La bella storia 
                  di un non-complice 
                 Momenti 
                  decisivi della vita di Giuseppe Gozzini, primo obiettore di 
                  coscienza cattolico, sono racchiusi nei suoi scritti autobiografici 
                  scelti anche grazie alle ricerche della figlia Letizia. L'amico 
                  Piero Scaramucci, curatore della raccolta, ricorda il primo 
                  incontro con Beppe alle lezioni di russo al Circolo Filologico 
                  di Milano, immersi in nottate tra discussioni di politica, etica, 
                  futuro, amicizia, sfruttamento, ribellione, e pessima grappa 
                  (Giuseppe Gozzini, a cura di Piero Scaramucci e Letizia Gozzini, 
                  Non complice. Storia di un obiettore, Edizioni dell'Asino, 
                  Bologna, 2014, pp. 252, € 15,00). 
                  Figlio di un operaio saldatore della Breda e poi calzolaio, 
                  nasce nel 1936 a Cinisello Balsamo. Nell'hinterland milanese 
                  al tempo molto proletario, il bravo scolaretto Giuseppe viene 
                  mandato a studiare prima in un collegio e poi dai Salesiani 
                  per diventare prete. Ma presto passerà al liceo “Parini” 
                  di Milano, poi conseguirà una laurea in giurisprudenza. 
                  Risale agli anni universitari il suo cammino di formazione. 
                  La conoscenza dei “preti bastonati”, letture, conferenze 
                  e incontri soprattutto con due testimoni e maestri di pace, 
                  don Primo Mazzolari e il suo libro Tu non uccidere (1955), 
                  e Jean Goss, operaio cattolico dall'irruenza profetica capace 
                  di scuotere le coscienze dei padri conciliari in Vaticano come 
                  della gente ammassata sulla Piazza Rossa. 
                  Nella seconda metà degli anni Cinquanta è già 
                  orientato verso la disobbedienza civile come forma di lotta 
                  nonviolenta vicino ai gruppi pacifisti formati da protestanti, 
                  quaccheri, tolstojani, anarchici. Ma di cattolici, nemmeno l'ombra. 
                  Fondamentali i contatti con cicli annuali di conferenze organizzati 
                  dalla “Corsia dei servi” per quello sguardo critico 
                  sempre aperto sul mondo. Figure che avevano anticipato, promosso 
                  e praticato da tempo le tematiche sollevate dal Concilio. Don 
                  Milani, i “preti operai”, Primo Mazzolari che si 
                  firmava senza il don, l'“attore” Turoldo che -sempre 
                  secondo Gozzini- non può essere compreso senza il suo 
                  suggeritore padre Camillo De Piaz, il prete partigiano, dall'”originalità 
                  laica” e lo stile di vita sempre alla ricerca di un equilibrio 
                  tra Chiesa e mondo, tra fede e politica in un rapporto di reciproca 
                  fecondità. 
                  Chiamato alle armi nel novembre del '62, al Car di Pistoia rifiuterà 
                  di indossare la divisa e scatterà la condanna in base 
                  all' art. 137 del Codice penale militare: sei mesi senza condizionale 
                  per disobbedienza grave. Sarà internato nel carcere militare 
                  giudiziario di Fortezza da Basso di Firenze, dove in passato 
                  erano stati rinchiusi anche Cafiero e altri anarchici. Tra i 
                  presenti alle udienze, in qualità di testimoni, Aldo 
                  Capitini, precursore della nonviolenza in Italia, e il sacerdote 
                  salesiano Germano Proverbio, con il quale Beppe aveva dato vita 
                  a un gruppo di studio e di preghiera anticipando le “comunità 
                  di base”. Aule affollate di amici e simpatizzanti, come 
                  non era mai successo. 
                  Il caso del primo obiettore di coscienza cattolico avrà 
                  una forte risonanza. Dibattiti, manifestazioni, veglie e digiuni 
                  in tutta Italia. Per le strade, in piazza e nei bar di Firenze 
                  decisivo l'intervento di padre Ernesto Balducci e don Lorenzo 
                  Milani che presero pubblica posizione per il riconoscimento 
                  giuridico dell'obiezione di coscienza. Il prete di Barbiana, 
                  partendo dal “caso Gozzini”, oserà sollecitare 
                  la coscienza dei cappellani militari, la loro funzione e il 
                  loro ruolo. 
