capitalistica. 
                  La vera causa del tracollo si trova sotto la superficie finanziaria, 
                  nelle profondità contraddittorie del meccanismo capitalista. 
                  Ma di quale contraddizione parla la «critica del valore»? 
                  Per Marx - riferimento teorico insostituibile - il valore di 
                  una merce è dato dal tempo di lavoro speso per la sua 
                  produzione. Il «lavoro» che dà sostanza al 
                  valore però, il lavoro astratto, è un'astrazione 
                  tipica del solo capitalismo, una funzione che riduce tutti i 
                  differenti lavori concreti a «quantità di tempo 
                  indifferenziato speso per produrre una merce» (3). 
                  Una merce rappresenta, sul mercato, una mera quantità 
                  di lavoro astratto in base alla quale può essere scambiata 
                  con altre che esprimano una quota uguale della medesima sostanza. 
                  Nel meccanismo di valorizzazione, anche i lavoratori sono privi 
                  di differenze e ridotti a semplici portatori di capacità 
                  di lavorare: una capacità qualsiasi da riversare nelle 
                  diverse branche della produzione. Un operaio può sempre 
                  essere convertito in centralinista, purché lavori e produca 
                  valore. In questo gioco sociale, la capacità di lavorare 
                  diventa una merce (la forza-lavoro) da vendere agli imprenditori 
                  in cambio di un salario. I capitalisti hanno il ruolo di generare 
                  nuovo valore costringendo i portatori di forza-lavoro a lavorare 
                  più tempo di quanto sia necessario a riprodurre il valore 
                  che costano. Per ottenere questa «estorsione di plusvalore», 
                  i proprietari di capitale sono costretti ad aumentare ossessivamente 
                  la produttività, rinnovando il potenziale tecnologico. 
                  Ma, ed è questa la contraddizione centrale, la rincorsa 
                  tecnologica ha condotto, negli ultimi trent'anni, ad un livello 
                  di produttività così alto che il lavoro umano 
                  – l'unica merce in grado di generare valore – è 
                  diventata superflua per la produzione. Il capitalismo ha segato 
                  il ramo sul quale era seduto. Negli anni '80, però, il 
                  crollo fu rimandato proprio grazie alla stampella del capitale 
                  fittizio e l'accumulazione sembrò così ripartire. 
                  Ma, nello scambio di prodotti finanziari, anche se il denaro 
                  venduto come merce ritorna accresciuto, si accresce soltanto 
                  di una sostanza fittizia, non basata su «valore effettivo». 
                  Con la creazione di titoli, infatti, si anticipa un valore – 
                  che viene utilizzato da subito come fosse «reale» 
                  –, sperando nella sua futura effettiva realizzazione nel 
                  processo di produzione. Come in un incantesimo, il capitale 
                  si accresce, raddoppia secondo dinamiche che il libro spiega 
                  con originalità; ma la massa di valore, la vera sostanza 
                  della ricchezza capitalista, non aumenta di un grammo. 
                  Tuttavia, se il valore anticipato non viene poi generato nella 
                  produzione di merci tramite impiego di forza-lavoro, il meccanismo 
                  crolla: tutte le bolle finanziarie, in ogni crisi, sono scoppiate. 
                  Che fare? 
                  In un contesto in cui il lavoro – restando la base di 
                  una società in cui senza vendere forza-lavoro non è 
                  possibile accedere alle risorse – si è trasformato 
                  in una comparsa costretta a recitare sul palco tecnologico-informatico 
                  soltanto per qualche minuto; autorevoli esponenti politici propongono 
                  con acume di trasformare i «servizi per il lavoro in un 
                  diritto di cittadinanza» (4). Per 
                  farne cosa? 
                  E i tentativi di risanamento e austerità? Secondo gli 
                  autori: una drammatica fiction degli Stati per conservare credibilità 
                  sui mercati finanziari e rimandare di un poco il crollo della 
                  montagna di promesse di pagamento ormai insolvibili. 
                  La critica radicale piuttosto, ecco la proposta del libro, dovrà 
                  dirottare la produzione verso i bisogni concreti svincolando 
                  la società dalle assurde contraddizioni della logica 
                  del valore. Voler mantenere in vita artificiale il cadavere 
                  del capitalismo, condannando milioni di disoccupati a cercare, 
                  per sopravvivere, di interpretare ancora quel ruolo superfluo 
                  che qualcuno favoleggia di trasformare in un «diritto» 
                  o a morire di fame in mezzo all'abbondanza sarebbe, secondo 
                  gli autori, la più grande «occasione mancata» 
                  della critica dell'economia politica.  
                 Riccardo Frola 
                Note  
                  1.    R. Kurz, «La fine della politica 
                  e l'apoteosi del denaro», Manifestolibri, p.119 
                  2.    Sono dichiarazioni di M. Iazzolino, segretario 
                  generale della fio.PSD 
                  3.    A. Jappe, in Gruppo Krisis, Manifesto 
                  contro il lavoro, DeriveApprodi, p.126 
                  4.    È quanto ha sostenuto G. Cuperlo, 
                  Corriere della sera 23/09/2014 
                     Educazione 
                  alla diversità 
                 
                  Noi popoli indigeni non siamo il problema. 
                    Siamo piuttosto, in larga misura, la soluzione. 
                    (E.L. Hernandez, teologo messicano zapoteco) 
                 
                  Voci 
                  sciamaniche è una “raccolta di esperienze visionarie” 
                  (Editore della terra di mezzo, Milano, 2013, pp. 272, € 
                  23,00) – come recita il sottotitolo - che vanno a comporre 
                  il libro curato da Joan Halifax, trent'anni fa, negli Stati 
                  Uniti, stampato poco dopo in Italia da Rizzoli e che, nel 2013, 
                  le Edizioni della Terra di Mezzo hanno riproposto. (La curatrice 
                  del volume oggi è monaca buddista. In gioventù 
                  si laureò in filosofia e antropologia, per molti anni 
                  collaborò col grande studioso di miti Joseph Campbell, 
                  fu moglie di Stanislav Grof - psichiatra e ricercatore nel campo 
                  degli stati di coscienza non ordinari - con il quale sperimentò 
                  l'LSD come mezzo per alleviare le sofferenze dei malati terminali. 
                  Passò inoltre lunghi periodi della sua vita tra i Dogon 
                  del Mali e gli Huicholes e i Maya del Messico, studiando la 
                  loro cultura e partecipando ai rituali sciamanici). 
                  Philippe Godard in un bell'articolo “La vita come un gioco” 
                  pubblicato su questa 
                  rivista nel dicembre 2014, dice: «Il “mondo” 
                  è un concetto che implica un'unica realtà: l'infinito 
                  dell'orizzonte e degli esseri. Se questa infinita diversità 
                  resiste, evolve, se certe culture scompaiono, ma altre vedono 
                  la luce, allora il mondo è mondo. In caso contrario, 
                  non è che una prigione a livello globale. In origine, 
                  ogni cultura inventata dall'uomo è stata soltanto un 
                  gioco: esseri umani inventarono cosmogonie, come i bambini immaginano 
                  una situazione nel mondo; si diedero regole e modi di vivere 
                  come fanno i bambini nei loro giochi del momento. Il fatto che 
                  questi giochi di culture, divenendo complessi, siano diventati 
                  altrettanti ostacoli alla libera realizzazione degli esseri 
                  e dei desideri non impedisce che il gioco resti all'origine 
                  del mondo umano: la vita è un gioco, e il bambino sa 
                  che cos'è il gioco di vivere». 
                  A questo pensiero voglio aggiungere una riflessione ovvia ma, 
                  penso, non inutile. Voglio sottolineare l'evidenza del fatto 
                  che noi siamo immersi nel mondo culturale di una sola e piccola 
                  parte dell'emisfero, mentre contemporaneamente esistono altri 
                  popoli e altre geografie che, anche, stanno facendo – 
                  hanno fatto – la storia. Quindi è chiaro che abbiamo 
                  la possibilità di vivere la nostra storia come punto 
                  di vista interlocutorio in mezzo ad altre storie – alle 
                  quali è stata data meno risonanza, ma che non sono per 
                  questo meno importanti o prive di significato –, oppure 
                  possiamo perpetuare la visione meschina e calcolatrice di chi 
                  pensa che gli altri siano sempre più arretrati, inferiori 
                  o primitivi, in ogni caso da non prendere in considerazione. 
                  In una prospettiva interlocutoria il senso della vita che ognuno 
                  di noi va ricercando emerge dal confronto della molteplicità, 
                  nel secondo caso il senso della vita si esaurisce e viene meno. 