                  Intanto, per motivi religiosi, morali o politico-filosofici, 
                  cattolici e anarchici finivano in carcere. E anche dopo il '72, 
                  anno in cui l'obiezione di coscienza viene istituzionalizzata, 
                  due “non sottomessi” anarchici di Milano, Dario 
                  Sabbadini e Dino Taddei, obiettori di coscienza totali, rifiuteranno 
                  anche il servizio civile ritenendolo una scelta di comodo, nell' 
                  imbarazzo dei giudici che non sapevano in base a quale articolo 
                  condannarli. 
                  Dopo il carcere, nel '69 Gozzini accetterà di collaborare 
                  all'Alfa come pubblicista. Una scelta molto dibattuta, sofferta, 
                  insieme casuale e necessaria, quella del marchettaro -come egli 
                  stesso la definisce- . Tuttavia per lui non sarà una 
                  professione, ma un tirare avanti la carretta per sbarcare il 
                  lunario: “La mia vita era altrove, fuori dal palazzo e 
                  dai compromessi con il potere”. 
                  Nelle pagine iniziali, Goffredo Fofi parla dell'amico Beppe 
                  come di un “militante di base”, un “persuaso” 
                  che ha cercato di stare nella Storia rifiutando la morale del 
                  più forte, cosciente che una rivoluzione sociale implica 
                  anche una rivoluzione personale”. Un'amicizia che risale 
                  al periodo dei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri 
                  e dei “Quaderni Piacentini”, al legame con Giorgio 
                  Bellocchio e Grazia Cherchi. 
                  Obiettore e contestatore, militante, pacifista, cristiano, cattolico, 
                  comunista. Sempre contrario a farsi intrappolare in un'etichetta, 
                  con un gruppo di studenti darà vita alla rivista “Collegamenti”, 
                  a partire dalla fabbrica, per contatti con Milano, l'Italia, 
                  il mondo. Si esporrà personalmente respingendo per primo, 
                  con una lettera che fece scalpore, la falsa versione del suicidio 
                  dell'anarchico Giuseppe Pinelli. 
                  Nel testo inedito dei suoi appunti per il Corso di formazione 
                  dei primi volontari in Servizio civile internazionale, 11-12-13 
                  ottobre 2004, mette in guardia dal rischio possibile, in 
                  seguito all'abolizione del sevizio militare obbligatorio e l'istituzione 
                  del servizio civile su base volontaria, che quest'ultimo finisca 
                  per svolgere una funzione suppletiva dell'assistenza pubblica 
                  conquistata “come diritto” in oltre un secolo di 
                  lotte. Invita ad assumere posizioni chiare, per scegliere da 
                  che parte stare: fare la ciliegina umanitaria, elargire tocchi 
                  di bontà, rappresentare un'appendice altruistica lasciando 
                  che prenda piede la militarizzazione, oppure aprire gli occhi 
                  per vedere che viviamo in un Paese militarmente occupato. 
                  Gozzini parla direttamente ai giovani -e sarebbe bene in qualche 
                  modo continuasse parlare loro- con passione, entusiasmo e convinzione 
                  profonda: “Bisogna riprendere in mano il vocabolario”. 
                  Fare i conti con il linguaggio, ri-scoprire il significato, 
                  il peso nascosto, il potere delle parole di svelare o mascherare 
                  la realtà. Quale insidia è nascosta negli “eserciti 
                  di pace”? E il “disastro umanitario” è 
                  una “catastrofe filantropica”? Una “crisi 
                  benefattrice”? Una “epidemia caritatevole”? 
                  Ossimori e assurdità! 
                  È il primo obiettore che parla agli ultimi obiettori. 
                  Fino alla fine -nel 2010 solo la malattia riuscirà a 
                  stroncarlo- il suo è un invito a rinnovare rendendola 
                  ancora attuale l'obiezione di coscienza: guardarsi intorno, 
                  informarsi e capire quando il “rumore di fondo” 
                  ottunde la realtà dell'associazionismo pacifista, per 
                  appiattirla, vanificarla dirottando l'attenzione su distrattori 
                  omologanti. Opporsi, rifiutare di essere complici di una situazione 
                  ingiusta è già rivoluzione, principio di un futuro 
                  diverso e possibile. 
                  Accogliere il messaggio di Giuseppe Gozzini significa trasferire 
                  il testimone. Il progetto di un pacifismo radicale di respiro 
                  internazionale per una società nuova passa ai giovani, 
                  semi preziosi della rivoluzione delle coscienze, contagio fecondo 
                  indispensabile per uno spirito critico capace di continuare 
                  a vedere l'utopia. 
                
  Claudia Piccinelli 
                   
                   
                   Un cambiamento 
                  diverso 
                 È 
                  del novembre 2013 l'uscita di Monasteri del terzo millennio 
                  (Lindau, Torino, 2013, pp.112, € 13,00), piccolo libro 
                  in quattro capitoli di Maurizio Pallante, autore assai conosciuto 
                  in quanto fondatore del Movimento per la decrescita felice. 
                  Mi attraeva del titolo la connessione tra passato e futuro, 
                  attraverso l'attualizzazione del concetto di monastero che, 
                  da luogo religioso per antonomasia, diviene spazio per la ricerca, 
                  la costruzione di proposte pratiche di buona vita e l'insegnamento. 
                  Dalle informazioni che avevo riguardo la nozione di decrescita, 
                  mi aspettavo un testo interessante ma pragmatico, invece il 
                  pragmatismo, se così si vuol dire, riguarda soprattutto 
                  l'ultimo capitolo - dove viene anche illustrata un'esperienza 
                  in atto e in via di sviluppo - mentre il resto del libro è 
                  molto più ricco e ci parla, in maniera chiara e profonda, 
                  della necessità impellente di un cambiamento grande, 
                  dove la parte operativa (riduzione dei consumi, autoproduzione, 
                  risparmio energetico...) è solo la logica conseguenza 
                  di un ribaltamento radicale del nostro modo di pensare e immaginare 
                  il mondo, la sua pratica necessità. 
                  “Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per 
                  tagliare legna, dividere i compiti e impartire gli ordini, ma 
                  insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito” 
                  (Antoine de Saint-Exupery). 
                  Partendo da questa bella metafora nel testo si sviluppa un ampio 
                  discorso sul cambiamento dove la colonizzazione del nostro immaginario 
                  da parte dell'ideale-denaro - proposto sotto varie forma da 
                  almeno mezzo secolo - è vista come ciò che ha 
                  permesso che si arrivasse al punto in cui siamo. 
                  Questa narrazione del mondo – identificazione del ben-essere 
                  col tanto-avere, della qualità con la quantità, 
                  della ricchezza col denaro, del lavoro con l'occupazione – 
                  è stata così totalizzante che chi non si è 
                  uniformato ai valori che promuoveva è stato considerato 
                  un disadattato, destinato a rimanere ai margini della storia. 
                  L'autore sostiene che tutta una società (intellettuali, 
                  artisti e Chiesa inclusi) dal secondo dopoguerra in avanti remò 
                  in questa univoca direzione (boom economico degli anni '60); 
                  per portare il paese fuori da un passato di miseria, si diceva 
                  allora. 
                  “Se nell'immaginario collettivo – sottolinea Pallante 
                  – non si fosse incistata l'idea che il lavoro consista 
                  prevalentemente in attività urbane, nell'edilizia, nelle 
                  fabbriche, negli uffici e nei servizi, in cambio di un reddito 
                  monetario che consente di acquistare nei negozi tutto il necessario 
                  per vivere. Se non si fosse generalizzata la convinzione che 
                  le città costituiscano le punte più avanzate della 
                  modernità e del progresso [...] il miracolo economico 
                  si sarebbe potuto realizzare se non fosse aumentato il numero 
                  dei produttori e consumatori di merci? Sarebbe stato considerato 
                  un miglioramento della qualità della vita il trasferimento 
                  in una informe e deforme periferia urbana se non si fosse persa 
                  la capacità di distinguere il bello dal brutto? [...] 
                  Si sarebbe considerato un progresso [...] la cannibalizzazione 
                  dell'organico da parte dell'inorganico?” 