                  Aggiungo che la storia si è sempre costruita su mitologie, 
                  da sempre per tutti i popoli via d'accesso al mondo dello spirito 
                  e matrice dei comportamenti umani più ancestrali e profondi. 
                  Il mito nasce in risposta a bisogni primordiali - ripararsi, 
                  scaldarsi, nutrirsi... – e non ha esaurito la sua funzione; 
                  trovo quindi interessante chiedermi, e chiedere, quale sia il 
                  mito che dà senso alla vita quotidiana di ognuno di noi, 
                  qual è il mito capace, oggi, di spiegare la nostra vita? 
                  Lascio aperta la domanda e con questi pensieri mi avvicino alle 
                  voci sciamaniche che sono raccolte nel libro di cui voglio parlare. 
                  In circa duecentocinquanta pagine si susseguono trentasei narrazioni, 
                  trentasei voci che ci mettono a confronto con mondi lontani 
                  dal nostro abituale orizzonte. Un panorama vasto e variegato 
                  che comprende Siberia, Australia, Africa, Groenlandia, Melanesia 
                  e le Americhe del Nord, Centro e Sud. Luoghi dove lo/a sciamano/a 
                  è una figura centrale - mistica, sacerdotale e politica 
                  allo stesso tempo - con molteplici funzioni. Oltre a essere 
                  uno specialista dell'anima è guaritore, veggente, visionario, 
                  poeta, cantore, è capo spirituale, ma spesso anche giudice 
                  e politico, in quanto depositario della storia e della cultura 
                  sacra e secolare del suo popolo. 
                  La figura sciamanica nasce durante il paleolitico superiore 
                  e oggi sopravvive ovunque esistano ancora popoli di cacciatori/raccoglitori 
                  e laddove questa antica tradizione sacra sia riuscita, in qualche 
                  modo, a mantenersi viva nonostante le trasformazioni - spesso 
                  molto pesanti - dell'ambiente culturale circostante. 
                  I racconti delle “esperienze iniziatiche”, cioè 
                  di che cosa ha portato quegli individui a diventare dei “guaritori” 
                  e come questo è avvenuto, è un viaggio all'interno 
                  di tradizioni differenti ma con chiari punti in comune. Uno 
                  fra tutti, la percezione del mondo come luogo in cui tutto è 
                  vivente e ciò che vive è relazione, senza separazioni 
                  tra specie, nella consapevolezza della sacralità del 
                  legame che unisce ogni cosa. Come dice Leonard Crow Dog, Sioux 
                  del Nord America: – «Mitakuye oyasin, tutti i miei 
                  parenti! Voleva dire tutti quelli con due gambe, tutti quelli 
                  con quattro zampe, anche quelli con otto zampe e quelli senza: 
                  significava quelli con le ali e quelli con pinne, quelli con 
                  radici e con foglie, ogni cosa viva, tutti nostri parenti». 
                  Sappiamo che la separazione e la frammentazione hanno costituito 
                  il punto di forza su cui si è basato lo sviluppo dell'Occidente. 
                  Cose utili e meravigliose sono state scoperte grazie all'osservazione 
                  sempre più ravvicinata del particolare separato dall'insieme 
                  di appartenenza. Ma cosa stava comportando tutto ciò 
                  per l'equilibrio personale di ognuno e del pianeta intero abbiamo 
                  dimenticato di chiedercelo. Oggi le conseguenze sono gravi e 
                  ben visibili. In questo panorama divenuto catastrofico le voci 
                  sciamaniche ci raggiungono come acqua per la sete. Sono storie 
                  di visioni, di esperienze interiori, spesso drammatiche, che 
                  aprono l'accesso a stati di coscienza non ordinari. Narrano 
                  cosmogonie che non sempre risuonano con facilità alle 
                  nostre orecchie. Di sicuro rendono evidente l'esistenza di un'apertura 
                  della mente alla quale normalmente non abbiamo accesso, un passaggio 
                  fra realtà ordinarie e non ordinarie. Un passaggio e 
                  allo stesso tempo una barriera fra mondi che coesistono. 
                  Possiamo smettere di liquidare tutto questo come necessità 
                  tribali, ormai da tempo superate dall'evoluta cultura occidentale, 
                  e provare ad usarle come cassa di risonanza per comprendere 
                  se qualcosa di fondamentale è andato perduto lungo la 
                  strada della nostra evoluzione? 
                  Pensiamo anche al fatto che queste culture/religioni non hanno 
                  mai costruito intorno a sé chiese o altri luoghi di potere: 
                  non è cosa sufficiente a sostenerci nel prestare loro 
                  ascolto con attenzione? Non si tratta di assumere modi d'essere 
                  che non ci appartengono, ma semplicemente di deciderci una buona 
                  volta a imparare gli uni dagli altri affinché questa 
                  infinita diversità possa resistere, evolvere, perché 
                  se certe culture scompaiono, ma altre vedono la luce, allora 
                  il mondo è mondo. In caso contrario, non è che 
                  una prigione a livello globale. 
                  La sopravvivenza dei popoli nativi, in ogni parte del mondo, 
                  continua a subire pesantissimi attacchi. Se ne parla poco o 
                  niente. Leggere dei principi su cui molti di essi basano la 
                  propria esistenza è un fatto educativo: all'ascolto, 
                  al rispetto, al dialogo. 
                 Silvia Papi 
                     Ma 
                  l'anarchia 
                  è differenza 
                 Questa 
                  non è una rivista come le altre, questo non è 
                  soltanto un annuario che approfondisce La pratica della libertà 
                  e i suoi limiti (Aa. Vv., Libertaria 2015, a cura di Luciano 
                  Lanza, Mimesis, Milano 2015, pp. 261, € 20,00). È 
                  assai di più, è una vera e propria introduzione 
                  al pensiero anarchico, alle sue radici, alla sua complessità, 
                  alla sua attualità e soprattutto alla sua differenza. 
                  Con questa parola intendo non soltanto la differenza rispetto 
                  ad altre teorie e pratiche politiche ma in primo luogo la differenza 
                  interna al movimento anarchico. È anche a questa sua 
                  pluralità che si deve il fatto che «l'anarchismo 
                  è la forma più avanzata di pensiero politico» 
                  (N.Chomsky intervistato da J.Sethness, p. 57). 
                  Già nei fondamenti storici, nei “padri fondatori” 
                  vive la differenza. L'anarchia, infatti, «è il 
                  movimento storico radicato, almeno teoricamente, nel lavoro 
                  di William Godwin e Pierre-Joseph Proudhon, articolato più 
                  chiaramente nell'opera di Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin, 
                  Emma Goldman e altri. Spesso è associato a una posizione 
                  antistatalista, ma a mio avviso sarebbe meglio definirla come 
                  dedizione nei confronti di due posizioni: critica del dominio 
                  in tutte le sue forme e propensione per forme di organizzazione 
                  e resistenza dal basso. Un simile punto di vista trascura un 
                  altro tipo di pensiero anarchico: l'anarchia individualista 
                  di Benjamin Tucker e Max Stirner, i cui propositi moderni sono 
                  libertari, come quelli di Robert Nozick. In ogni caso, in genere 
                  si associa il termine anarchia con le prime posizioni piuttosto 
                  che con l'ultima» (T. May intervistato da R. Marshall, 
                  p. 67). Rispetto al comunismo, l'anarchismo è libero 
                  da ipoteche totalitarie; si ispira ai propri iniziatori ma non 
                  li venera; «il terzo vantaggio, il più importante, 
                  è che le idee anarchiche sono centrali nella maggior 
                  parte dei movimenti sociali odierni» (G. Kuhn, p. 47). 
                  I principi invalicabili dell'anarchismo sono pochi e si possono 
                  condensare nella «libertà dell'individuo e la non 
                  prevaricazione sugli altri individui» (F. Eva, p. 169), 
                  «nel rifiuto del dominio, nell'irrinunciabilità 
                  all'eguaglianza quale condizione stessa della libertà, 
                  nella fiducia nell'autonomia dell'individuo come strumento di 
                  autorganizzazione dei singoli nella storia» (P. Adamo, 
                  p. 239). 