                  Ma, ci suggerisce ancora l'autore, la consapevolezza dei limiti 
                  delle società pre-industriali non comporta l'accettazione 
                  acritica del modello economico e produttivo che le ha soppiantate. 
                  Né la critica dei disastri ambientali e umani causati 
                  dallo sviluppo industriale comporta un rimpianto acritico delle 
                  precedenti società contadine. 
                  Non c'è solo o uno o l'altro, esisteva ed esiste anche 
                  una terza possibilità, un cambiamento diverso da quello 
                  che c'è stato. Una persona come me, nata a metà 
                  degli anni '50 a Milano, ha visto bene questa trasformazione 
                  dell'immaginario collettivo; basta ricordare come si è 
                  evoluta l'immagine televisiva, dalle réclame dei 
                  primi anni '60 alla pubblicità dei nostri giorni; ci 
                  sono tutti i passaggi, tutte le evoluzioni del desiderio, le 
                  aspirazioni sociali e i modi d'essere che, volenti o nolenti, 
                  sono entrati a far parte della costituzione di molti tra noi. 
                  Vero. Ma non siamo solo quello. Ognuno di noi è un insieme 
                  molto complesso, costituito da molteplici piani che si intersecano 
                  in maniera unitaria e, per soddisfare la complessità 
                  che siamo, abbiamo bisogno di una molteplicità di cose: 
                  la “ricchezza” non può essere ridotta al 
                  piatto concetto di denaro, unica risposta attuale all'umano 
                  bisogno di senso e felicità. 
                  L'alternativa allora viene fatta emergere dalle mura dei monasteri 
                  del primo e del secondo millennio come luoghi che offrono utili 
                  indicazioni di vita comunitaria che possono essere reinterpretate 
                  e adeguate alle attuali esigenze per costruire nicchie di autonomia. 
                  Nel testo si propone la riflessione su tre punti: il rapporto 
                  dei monaci col lavoro e col territorio; il rapporto con gli 
                  altri e quindi l'economia e la socialità; il rapporto 
                  con se stessi e il senso della vita. Da questa osservazione 
                  si ricavano concetti quali quello di autosufficienza (anche 
                  parziale), di scambio, di investimento culturale, di creazione 
                  artistica, di dono, preservazione e trasmissione di cultura. 
                  Concetti che elaborati in maniera attuale vanno a formare l'idea 
                  di monastero come luogo di disobbedienza civile del terzo millennio. 
                  Luogo di libertà dalla servitù del denaro, di 
                  recupero della dimensione spirituale, di relazioni umane fondate 
                  su collaborazione ed empatia. Luogo che racconti che un altro 
                  modo di rapportarsi con se stessi, con gli altri e con il posto 
                  in cui si vive non solo è possibile ma è vantaggioso 
                  e desiderabile. 
                  A monte di ciò “\ condizione sine qua non 
                  ”\ dar vita ad una narrazione che restituisca il giusto 
                  valore alle cose, che non permetta più di sacrificare 
                  la bellezza al profitto e invece sia in grado di suscitare in 
                  noi quella nostalgia per il mare vasto e infinito che 
                  ci spinga a cercare insieme i modi per costruire le barche con 
                  cui attraversarlo. 
                  Quindi l'azione necessaria è duplice: culturale e materiale, 
                  spirituale e pratica. È azione sia individuale che collettiva. 
                  È un lavoro di presa di consapevolezza dell'urgenza a 
                  cui i tempi ci chiamano e del bisogno di andare oltre gli ideologismi, 
                  di osservare storicamente i fatti che ci hanno condotto – 
                  nel bene e nel male – alla situazione attuale e scegliere 
                  di mettersi in gioco per essere propositivi, ognuno al livello 
                  e con i mezzi che gli sono possibili. 
                  Pregio ultimo, e non da poco dati i tempi, la visione né 
                  pessimista né ottimista che Pallante ci propone, piuttosto 
                  uno sguardo disincantato che sollecita un cambiamento radicale, 
                  ricco di fiducia nelle alternative possibili per remare controcorrente. 
                 Silvia Papi 
                   
                   
                   Le prigioni? 
                  Aboliamole! 