                  Contrariamente a ciò che spesso si pensa, rivoluzione, 
                  comunismo, antistatalismo, astensionismo non sono dei principi 
                  fondamentali dell'anarchismo ma soltanto alcune delle sue possibili 
                  manifestazioni. E infatti in questo libro c'è chi attacca 
                  senza incertezze lo Stato e c'è chi - come Chomsky - 
                  lo difende rispetto alle multinazionali poiché in queste 
                  ultime «nessuna influenza è possibile. Quelle sono 
                  vere tirannie. Quando la società è dominata in 
                  gran parte da tirannie private, che rappresentano la peggiore 
                  forma di oppressione, le persone hanno bisogno di un qualche 
                  tipo di auto-difesa. E lo Stato la garantisce» (citato 
                  da Kuhn, p. 49). C'è chi vede nel mercato sempre e soltanto 
                  il mercato del capitale e c'è chi ritiene possibile un 
                  mercato dove lo scambio sia volto non al profitto di pochi ma 
                  al vantaggio di molti, se non dell'intero corpo sociale. C'è 
                  chi è per la rivoluzione violenta contro la violenza 
                  del potere e diffida oggi più che mai di una democrazia 
                  rappresentativa al tramonto, «in cui contano le lobbies, 
                  i leader carismatici e i sondaggi di opinione» (Colin 
                  Crouch, ricordato da F. Codello, p. 130) e altri - come Berti 
                  e Adamo - che ritengono la liberaldemocrazia l'espressione oggi 
                  più avanzata dell'esigenza anarchica del massimo di libertà 
                  coniugata al massimo di eguaglianza. 
                  C'è chi vede negli attivisti e nei militanti la reale 
                  incarnazione del progetto e critica i «giochi verbali, 
                  le controversie intellettuali di filosofi radicali, da caffè 
                  o salotto» (L. Pezzica, p. 223) e c'è chi, al contrario, 
                  pensa che «non si deve mitizzare la teoria “bassa” 
                  che nasce dalla partecipazione militante più di quella 
                  “superiore” che sarebbe reperibile in un canone» 
                  (L. A. Williams, p. 179) o giudica le tendenze antintellettualistiche 
                  uno degli ostacoli da superare in quanto l'anarchismo «non 
                  viene riconosciuto come pensiero “nobile”, abbastanza 
                  sofisticato da essere studiato e approfondito, e quindi non 
                  riesce a incidere o orientare, o stimolare correnti di pensiero 
                  al di fuori del ristretto circolo degli aficionados. [...] Quelli 
                  citati dai mass-media sono gli attivisti che intervengono attivamente 
                  nelle dinamiche di movimento (No-TAV e No-MUOS per esempio) 
                  o nei cosiddetti Centri Sociali; con un approccio dei media 
                  solo appena modernizzato, ma sostanzialmente ancora orientato 
                  alla criminalizzazione di fine Ottocento e Novecento. Nei dibattiti 
                  culturali, in televisione, nelle pagine culturali dei quotidiani 
                  più diffusi manca a tal punto la presenza di anarchici 
                  che anche autori che lo sono o che gli anarchici considerano 
                  interni al pensiero libertario (Albert Camus per esempio) vengono 
                  genericamente definiti/attribuiti all'area progressista» 
                  (F. Eva, p. 168). C'è chi vede ancora nel Sessantotto 
                  un modello di rivolta anarchica e chi critica aspramente il 
                  suo essere stato funzionale al dominio spettacolare «poiché 
                  questa società detta dell'abbondanza sembra reprimere 
                  il puritanesimo delle sue origini, si trasforma realmente in 
                  società permissiva senza la quale la festa non potrebbe 
                  darsi in quanto spettacolo. Un profumo di orgia si diffonde 
                  nello spirito del tempo, di cui il maggio '68 costituisce in 
                  qualche modo l'acme e il simbolo» (S. Latouche, p. 15) 
                  e chiede a chi voglia «“salvare” e riprendere 
                  la carica libertaria» del Sessantotto di «farsi 
                  carico di un ripensamento radicalmente critico non solo di quel 
                  che allora pensava, ma anche di quel che pensa ora e di come 
                  lo pensa» (F. Melandri, p. 232). 
                  C'è chi non è disposto ad allontanarsi dai principi 
                  dell'anarchismo ottocentesco e chi vede in questa rigidità 
                  un ostacolo, optando piuttosto «per una specie di pragmatismo 
                  fallibilista, ovvero per una versione “senza aggettivi” 
                  dell'anarchismo, in cui la prospettiva utopica (una società 
                  egualitaria, non egualitaristica, in cui le relazioni tra gli 
                  uomini non siano determinate da meccanismi di dominio) non viene 
                  legata né a rigide prescrizioni istituzionali, politiche 
                  o economiche, né a precise metodologie e linee d'azione, 
                  ma piuttosto a una sperimentazione individuale e collettiva» 
                  (P. Adamo, p. 237). C'è chi fonda la possibilità 
                  stessa dell'anarchismo su un'antropologia positiva, fiduciosa 
                  nella “naturale” tendenza umana alla cooperazione 
                  - dimenticando magari la critica di Bakunin a Rousseau - e chi 
                  come Chomsky si spinge a definire quella umana «una specie 
                  malsana» (p. 56) o concorda con Immanuel Kant e con Isaiah 
                  Berlin sul legno storto dell'umanità, dal quale nulla 
                  si potrà ricavare di perfettamente dritto (F. Codello, 
                  p. 132). 
                  Come si vede, questo volume è davvero pervaso dalla consapevolezza 
                  del limite non soltanto dell'azione politica qui e ora ma del 
                  limite universale delle cose umane, senza però che questo 
                  implichi la rinuncia a fare tutto il possibile per costruire 
                  una società di liberi e di eguali. Nessuna “grande 
                  rivoluzione”; al suo posto l'azione quotidiana, pervasiva, 
                  capillare, tenace. Una libertà che non è l'inizio 
                  o la conclusione di una trasformazione definitiva ma è 
                  piuttosto la «risoluzione di problemi reali, soprattutto 
                  perché gli anarchici hanno riflettuto molto sulla risoluzione 
                  di problemi reali puntando la loro attenzione sul microlivello, 
                  cosa che altre ideologie politiche non sentono in realtà 
                  di dover fare finché non si sono impadronite del potere 
                  statale» (D. Graeber, p. 80). Non la palingenesi ma l'anarchismo 
                  che già c'è nel corpo sociale, nel tessuto delle 
                  relazioni collettive e delle aspirazioni individuali: «Una 
                  nuova figura, quindi, che sia in grado di riunire in sé, 
                  anche se con momenti distinti, il riformismo e il rivoluzionarismo. 
                  Che faccia le cose concrete, banalmente quotidiane ma sapendovi 
                  imprimere il segno del possibile totalmente altro. [...] Riassunta 
                  in uno slogan la proposta è: pensare da anarchici, agire 
                  da libertari. [...] La rivoluzione come momento risignificante 
                  della società» (L. Lanza, p. 255). 
                  Se «anche l'anarchismo si è trasformato un po' 
                  in merce, e non è più percepito come una minaccia» 
                  (G. Kuhn p. 48), le ragioni sono molte. Una è la sua 
                  riduzione al campo dei diritti umani, alla difesa delle donne, 
                  dei migranti, degli omosessuali, dimenticando che la rivendicazione 
                  dei diritti civili - da sola - è perfettamente coerente 
                  con l'esistente ultraliberista e che la libertà della 
                  persona è tale soltanto in un quadro di liberazione collettiva 
                  soprattutto dallo sfruttamento del capitale, dal dominio di 
                  un mercato del lavoro ridotto all'immenso profitto delle multinazionali. 
                  Un'altra ragione può essere anche una sorta di ingenuità 
                  nella lettura troppo ottimistica di alcuni eventi contemporanei, 
                  come quella che Mohammed Bamyeh fa delle «grandiose rivoluzioni 
                  della primavera araba», nelle quali si sarebbe ottenuta 
                  «la rara combinazione di metodo anarchico e intento liberale. 
                  [...] Persino le forze di governo ora accettano praticamente 
                  tutte le richieste dei rivoluzionari (p. 40). Neppure un accenno 
                  alla eterodirezione statunitense di queste presunte “primavere”, 
                  che infatti sono finite nell'inverno di poteri militari antichi 
                  e feroci, come in Egitto. 
                  L'annuario 2015 di Libertaria è dunque un'articolata 
                  introduzione al pensiero anarchico anche perché fa toccare 
                  le ragioni per le quali «è difficile racchiudere 
                  tutti i protagonisti e le proposte riconducibili visibilmente 
                  all'idea anarchica in un solo corpo dottrinario al singolare, 
                  l'anarchismo» e piuttosto si deve sempre parlare di «anarchismo 
                  plurale» (S. Vaccaro, p. 145), da mettere ogni giorno 
                  alla prova - nelle sue possibilità e nei suoi limiti 
                  - all'interno di «un'articolazione sociale che si nutra 
                  della diversità come linfa vitale. L'acquisizione in 
                  toto del concetto di libertà esige il riconoscimento 
                  reciproco della diversità» (L. Lanza, p. 255). 
                  L'anarchismo è differenza. 
                 Alberto Giovanni Biuso 
                     Il 
                  fuorigioco? 
                  Limita la libertà (di movimento) 
                Quando Gianni Brera da direttore chiamò Luciano Bianciardi 
                  (Grosseto 1922-Milano 1971) a collaborare sulle pagine del prestigioso 
                  Guerin Sportivo, lo scrittore grossetano - diventato notissimo 
                  per quel romanzo, La vita agra, che metteva rabbiosamente 
                  alla gogna il modello social-borghese degli anni del boom economico 
                  - era già fortemente debilitato nel fisico a causa dell'alcool. 
                  Infatti, la sua rubrica settimanale aperta al dialogo coi lettori, 
                  Così è se vi pare, non ebbe una durata lunga, 
                  iniziò alla fine di settembre del 1970 e si protrasse 
                  fino al novembre dell'anno dopo. Tifoso della Fiorentina (ma 
                  dei fiorentini diceva peste e corna), appassionato e pure molto 
                  competente di calcio, Bianciardi al terzo dei suoi figli che 
                  gli pose l'interrogativo “perché una persona seria 
                  come te si occupa di sport?”, di rimando confermò 
                  “perché sono una persona seria”. Difatti. 
                  Come si può leggere nel volume lI fuorigioco mi sta 
                  antipatico (Stampa Alternativa, Viterbo, 2007, pp. 384, 
                  € 16,50) serissime erano le risposte che consegnava agli 
                  affezionati lettori del Guerin che gli scrivevano. Scanzonato 
                  e schietto emetteva i suoi giudizi su calciatori, allenatori, 
                  atleti di altri sport e, spesso, si sbilanciava in paralleli 
                  con la letteratura, la storia che dalla penna di qualche altro 
                  cronista potevano apparire eccessivi ma non dalla sua. Alla 
                  ricorrenti e fatidiche dieci domande poste, Bianciardi l'anarchico 
                  (“uomo che vorrebbe una società basata sul consenso 
                  e non sull'obbligo”) non perdeva occasione per osannare 
                  il fascinoso Gigi Riva, ma al di sopra dell'idolo dei tifosi 
                  del Cagliari scudettato, poneva solo Silvio Piola, lo svedese 
                  Gunnar Nordahl e il gallese John Charles. Dell'allora allenatore 
                  della nazionale, Ferruccio Valcareggi, diceva che era “un 
                  onesto amministratore della pedata” e dovendolo avvicinare 
                  ad un personaggio del Risorgimento (epoca di cui si poteva considerare 
                  un esperto) chiamava in causa Quintino Sella. Su Vittorio Pozzo 
                  si esprimeva così: “Era un ottimo alpino che faceva 
                  cantare da solisti terzini, da coristi i mediani e da soprani 
                  gli attaccanti. Con questo assieme strepitoso veniva fuori un 
                  ottimo melodramma. E vinceva partite e campionati del mondo”. 
                  Ad un lettore che gli domandava: “Se fosse il presidente 
                  dell'Inter farebbe il cambio alla pari Mazzola-Rivera?” 
                  ribatteva: “Se fossi il presidente Fraizzoli non farei 
                  lo scambio alla pari. Ma siccome sono Bianciardi, lo farei anche 
                  domattina”. 
                  Del fuorigioco sentenziava “mi sta antipatico (da qui 
                  il titolo del libro di Stampa Alternativa), come tutte le regole 
                  che limitano la libertà di movimento e di parcheggio”, 
                  mentre un personaggio come Helenio Herrera Bianciardi proprio 
                  non lo sopportava: “in questa società dove molti, 
                  troppi vendono fumo, Helenio Herrera si trova benissimo, e sa 
                  tenere da par suo l'ufficio stampa di Helenio Herrera. Come 
                  tecnico? Manca di intuizione psicologica, si abbandona all'ambiente 
                  in cui opera, vince i campionati se ha alle spalle un dirigente 
                  come Moratti”. 
                 Mimmo Mastrangelo 
                     Un'enorme 
                  potenzialità 
                  di contagio sociale 
                
                  Quando tu prendi il potere, 
                    allora il potere si prende te 
                    J. Holloway, p. 80 
                 
                  Agire 
                  altrimenti. Anarchismo e movimenti radicali nel XXI secolo 
                  è il titolo dell'ultima antologia curata da Salvo Vaccaro 
                  per elèuthera (Milano, 2014, pp. 247, € 15,00). 
                  L'anarchia è intesa qui come elemento vitale, che appartiene 
                  cioè alla vita, e presente, non rimandabile a un lontano 
                  e ipotetico futuro. Essa è motore di conflitto permanente 
                  contro il governo, sempre più governance post democratica 
                  (iperburocratica) e sempre meno government rappresentativo, 
                  contro l'accanita competizione che tende a uniformare di sé 
                  tutti i campi del vivere sociale, contro la guerra permanente 
                  e la logica repressivo-securitaria degli Stati nazionali, contro 
                  la manipolazione e la falsificazione permanente, contro il saccheggio 
                  della ricchezza sociale e ambientale che è la cifra comune 
                  del neoliberismo. A questo proposito assai significativamente 
                  Graeber (p. 36) scrive non di “neoliberismo” ma 
                  di “neoliberalismo” per intendere come esso sia 
                  più che un movimento economico un movimento politico, 
                  “una reazione a tutte quelle vittorie ottenute dai movimenti 
                  sociali degli anni Sessanta”. 
                  L'anarchia è stata adottata, per lo meno come mezzo, 
                  e in maniera più o meno consapevole, da parte di un gran 
                  numero di movimenti di lotta che negli ultimi venti anni hanno 
                  dato corpo a forme di resistenza all'ordre établi. In 
                  questa antologia si riportano analisi su alcuni di questi movimenti. 
                  Manca, ed è un peccato, una riflessione su quello greco, 
                  tra i più spiccatamente anarchici e maturi, a mio modo 
                  di vedere, sia nella pratica che nelle riflessioni. Ma ci sono 
                  i movimenti americani di Occupy con le riflessioni di David 
                  Graeber, Michael Albert e Noam Chomsky, ci sono le influenze 
                  zapatiste sul postmarxismo di John Holloway, gli indignados 
                  e le relazioni tra costoro e buona parte del movimento anarchico 
                  spagnolo, attivo in quel grande momento di presa di coscienza 
                  collettiva che sono state le acampadas, gli hacker di Anonymous; 
                  fino ad arrivare a un insieme di contributi, alcuni dei quali 
                  ruotano intorno a concetti centrali e fecondi come “l'utopia 
                  persistente” (definizione coniata M. Abensour che per 
                  R. Kinna combacia con il pensiero anarchico, p. 150) e l'insurrezione, 
                  declinata come attacco permanente e rifiuto dell'attesa, altri 
                  a mio parere assai meno centrati, perché sostanzialmente 
                  neo (e non anti) deterministi, quando teorizzano il collasso 
                  – d'emblée – della civiltà industriale, 
                  o il crollo del capitalismo globale (Uri Gordon, pp. 129-144). 
                  A chiudere un ricco saggio riassuntivo che ha il merito di sintetizzare 
                  un rinnovato modo di pensare l'anarchismo in azione: il post-anarchismo 
                  e la politica radicale oggi di Saul Newman, autore di cui elèuthera 
                  ha pubblicato ultimamente un altro, simile, e stimolante, scritto: 
                  Fantasie rivoluzionarie e zone autonome. Post-anarchismo e spazio 
                  politico (2013, pagg. 81, € 8,00). Newman identifica la 
                  politica radicale contemporanea con “forme di organizzazione 
                  transnazionale antiautoritarie” basate sulla “democrazia 
                  diretta o non-rappresentativa”, cioè in buona sostanza 
                  “anarchiche”. Un anarchismo per lo più “inconscio” 
                  perché “modo particolare di intendere e praticare 
                  la politica, un modo che persegue l'autonomia dallo Stato e 
                  che non punta alla conquista del potere, ma alla sua decentralizzazione 
                  e democratizzazione” (S. Newman, pp. 234-235). 
                  Quindi, metodo anarchico dicevo: ovvero orizzontale, antiautoritario, 
                  antigerarchico (Graeber, p. 39) che prende forma nelle assemblee 
                  generali, nei gruppi di lavoro a esse collegati e nell'abitudine 
                  all'azione diretta e spesso illegale in grado di imporre obiettivi 
                  intermedi, nel mutuo appoggio come pratica solidale extra, o 
                  anti, statale. 