                 “Di 
                  certo non esiste nessun'altra istituzione, tra tutte le 'conquiste' 
                  della società moderna, che, sebbene investita di una 
                  funzione tanto importante ai fini del destino del genere umano, 
                  si sia dimostrata più colpevolmente rovinosa nel raggiungimento 
                  dei propri scopi dell'istituzione penitenziaria”. 
                  Ortica Editrice ha recentemente pubblicato una raccolta di tre 
                  saggi, rispettivamente di Pëtr Kropotkin, Emma Goldman 
                  e Alexander Berkman, dal titolo Anarchia e prigioni. Scritti 
                  sull'abolizione del carcere (Aprilia, 2014, pp. 77, € 
                  10,00) con un'introduzione di Romolo Giovanni Capuano. 
                  All'interno dei tre pamphlet, scritti a denuncia delle 
                  prigioni e in favore della loro abolizione, c'è traccia 
                  delle loro personali esperienze. Tanto Kropotkin, quanto Goldman 
                  e Berkman ebbero infatti conoscenza diretta della detenzione. 
                  Le vicende penitenziarie che i tre anarchici esperirono furono 
                  significative oltre che numerose; proprio in seguito a tali 
                  accadimenti, proposero una lucida analisi, fondata non solo 
                  sull'ideale e sulla teoria, dell'assoluto fallimento del sistema 
                  penitenziario. 
                  I tre saggi si basano sulla descrizione delle pessime condizioni 
                  psico-fisiche dei detenuti, sulle conseguenze disumanizzanti 
                  della prigionia, ma soprattutto sulla confutazione della credenza 
                  nelle facoltà rieducative e di deterrenza delle carceri. 
                  L'indagine circa le cause del crimine è denominatore 
                  comune dei tre scritti; gli autori si interrogano sulle motivazioni 
                  che possono spingere un individuo a commettere un reato, di 
                  qualunque natura. L'analisi viene ricondotta ad una serie di 
                  cause esterne di carattere culturale, psicologico e, soprattutto, 
                  socio-economico. “Nessuna pena, per quanto severa, potrà 
                  risolvere il problema del crimine finché le attuali condizioni, 
                  dentro e fuori il carcere, continueranno a trascinare gli uomini 
                  verso il delitto”. 
                  È proprio la presenza di motivazioni esterne all'individuo 
                  a far affermare ai tre autori che il sistema penitenziario sia 
                  basato su presupposti completamente sbagliati: quanto senso 
                  può avere il tentativo di risolvere un problema attenuando 
                  i sintomi senza mai fronteggiare e mettere fine alle cause? 
                  Per quale motivo ostinarsi ad ignorare le situazioni socio-economiche, 
                  le difficoltà e la marginalizzazione che conseguono, 
                  facendo leva solamente su un sistema meramente punitivo? “Considerato, 
                  dunque, che i fattori economici, politici, morali e fisici sono 
                  i germi del crimine, come fa fronte la società a questa 
                  situazione? I metodi di contrasto al crimine hanno conosciuto, 
                  indubbiamente, diversi cambiamenti, ma più che altro 
                  di tipo teorico. Nella pratica, la società continua ad 
                  avere nei confronti del criminale il vecchio atteggiamento di 
                  un tempo: quello della vendetta”. 
                  L'incidenza costante, e in alcuni casi in aumento, di crimini 
                  all'interno della società dovrebbe indurci a ragionare 
                  sul fallimento della caratteristica deterrente della prigionia 
                  (e allargando la visuale, dovrebbe farci dubitare anche della 
                  legittimità della presenza di leggi, regole e regolamenti 
                  ordinatori); il fenomeno della recidività, inoltre, dovrebbe 
                  indurci a confutare la tesi di una possibile funzione rieducativa 
                  della detenzione, in realtà inesistente. 
                  All'epoca della stesura dei tre saggi, tra la fine dell'Ottocento 
                  e i primi anni del Novecento, i dati dimostravano (e dimostrano 
                  tuttora) che l'abbattimento della criminalità non era 
                  obiettivo conseguibile tramite la punizione o la sua minaccia. 
                  Unicamente attraverso l'eliminazione delle motivazioni che spingono 
                  un individuo verso la delinquenza è infatti possibile 
                  pensare di risolvere il problema della criminalità. “Solo 
                  la riorganizzazione totale della società libererà 
                  gli uomini dal cancro del crimine”. 