                  Un metodo che è immediatamente prassi in quanto rifiuta 
                  la distinzione tra forma e sostanza e che è collettivo 
                  perché elaborato attraverso il confronto transnazionale, 
                  nel comune rifiuto della conquista del potere a qualunque grado 
                  e nell'intento altrettanto comune di  disperdere e neutralizzare 
                  quanto più possibile tale potere. 
                  I movimenti contemporanei nella loro eterogeneità, cito 
                  ancora l'ottima introduzione di S. Vaccaro, intendono divenire 
                  “rivoluzione senza farsi istituzione della rivoluzione”: 
                  vero e proprio nodo gordiano della modernità, questo, 
                  che l'anarchismo, solo tra i movimenti rivoluzionari, ha individuato 
                  e affrontato, anche se invero non (ancora?) risolto. 
                  Da qui la salutare attenzione al presente, la tensione continua 
                  a “creare spazi prefigurativi in cui sperimentare nell'immediato 
                  il tipo di struttura esistenziale che esisterebbe in una società 
                  libera dallo Stato e dal capitalismo” (D. Graeber, p. 
                  42). “Il comunismo – scrive D. Graeber (p. 46) – 
                  esiste già nel nostro intimo relazionarci con gli altri 
                  su un milione di livelli differenti. Quindi si tratta di espanderlo 
                  progressivamente fino a distruggere il potere del capitale”. 
                  Questo nella consapevolezza che il capitalismo è un “modo” 
                  non una “cosa” (J. Holloway, p. 80), così 
                  come lo Stato, come già ripetutamente indicato tra gli 
                  altri da M. Bakunin e E. Colombo, non è solo “una 
                  serie di istituzioni e strutture di potere, ma una particolare 
                  relazione autoritaria, un particolare modo di pensare e organizzare 
                  le nostre vite” (S. Newman, p. 226). Mezzi e fini libertari 
                  hanno un'enorme potenzialità di contagiare l'ambito sociale, 
                  più di quanto esse non facciano già, in un'epoca 
                  in cui “la distanza dell'istituzione sociale dalla società” 
                  è “divenuta sempre più chiara a porzioni 
                  sempre maggiori di popolazione” (J. Holloway, p. 74). 
                  Testi come questi sono preziosi strumenti da provare a utilizzare 
                  in una fase in cui hanno raggiunto l'apice le politiche di saccheggio 
                  dei governi e dei loro collegati transnazionali: N. Chomsky 
                  ricorda giustamente, e lo fa spesso, che ad aprire la strada 
                  al New Deal sono stati gli scioperi degli anni Trenta. Allo 
                  stesso modo oggi è necessario occupare e rioccupare le 
                  piazze, fisicamente o simbolicamente, ovvero infiltrare il sociale 
                  che ci circonda, dando vita a esperienze più diffuse 
                  possibile di assemblearismo, conflitto con l'ordine costituito 
                  e autogestione di tutti gli aspetti della nostra vita, costruire 
                  ponti tra sfruttati di diverse latitudini e sponde del Mediterraneo 
                  per generalizzare un'insubordinazione di massa e radicale, che 
                  è il solo mezzo nelle nostre mani per far mutare di segno 
                  le politiche dei governi o, se si vuole, della governance transnazionale. 
                  Ma queste mani ce le dobbiamo sporcare, possibilmente smettendo 
                  di autorappresentarci come originale ma innocuo movimento di 
                  opinione e dandoci da fare penetrando davvero nel sociale, agendo 
                  fianco a fianco – ognuno con i suoi modi ma in maniera 
                  solidale – con chi “sta sul pezzo”, senza 
                  tentennamenti, ortodossie, capziosi distinguo o soverchie paure. 
                 Antonio Senta 
                     La vagina 
                  scomparsa 
                 Ogni 
                  anno la rivista Time interroga i propri lettori: “quale 
                  parola vorresti venisse bandita il prossimo anno?” e propone 
                  una lista di termini tra i quali scegliere. Si tratta perlopiù 
                  di neologismi abusati o espressioni gergali divenute quasi insopportabili 
                  come OMG (oh mio dio) o LOL (che ridere). Tra i buoni propositi 
                  che si è soliti formulare in vista del nuovo anno, Time 
                  ne propone uno linguistico-lessicale, auspicando la rimozione 
                  dal linguaggio – soprattutto quello dei media – 
                  di parole che avrebbero ormai perso (o non hanno mai avuto) 
                  un significato. 
                  Nella lista di vocaboli da mettere al bando nel 2015, la presenza 
                  di femminista ha sorpreso tutti. In molti hanno criticato con 
                  indignazione questa scelta (per cui Nancy Gibbs, redattrice 
                  di Time, si è pubblicamente scusata). Ma com'è 
                  potuto accadere che un termine con una forte accezione rivoluzionaria 
                  venisse declassato fino ad essere inserito in una lista di parole 
                  di cui ci si augura il pensionamento? 
                  Quanto accaduto è probabilmente sintomo della credenza 
                  diffusa di una inopportunità delle istanze femministe 
                  nel XXI secolo, per alcuni divenute ormai anacronistiche. Non 
                  è il vocabolo in sé ad essere riconosciuto come 
                  obsoleto, ma ciò a cui rimanda e da cui deriva: il femminismo. 
                  Non c'è più alcun bisogno di parlare di emancipazione 
                  femminile e liberazione sessuale in questa nostra nuova era, 
                  poiché tutto è già stato conquistato. Ma 
                  è davvero così? 
                  Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel 
                  lavoro, nell'arte (a cura di Ilaria Bussoni e Raffaela Perna, 
                  Derive Approdi, Roma, 2014, pp. 166, € 20,00) fornisce 
                  uno spunto per una riflessione sull'efficacia e l'importanza 
                  del femminismo oggi. A partire dalle immagini delle manifestazioni 
                  femministe di ieri, avvenute principalmente negli anni Settanta, 
                  ma ancor più dalle immagini del gesto femminista per 
                  eccellenza: pollici e indici che si univano a formare un triangolo 
                  che rimandava al sesso femminile. Il volume, una raccolta collettanea 
                  di sedici saggi accompagnati da diverse foto di donne che esibiscono 
                  il simbolo della vagina, non ha come obiettivo la sola narrazione 
                  storica, ma si interroga su cosa sia rimasto della rivoluzione 
                  (incompiuta) femminista, proponendo un'analisi critica di quanto 
                  avvenuto in quegli anni e di ciò che ne resta. 
                  Il libro prende vita da una domanda delle curatrici: dov'è 
                  finito il gesto femminista? Così presente per più 
                  di un decennio, il simbolo di un'intera lotta sembra essere 
                  scomparso. Viene realizzata una ricerca genealogica, indagando 
                  sulle sue radici. Quando è apparso per la prima volta 
                  e dove? Scopriamo così, dopo aver interrogato diverse 
                  esponenti del movimento femminista nel mondo, che il simbolo 
                  della vagina è comparso per la prima volta in Italia, 
                  dove è poi divenuto il segno distintivo delle battaglie 
                  del femminismo. 
                  La portata rivoluzionaria di quelle mani alzate è data 
                  principalmente dal contesto. Sono gli anni Settanta. Aborto, 
                  riforma del diritto di famiglia, divorzio, maternità 
                  consapevole sono obiettivi delle lotte compiute in nome di un'autodeterminazione 
                  che fino a quel momento non era concessa. Forte è il 
                  rifiuto del ruolo che si pensava fosse ''naturalmente'' assegnato 
                  ad ogni donna proprio in virtù del suo organo riproduttivo. 
                  Era la vagina a conferire significato al genere femminile e 
                  a darle un posto ben preciso all'interno della società. 
                  Eppure, nonostante il sesso ricoprisse un ruolo così 
                  centrale nella vita delle donne, tanto da condizionarne ogni 
                  aspetto dell'esistenza, questo si rivelava un tabù inesplorabile, 
                  non conoscibile né tantomeno narrabile; qualcosa di cui 
                  non poter nemmeno disporre in modo libero e autonomo. È 
                  proprio questa la condizione che trasforma l'esposizione pubblica 
                  del gesto femminista in un atto rivoluzionario. Con pollici 
                  e indici uniti, le donne mettevano in luce ciò che fino 
                  a quel momento era rimasto rinchiuso nello spazio buio dell'indicibile, 
                  si riappropriavano di qualcosa che non gli era mai appartenuto 
                  fino in fondo, affermavano la loro volontà di scegliere 
                  cosa farne e svincolavano una parte anatomica dalla sua funzionalità 
                  organica. Il genere si staccava ufficialmente dal sesso, affermandosi 
                  come costruzione sociale, come un processo che niente aveva 
                  a che vedere con la biologia. Con quel gesto le donne dichiaravano 
                  di essere finalmente libere di decidere del proprio ruolo e 
                  della propria individualità in completa autonomia. 
                  Nascono i collettivi, i gruppi di dibattito e autocoscienza 
                  entro i quali ci si confronta portando la propria esperienza. 
                  Sfidando il patriarcato all'interno della famiglia e rifiutando 
                  il ruolo sociale fino a quel momento imposto, il movimento femminista 
                  attaccava la chiesa cattolica e lo stato e proponeva teorie 
                  e pratiche sociali alternative a quelle esistenti. La sua connotazione 
                  antagonista avvicinava il femminismo di quegli anni alle lotte 
                  di classe e lo allontana dalla sua ala definita “borghese”. 
                  Eguaglianza, giustizia sociale, liberazione dai vincoli morali 
                  e istituzionali sono gli obiettivi che spingono le donne a scendere 
                  in piazza al fianco degli uomini nelle manifestazioni operaie, 
                  e a farlo nuovamente insieme ad altre donne nelle manifestazioni 
                  femministe. 
                  Attraverso le testimonianze di chi ha preso parte alle lotte 
                  di quel periodo, il volume ricostruisce il significato della 
                  battaglia femminista combattuta in nome dell'autonomia e della 
                  liberazione, il percorso intrapreso e i mezzi utilizzati, compreso 
                  quello artistico. Propone anche un'analisi critica degli errori 
                  del passato, del presente e delle debolezze dell'intero movimento. 
                  Resta comunque da capire per quale motivo il gesto femminista 
                  risulti attualmente scomparso, avvistato l'ultima volta in una 
                  manifestazione nei primi anni ottanta e mai più rivisto. 
                  È interessante notare come il segno della vagina sia 
                  forse l'unico gesto riconducibile ad una rivoluzione che non 
                  viene sistematicamente ripreso e riprodotto. A quarant'anni 
                  dalla sua prima apparizione, quel segno resta scabroso, sovversivo 
                  oggi forse più di ieri vista la sua sparizione dalla 
                  scena pubblica. Si tratta di un gesto di forte rottura, con 
                  una valenza politica radicale, che rimanda esplicitamente alla 
                  sessualità e al piacere. La sua dipartita mostra quanta 
                  sia ancora la strada da percorrere per raggiungere una liberazione 
                  sessuale ed un'emancipazione reale ed efficace. 
                  Considerata la scomparsa della “vagina femminista” e visti 
                  gli attacchi degli ultimi anni al diritto all'aborto, al perdurare 
                  del tabù dell'educazione sessuale, all'ostruzionismo 
                  nei confronti di un dibattito sulla fecondazione assistita e 
                  alla mistificazione delle teorie di genere, è forse ancora 
                  presto per pensare ad un pensionamento del termine femminista. 
                  Ne abbiamo ancora bisogno, e questo volume ci aiuta a capirlo. 
                 Carlotta Pedrazzini 
                     Una vita 
                  avventurosa 
                 Oreste 
                  Ristori è una figura interessante, ancorchè non 
                  molto nota, dell'anarchismo non solo italiano, a cavallo tra 
                  '800 e '900. 
                  Nasce a San Miniato (PI) il 12 agosto 1874. La famiglia ben 
                  presto si trasferisce a Empoli dove il giovane Oreste muove 
                  i primi passi politici nel gruppo anarchico locale. Nel 1892 
                  subisce il primo arresto, cui segue un decennio di condanne, 
                  arresti, domicilio coatto ed evasioni. Nell'agosto del 1902, 
                  per sfuggire alle persecuzioni della polizia, raggiunge il Sud 
                  America dove vivrà spostandosi tra Argentina, Uruguay 
                  e Brasile. Spesso in prima linea come agitatore sociale e pubblicista, 
                  nel 1936, dopo essere stato uno dei protagonisti delle insurrezioni 
                  operaie nella città di San Paolo contro i movimenti parafasciti, 
                  è espulso dal paese e rimpatriato. Arrestato nel corso 
                  delle manifestazioni popolari in occasione della caduta del 
                  fascismo dell'estate 1943, muore fucilato per rappresaglia degli 
                  squadristi a Firenze, al poligono di tiro, la mattina del 2 
                  dicembre di quell'anno insieme all'anarchico Gino Manetti e 
                  tre militanti comunisti Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando 
                  Storai. 
                  L'Archivio storico del Comune di Empoli gli ha dedicato un sito: 
                  http://www.oresteristori.it. 
                  Carlo Romani ha curato la voce sul Dizionario biografico degli 
                  anarchici italiani e ha pubblicato l'articolo Oreste Ristori 
                  un'avventura anarchica, sul n. 1/1999 della «Rivista 
                  storica dell'anarchismo». 
                  Su Ristori è appena uscito, per BFS edizioni (via I. 
                  Bargagna, 60, 56124 Pisa, info_bfsedizioni@bfs.it, 
                  tel. 050 9711432) il volume di Carlo Romani Oreste Ristori. 
                  Vita avventurosa di un anarchico tra Toscana e Sudamerica 
                  (pp. 288, € 20,00), del quale proponiamo questo stralcio: 
                  Ristori combatteva una visione secondo cui l'anarchismo era 
                  uno scopo inalienabile dell'umanità. Capiva invece che 
                  le trasformazioni sociali, la possibile via rivoluzionaria, 
                  sono frutto di un continuo lavoro nel presente, nelle azioni 
                  quotidiane, dove nessuno meglio del libertario cosciente, già 
                  libero dalle soggezioni imposte dalla disciplina e dal controllo 
                  dello Stato borghese, è l'agente privilegiato da seguire 
                  nei momenti in cui la tensione sociale irrompe in maniera più 
                  repentina e violenta. Hobsbawm direbbe che gli anarchici, eroi 
                  romantici, non avrebbero mai potuto realizzare la rivoluzione 
                  per la loro incapacità di organizzare le forze in lotta 
                  in maniera che si costituissero in effettiva resistenza agli 
                  apparati repressivi esistenti. La rivoluzione di cui parla lo 
                  storico inglese non è la stessa che idealizzavano gli 
                  anarchici. Eroi romantici, utopici o, se vogliamo, ribelli primitivi, 
                  gli anarchici durante il processo autogestionario della Rivoluzione 
                  spagnola, dimostrarono che era possibile, con molta determinazione, 
                  quasi una fede cieca, a partire da un lavoro costante, rivolto 
                  al micro, al locale, organizzare amministrativamente comunità 
                  senza il bisogno di una forza autoritaria centralizzata e repressiva. 
                  Le rivoluzioni nascono in maniera spontanea, senza data prevista, 
                  dipendono dalle condizioni favorevoli che si vanno generando 
                  nel calore della lotta e hanno bisogno di una gran dose di coraggio 
                  personale in tutti gli individui coinvolti. Spetta però 
                  alla frazione più cosciente del proletariato dirigere 
                  questo processo rivoluzionario. A Buenos Aires gli anarchici 
                  non si erano dimostrati degni della fiducia che avevano l'obbligo 
                  di trasmettere all'insieme dei lavoratori e questo non piacque 
                  a Ristori. Dopo un breve periodo di calma, la repressione politica 
                  ricominciò a farsi sentire. La visibilità che 
                  Oreste esibì, nell'ansia di rimettere in moto il movimento, 
                  gli procurò immediatamente dei guai. Arrestato assieme 
                  a Basterra, il 14 gennaio fu condotto a bordo del piroscafo 
                  tedesco “Schleswig” con destinazione Brema. 
                  Purtroppo per il console italiano, il capitano della nave tedesca 
                  si rifiutò di ricevere a bordo due passeggeri costretti 
                  a viaggiare contro la loro volontà, quasi causando un 
                  incidente diplomatico col governo argentino che, per superare 
                  il problema, dopo due giorni di fermo del piroscafo nel porto 
                  di Buenos Aires, cedette, aspettando un'altra occasione per 
                  espellerli. In ringraziamento per la decisione adottata in quel 
                  caso, Ristori e Basterra organizzarono una colletta tra i compagni 
                  portuali per consegnare una medaglia al capitano della nave 
                  tedesca, minacciando nel frattempo il governo argentino di rappresaglia 
                  attraverso il boicottaggio degli stivatori addetti al caricamento 
                  delle navi coinvolte nella deportazione di prigionieri. Il boicottaggio 
                  era il primo strumento di pressione utilizzato dai sindacati 
                  anarchici. In quell'occasione, col movimento sindacale in riflusso, 
                  i lavoratori si rincuoravano quando qualche iniziativa veniva 
                  presa, facendo crescere la loro autostima. E fu quel che fecero 
                  Basterra e Ristori nel corso della loro deportazione. Vediamo 
                  questa piccola beffa. 