                  È sorprendente notare l'assoluta attualità del 
                  tema e delle argomentazioni trattate all'interno dei tre saggi, 
                  nonostante più di un secolo sia ormai trascorso dalla 
                  prima pubblicazione dei testi contenuti in questo piccolo volume. 
                  Inoltre, la modernità della tesi sostenuta da Kropotkin, 
                  Goldman e Berkman sta nella proposta di abolizione dell'intero 
                  sistema penitenziario, avanzata in un periodo storico antecedente 
                  ogni istanza riformista del sistema carcerario. Molto interessante 
                  si rivela la scoperta, tra le pagine di questa breve raccolta, 
                  di come la qualità delle risposte convenzionali al problema 
                  della criminalità, della detenzione e della punizione 
                  sia tristemente resistita al passare del tempo. 
                 Carlotta Pedrazzini 
                   
                   
                   La stele di Axum 
                  e l'imperialismo italiano 
                Il libro di Massimiliano Santi La stele di Axum da bottino 
                  di guerra a patrimonio dell'umanità. Una storia italiana, 
                  edito da Mimesis, è un'opera ampia e dettagliata riguardante 
                  la vicenda della famosa stele di Axum. Una significativa introduzione 
                  del celebre storico Angelo Del Boca sintetizza in modalità 
                  molto chiara ed eloquente il susseguirsi delle vicende della 
                  famosa stele, dal suo trasporto a Roma nel 1937, fino alla restituzione 
                  avvenuta nel 2005. Importante è la nota d'autore di Oscar 
                  Luigi Scalfaro, dove vengono ringraziati gli storici, le istituzioni, 
                  gli archivi, le biblioteche, gli istituti storici della Resistenza 
                  e i nostri partigiani per aver garantito a chi scrive il diritto 
                  di poterlo fare in una repubblica democratica e antifascista. 
                  Nel prologo vengono descritti gli orrori che gli italiani hanno 
                  commesso in Etiopia. L'eccidio di Debrà Libanòs 
                  costituisce una delle pagine più oscure della storia 
                  coloniale italiana, con un numero di vittime che si aggira oltre 
                  le migliaia (tra le 1.423 e le 2.033 vittime, secondo le fonti 
                  storiche). Angelo Del Boca, in una lezione magistrale inviata 
                  il 31 ottobre 2002 a una manifestazione di cittadini italiani 
                  e etiopi, per il sessantacinquesimo anniversario della posa 
                  della stele, tratta del “mito del buon italiano”. 
                  Del Boca descrive i metodi cruenti e criminali, tra cui l'impiego 
                  di armi chimiche, i campi di sterminio, le stragi, le leggi 
                  razziali, l'urbanistica da apartheid, utilizzati dal regime 
                  fascista per conservare e garantire un impero agli italiani. 
                  Molto precisa e dettagliata è la sezione da Axum a Roma, 
                  dove viene descritto, dalle origini, la storia del regno di 
                  Axum. Il dono di Alessandro Lessona, ministro delle colonie, 
                  per garantirsi le simpatie di Benito Mussolini, fu quello di 
                  inviare a Roma una grande stele a ricordo della vittoria eritrea 
                  e per esaltare l'opera fascista di conquista coloniale. Il 31 
                  ottobre 1937 viene inaugurato l'obelisco a porta Capena, da 
                  cui derivò l'idea di realizzare una nuova sede per il 
                  Ministero dell'Africa italiana, in un luogo adiacente la stele 
                  di Axum. Con il trattato di pace del 10 febbraio 1947, si stabilì 
                  che l'Italia doveva restituire tutti quei beni culturali e artistici 
                  sottratti all'Eritrea come “bottino di guerra” e 
                  riconoscere un risarcimento economico. Tra questi beni figuravano 
                  oggetti appartenenti alla famiglia reale, il Leone di Giuda, 
                  la biblioteca di sua maestà imperiale Haile Selassie 
                  e, appunto, il famoso obelisco di Axum. Lunghissima fu la trattativa. 