                  Il giorno 16, il Ristori – il quale si era fatto passare 
                  per belga – ed il Basterra, venivano condotti per ferrovia 
                  a La Plata, ed imbarcati sul Magdalena, postale inglese in partenza 
                  per il Brasile e Southampton. 
                  Giunto il piroscafo a Montevideo ove faceva il suo primo scalo, 
                  il Ristori e il Basterra che erano stati raggiunti a bordo da 
                  vari anarchici profughi in quella Città chiedevano al 
                  Capitano il permesso di scendere a terra, cosa a cui questi 
                  annuì senz'altro, aggiungendo che tutti i passeggeri 
                  erano liberi di sbarcare ove volessero, non facendo egli il 
                  carceriere. Naturalmente essi non tornarono a bordo. Ma non 
                  contenti di ciò dopo aver fatto provare che avevano perduto 
                  il piroscafo per mera sbadataggine, riuscivano a riscuotere 
                  dal rappresentante la compagnia di Navigazione in Montevideo, 
                  – come si usa del resto per i viaggiatori che per caso 
                  perdono il piroscafo a Montevideo – la restituzione di 
                  metà importo del viaggio pari a $ 20 oro per ciascuno, 
                  e che han servito a tenere allegri per vari giorni, i malnutriti 
                  anarchici dell'Argentina profughi a Montevideo. 
                  Il modo patetico in cui vennero ridicolizzate le autorità, 
                  per quanto irriverente, risollevò il morale degli esuli 
                  a Montevideo che erano riusciti a sfuggire alla deportazione 
                  imminente.  
                
  Carlo Romani 
                     Teatro delle Albe/ 
                  Aung San Suu Kyi ovvero dell'ironia 
                Vita agli Arresti di Aung San Suu Kyi, andato in scena 
                  al Teatro Rasi di Ravenna, è la proposta del Teatro delle 
                  Albe per la regia di Marco Martinelli con Ermanna Montanari 
                  (e con Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu). La 
                  domanda “è distante la Birmania? Evidentemente 
                  no. Vicina come ogni parte della terra” racconta lo spettacolo. 
                  Ad ognuno i suoi perché. Per me è vicina, perché 
                  nei soprusi della polizia Birmana, ordinati dal regime militare, 
                  vedo Aldrovandi, Cucchi, No Tav, Genova. In generale vedo tutti 
                  quei momenti in cui lo stato si è fatto “mandante” 
                  e il poliziotto “assassino”. Cosa è successo? 
                  Perché come in un lampo è tornato questo pensiero 
                  che raggela il sangue ma che nella quotidianità viene 
                  assopito? Perché non ci si può più rassicurare 
                  e cullarsi nella tranquillità avendo negli occhi quel 
                  riserbo all'immedesimarsi? Perché non avviene come con 
                  le immagini dei telegiornali che rendono lontani disastri anche 
                  spesso vicini? 
                  Perché, se non fossi impacchettato nella mia (quotidiana?) 
                  impotenza o incuranza, se non fossi come incastrato nella sedia, 
                  nei miei modi civili, mi verrebbe da alzarmi e gridare verso 
                  il palco: guardate che qui la situazione è tragica alla 
                  stessa maniera. Guardate che i soprusi sono qui di fianco, qui 
                  nel cuore dell'Europa democratica, dagli esempi che ho fatto 
                  prima alla quotidianità mostruosa dei singoli. L'inferno 
                  di molte, troppe persone. 
                  
                 Da qui parte la mia vicinanza o meglio “l'avvicinamento.” 
                  Lo spettacolo riesce con sottili ma efficaci espedienti a rendere 
                  la Birmania vicina e piano piano a far sorridere. Come? Saw 
                  Maung, per esempio, il dittatore birmano, interpretato da Massimiliano 
                  Russu, ricalca la figura del nostro politico medio, un po' mafiosetto, 
                  uno che cerca di essere furbo ma è uno sciocchino, un 
                  cialtrone, un italiota. Con quella voce rauca di chi te la vuole 
                  contare. È il padrino. È un ossimoro, ma non c'è 
                  da stupirsi se il male è mediocre. D'altronde siamo in 
                  Italia, ops, scusate in Birmania. Il dittatore è buffo, 
                  si intoppa, non crede neanche lui più in quello che fa. 
                  Occupa una poltrona e tira a campare. 
                  Come ammesso dal regista, lo spettacolo nasce quando si accorgono 
                  della somiglianza fisica tra Aung San Suu Kyi ed Ermanna Montanari. 
                  Il fascinoso personaggio dell'eroina birmana esalta i lineamenti 
                  del volto e le movenze orientali dell'attrice protagonista. 
                  E poi quando Ermanna parla al microfono il tempo si ferma, i 
                  vecchi spettri emergono, quelli nuovi si placano. Senti che 
                  le distanze non esistono, né di tempo e né di 
                  spazio. E della sua bravura è già stato scritto 
                  in modo molto autorevole: “sperimentatrice delle possibilità 
                  e del potere della voce umana” recita la motivazione del 
                  Premio Lo Straniero, dedicato alla Memoria di Carmelo Bene che 
                  le è stato conferito nel 2006. Nel momento in cui Ermanna 
                  prende il microfono, secondo me, succede proprio un mistero: 
                  lo spettacolo nello spettacolo. Alcuni momenti meravigliosi 
                  quanto rari ma, quando avvengono, la magia pervade il teatro. 
                  Improvvisamente la Birmania si allontana. E causa ne è 
                  proprio Ermanna Montanari – Aung San Suu Kyi. 
                  Con l'evolvere della vicenda biografica della protagonista mi 
                  sento sempre più piccolo e squallido. 
                  Quindici anni di reclusione e la protagonista dice: “Se 
                  avessi odiato i miei carcerieri, allora sarei stata effettivamente 
                  loro prigioniera”. Certo, ma dove trovare la forza per 
                  sfidare i carcerieri se non usando la forza dell'ironia? Sbeffeggiarli 
                  li rende deboli. Ma io mi chiedo se quella sofferenza che ho 
                  provato all'inizio dello spettacolo è reale, se il mondo 
                  in cui viviamo è sempre più invivibile e se il 
                  malessere collettivo si estende a macchia d'olio. Vorrà 
                  dire che siamo noi i nostri carcerieri? Come essere ironici? 
                  “La serietà come unico umorismo accettabile” 
                  è una frase di Flaiano (e come mai i suoi aforismi sono 
                  sempre attuali?). E se facciamo quello che non ci piace? Se 
                  non prendiamo la materia nella sua interezza? Non siamo forse 
                  noi i prigionieri? E chi sono i nostri carcerieri? 
                  Ritorna in me una beffarda voce che dice: “ciò 
                  che è buono appare, ciò che appare è buono”. 
                  Lo spettro della società dei consumi? Ognuno deve combattere 
                  i propri oppressori e per farlo, lo spettacolo insegna: un'arma 
                  potente è l'ironia. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Marco 
                        Martinelli con Ermanna Montanari  | 
                   
                 
                 L'ironia però sembra lontana. Svilita. In un pezzetto 
                  dello spettacolo i Moustache Brothers, comici birmani che rischiano 
                  la vita per le loro battute sul regime, dicono: “in Italia 
                  esiste un comico che si chiama Crozza che prende in giro i politici 
                  e più li sfotte e più guadagna soldi. A noi aumentano 
                  solo gli anni di reclusione”. La leggendaria ironia della 
                  Birmania è lontana da noi. Qui noi siamo comici. L'ironia 
                  (che ci manca) porta con sé un tipo di risata diversa 
                  dalla nostra? La risata rivoluzionaria, antiautoritaria, liberatrice. 
                 Andrea Manica 
                      Quarta 
                  edizione per il fabbro anarchico
                   Umberto Tommasini 
                L'anarchismo, secondo il mio punto di vista, si è basato 
                  soprattutto sull'individuo militante cosciente e responsabile. 
                  Le strutture organizzative hanno evitato, quasi sempre, di appiattire 
                  le singolarità con un modello di disciplina e uniformità. 
                  Anche per questo, l'anarchico (e l'anarchica) ha, di solito, 
                  una vita densa: impegno e utopia, resistenza e sogni. 
                  Questo è il caso di Umberto Tommasini (1896-1980) per 
                  60 anni attivista mai fanatico, aperto alle novità libertarie 
                  e nemico di ogni autoritarismo. Attraverso l'esempio, e mai 
                  dando lezioni, è stato un vero “maestro” 
                  e come tale ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione 
                  di molti anarchici e libertari. A Trieste e non solo. Perciò 
                  ricordarne l'esistenza ricca di ideali e di lotte offre un modo 
                  di conoscere meglio le teorie e le pratiche anarchiche. 