                  I molti governi italiani che si susseguirono negli anni compirono 
                  passi avanti alternati a brusche frenate, in un'alternanza di 
                  tentativi finalizzati a mantenere a Roma la stele di Axum. Il 
                  28 maggio 2002, quando oramai fu stabilita la restituzione dell'obelisco, 
                  un fulmine colpì il monumento di Porta Capena. Nel marzo 
                  del 2003, terminano i lavori di restauro e ricomincia la procedura 
                  di riconsegna della stele. La partenza del primo frammento, 
                  il 18 aprile del 2005, e il completamento nei giorni successivi. 
                  L'interessamento dell'Unesco nella supervisione del territorio 
                  e l'erezione della stele nell'antico sito di Axum, costituiscono 
                  eventi molto importanti. Il 5 settembre del 2008, è la 
                  volta dell'inaugurazione dell'obelisco e della restituzione 
                  all'intera umanità di un patrimonio inestimabile, ricollocato 
                  nel suo sito originario. A tal proposito, Angelo Del Boca ha 
                  promosso un appello per l'istituzione di una Giornata della 
                  Memoria per i 500.000 africani che l'Italia crispiana, giolittiana 
                  e fascista ha massacrato nel corso delle sciagurate campagne 
                  di conquista. 
                 Fabrizio Cracolici e Laura Tussi 
                   
                   
                   Lavoro e non-lavoro 
                  nell'Italia di oggi 
                 “[...] 
                  se tutto ciò è possibile, se anche solo ha un'ombra 
                  di possibilità, allora bisogna pure che qualcosa si faccia 
                  nel mondo”. La citazione di Rainer Maria Rilke con cui 
                  gli autori del libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e 
                  movimenti nell'Italia della crisi (Clash City Workers, Edizioni 
                  La Casa Usher, € 10,00, per ordini: http://clashcityworkers.org) 
                  scelgono di aprire il proprio scritto è la sintesi migliore 
                  per capire la finalità di questo interessante testo: 
                  cambiare radicalmente la realtà. Per farlo, gli autori 
                  realizzano un'accurata e approfondita analisi del contesto socio-economico 
                  dell'Italia di oggi, perché “se avete in mano questo 
                  libro, è perché [...] non volete conoscere questa 
                  situazione tanto per curiosità: volete conoscerla per 
                  cambiarla”. Un intento che accomuna i movimenti e gli 
                  individui che, in forma organizzata o meno, si oppongono alla 
                  realtà che ci circonda, un intento che tuttavia spesso 
                  lascia poco spazio alla riflessione e all'analisi. Ed è 
                  questa consapevolezza che rende il libro uno strumento utile 
                  a tutti, al di là delle identità e delle appartenenze 
                  politiche e che consigliamo ai nostri lettori di prendere tra 
                  le mani e leggere con attenzione. 
                   
                  Dove sono i nostri? 
                  Lavoratori dipendenti, parasubordinati, disoccupati, neet e 
                  altro. Chi sono i nostri interlocutori di oggi? E come possiamo 
                  intrecciare con loro percorsi di lotta? Domande di sempre a 
                  cui però è necessario dare nuove risposte sulla 
                  base della nuova ricomposizione di classe. Nonostante ci sia 
                  una classe che, pur frammentata, senza rappresentanza o con 
                  una rappresentanza venduta, cerca di resistere agli attacchi 
                  del capitale, non si è ancora riusciti a unificarla e 
                  organizzarla, perché, riflettono gli autori, “al 
                  di là delle buone intenzioni [...] i nostri tentativi 
                  sono stati spesso molto ideologici, incostanti”. 
                  Per comprendere chi oggi produce e chi rimane impigliato nelle 
                  maglie fitte dello sfruttamento, gli autori hanno raccolto un'immensa 
                  mole di dati e studi realizzati dalle principali istituzioni 
                  del capitale, “per cambiarne la destinazione d'uso: non 
                  più leve per mantenere l'oppressione ma strumenti per 
                  scardinarla”. I dati divengono la base su cui compiere 
                  un'analisi e interpretazione che si struttura in cinque capitoli: 
                  si parte dall'analisi della struttura produttiva italiana e 
                  l'impatto della la crisi mondiale; dopo aver compreso come si 
                  produce la ricchezza, si indaga su chi la produca, esaminando 
                  la popolazione italiana nel suo complesso; viene analizzato 
                  prima il lavoro dipendente, per cercare di comprendere com'è 
                  fatto ogni settore lavorativo, quali contraddizioni incontra 
                  e come è possibile organizzarlo; si passa poi all'analisi 
                  del lavoro indipendente dove troviamo una quota consistente 
                  di proletari nascosti dietro rapporti parasubordinati e “finte” 
                  partite Iva; a completamento di quest'analisi di classe, segue 
                  un capitolo dedicato alla disoccupazione e ai cosiddetti neet, 
                  ossia quegli individui che non frequentano alcun percorso di 
                  formazione, che non hanno un impiego né sono impegnati 
                  in attività assimilabili. 