                  Ogni edizione dell'autobiografia ha una sua storia. Tutto inizia 
                  con una nuova tendenza storiografica che vuole dare voce agli 
                  “esclusi”: la scoperta delle fonti orali. Senza 
                  la registrazione, fatta nell'estate del 1972 nella casetta di 
                  Vivaro in Friuli, non avremmo mai avuto un documento di eccezionale 
                  importanza, una finestra su un militante e un movimento quasi 
                  del tutto sconosciuti o mistificati.  Il progetto del libro 
                  restò in un cassetto per diversi anni: gli anni Settanta 
                  erano piuttosto densi di cortei, assemblee, scontri con fascisti 
                  e polizia, volantini mattutini, pomeridiani, serali, affissioni 
                  notturne, ecc. Insomma mancava il tempo per dedicarsi ad un 
                  lavoro metodico e di non immediata utilità. Solo Clara 
                  Germani si mise al lavoro seriamente e con regolarità 
                  trascrisse, in più di 600 cartelle, l'intervista di 16 
                  ore. Da ricordare che allora usò una piccola Olivetti 
                  32, regalo per il suo diciottesimo compleanno.  Ciò 
                  comportò un impegnativo lavoro di “taglia e cuci” 
                  per riordinare il discorso in ordine cronologico, ma fatto con 
                  le forbici e il nastro adesivo... 
                  Dare una forma scritta coerente alla narrazione orale richiede 
                  notevole impegno. Nel nostro caso, il salto di paradigma espressivo 
                  andava fatto con grande attenzione per salvare la spontaneità 
                  del dialetto triestino e rendere leggibile un testo a chi non 
                  fosse abituato a maneggiare questa lingua, una variante del 
                  veneto. Il risultato fu un volume di più di 500 pagine 
                  con glossarietto annesso. Poi un inserto fotografico e la prefazione 
                  di Paolo Gobetti, il figlio di Piero, è l'animatore della 
                  “videostoria”. Da anni andava raccogliendo interviste 
                  preziose come quelle agli anarchici spagnoli esiliati e pieni 
                  di speranze dopo la caduta di Franco. Lo stesso Umberto rese 
                  un'ora di conversazione nel 1976 proprio a Gobetti all'interno 
                  di una sessione della Biennale di Venezia dedicata alla guerra 
                  di Spagna. È l'unica videoregistrazione in cui egli parla 
                  con il suo linguaggio schietto e antieroico. 
                  Parte integrante del volume del 1984, apparso quattro anni dopo 
                  la sua morte, fu ricavata da un lavoro di scavo nell'Archivio 
                  Centrale dello Stato a Roma, dove si accumulavano le informative 
                  dell'OVRA, la polizia politica di Mussolini. Qui il suo fascicolo 
                  si apre con la dicitura “Attentatore”, peraltro 
                  molto fondata: nel 1926 e nel 1937 quasi si realizzò 
                  il sogno di uccidere il “duce”. 
                  Le duemila copie del libro andarono esaurite in tempi brevi. 
                  Ci “aiutò” un onorevole democristiano di 
                  destra, il padre padrone del principale circolo culturale triestino: 
                  un'ora prima della presentazione ci chiuse la sala regolarmente 
                  affittata. Un'affannosa ricerca di uno spazio ci permise di 
                  deviare le 200 persone che volevano partecipare alla presentazione, 
                  curata da Pier Carlo Masini, Paolo Gobetti e Nico Berti. 
                  La polemica successiva scosse l'opinione pubblica triestina 
                  e molte centinaia di triestini protestarono contro la discriminazione. 
                  Tutto ciò promosse questo libro pericoloso e bisognava 
                  passare a rifornire le librerie due volte la settimana. L'editrice 
                  militante Antistato (oggi scomparsa) non perse i pochi fondi 
                  disponibili e investiti in questa opera voluminosa anche grazie 
                  al sostegno del compagno Attilio Bortolotti, un friulano emigrato 
                  in Canada ed estimatore di Umberto. 
                  Ci furono poi decine di presentazioni, locali e nazionali, che 
                  permisero di far conoscere meglio la ricchezza umana e la determinazione 
                  politica dell'anarchismo italiano, ma anche francese e spagnolo. 
                  La soddisfazione di questa impresa era turbata dalla constatazione 
                  che molti lettori mostravano serie difficoltà nel seguire 
                  le pagine in dialetto. E così si giunse all'edizione 
                  tradotta in italiano. Anche qui Clara Germani ci mise tutta 
                  l'attenzione necessaria. Bisognava ridurre le dimensioni senza 
                  far perdere il valore complessivo. Dopo molti anni, nel 2010, 
                  Odradek, editore romano impegnato nella stampa di lavori sui 
                  movimenti popolari, pubblicò “Il fabbro anarchico” 
                  preferendo questo titolo al precedente “L'anarchico triestino” 
                  troppo locale. Collaborò anche Claudio Magris con un'intervista 
                  nella quale considera “epico” il libro e “straordinario” 
                  il racconto di Umberto. 
                  La versione in italiano è la base di altre due edizioni. 
                  La prima esce a Barcellona nell'autunno del 2011 con un titolo 
                  che cerca di riallacciarsi al grande movimento del 15M (Maggio) 
                  una sorprendente mobilitazione spontanea che occupò le 
                  principali piazze spagnole per circa un mese. Ecco che Tommasini 
                  diventa Un indignat del segle XX. La minuscola casa editrice 
                  catalana Llibres de Matrícula affronta però una 
                  crisi molto grave e licenzia, per motivi economici, l'unica 
                  lavoratrice (e traduttrice) il giorno dopo la presentazione 
                  del libro. E così il volume circola assai poco, in pratica 
                  solo nell'ambiente militante in cui ha un ruolo cruciale La 
                  Rosa de Foc, la libreria della CNT in Calle Joaquim Costa, a 
                  un passo da un noto edificio, il Centre de Cultura Catalana 
                  de Barcelona, Calle Joaquim Costa 34b. 
                  La seconda edizione tradotta è realizzata nel novembre 
                  scorso dalla Fundación Anselmo Lorenzo, editrice della 
                  CNT con sede a Madrid con un catalogo mirato a rafforzare la 
                  cultura anarchica, in particolare di tipo storico. È 
                  scelto il titolo El herrero anarquista. Memorias de un hombre 
                  de acción. La traduzione è di Paca Rimbau 
                  che vi dedica quasi un anno e l'Introduzione storica viene adattata 
                  per un lettore non italiano e quindi presenta un maggior numero 
                  di note esplicative. Questo volume ha un grande pregio: l'inserto 
                  fotografico comprende una quarantina di riproduzioni, più 
                  numerose e meglio stampate degli altri tre inserti. Il Prologo 
                  è di Pere Gabriel, un docente dell'Universitat Autònoma 
                  de Barcelona e uno dei migliori esperti di storia dell'anarchismo 
                  spagnolo. 
                  Nella capitale catalana, a metà novembre 2014, si svolge 
                  una bella presentazione dell'autobiografia orale con la collaborazione 
                  di un interessante gruppo, l'AltraItalia, composto da giovani 
                  “emigrati” anni fa dalle nostre terre quando in 
                  Spagna era facile trovare lavoro. Il loro orientamento è 
                  genericamente di sinistra senza preconcetti verso l'anarchismo 
                  e, dato assai rilevante, hanno varato una serie di iniziative 
                  per far conoscere la memoria e l'attualità di un paese 
                  ribelle. Intendevano, e intendono, dimostrare che l'Italia era 
                  migliore dell'immagine diffusa nel mondo e che non si esauriva 
                  in un furbo e deprimente personaggio da spettacolo televisivo 
                  (Berlusconi) o in una congerie di politici, conservatori di 
                  varie tendenze, di basso profilo. Quindi il libro e il nuovo 
                  docufilm realizzato da due giovani registi triestini, Ivan Borman 
                  e Fabio Toich, si sono inseriti in un programma di diffusione 
                  della nostra storia di lotte e speranze. E le memorie, sempre 
                  vive e gustose, di Umberto hanno apportato un'esperienza preziosa 
                  fatta di scontro, individuale e collettivo, contro ogni potere. 
                  Due presentazioni si sono svolte anche a Madrid, nella sede 
                  della CNT e nella libreria LaMalatesta. 
                  Si sta aspettando la traduzione in francese per aumentare la 
                  conoscenza di questa figura di protagonista generoso, oltre 
                  che modesto, della storia antiautoritaria del Novecento europeo. 
                 Claudio Venza 
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