                  Ne esce un quadro complesso, nel quale una serie di falsi miti 
                  sostenuti dall'ideologia dominante vengono smontati, tra cui 
                  quello della “deindustrializzazione”: è questo 
                  un passaggio importante perché, a partire da uno studio 
                  di Intesa Sanpaolo, si evidenzia come negli ultimi anni ciò 
                  che è passato come processo di ridimensionamento dell'industria, 
                  in realtà sia stato solo una modificazione del rapporto 
                  fra industria e servizi; in poche parole, si sono usate sempre 
                  più attività classificate come servizi, ma intimamente 
                  connesse nel processo produttivo dell'industria. Il terziario 
                  che è cresciuto, dunque, non è tanto quello del 
                  turismo, della distribuzione o del commercio, ma il terziario 
                  legato all'industria. Dietro il mito, dunque, si nasconde un 
                  più reale processo di terziarizzazione del settore manifatturiero. 
                  Sempre dati alla mano, segue l'analisi dei diversi settori lavorativi, 
                  con un'attenzione particolare alla questione femminile, degli 
                  immigrati e a quella meridionale, dove si concentrano le maggiori 
                  forme di sfruttamento. 
                  L'obiettivo, sintetizzato nel capitolo finale, dedicato ad alcune 
                  conclusioni politiche, è quello di “pescare” 
                  in ogni settore “i nostri referenti di classe e comprendere 
                  intorno a quale proposta o pratica sia possibile organizzarla”, 
                  a partire dalla necessità di ricomporre quella coscienza 
                  di sé che il capitale ha frammentato, di internazionalizzarci, 
                  ossia creare connessioni politiche tra i lavoratori già 
                  connessi dagli interessi del capitale, e di combattere il neocorporativismo 
                  tra associazioni padronali e rappresentanze dei lavoratori. 
                  In una parola “tentare di organizzare i nostri”. 
                  Buona lettura. 
                 Laura Gargiulo 
                   
                   
                   Un emigrante rivoluzionario italiano 
                  nell'Argentina anni '70 
                Un libro importante che purtroppo non avrà troppa visibilità: 
                  Francesco Carlucci, Vita da cani. Storia di un emigrante 
                  rivoluzionario (BePress, Lecce, 2013, pp. 497, € 22,00). 
                  Eppure un libro fondamentale per chi ha a cuore la storia degli 
                  anni Settanta in Argentina, lo sviluppo della contestazione 
                  e la resistenza alla dittatura, la violenza di stato, la guerriglia 
                  e i crimini compiuti da Videla e soci, a partire dalle carcerazioni 
                  illegittime. Tutto questo raccontato in un'autobiografia narrativa 
                  da Francesco Carlucci, italiano emigrato da piccolo, negli anni 
                  Cinquanta, in Argentina, con una penna fluida che alterna due 
                  vicende, due pezzi della propria esistenza: 
                  - la detenzione nei carceri argentini come militante di un gruppo 
                  guerrigliero, il PRT (vicino al guevarista ERP): per sua fortuna, 
                  Carlucci non fu detenuto in un mattatoio clandestino, tuttavia 
                  l'esperienza è stata decisamente dura; 
                  - il romanzo working class di formazione di giovane tano 
                  emigrato a Buenos Aires fino ai primi passi nel PRT, attraverso 
                  il lavoro minorile nelle botteghe e nelle officine metallurgiche 
                  che gli italiani costruivano un po' ovunque nella Gran Buenos 
                  Aires. Botteghe in cui si lavorava e si dormiva: dai conventillos, 
                  i rifugi degli immigrati, dove si viveva come in un formicaio, 
                  fino alle case grandi dove tutta la famiglia lavorava in officina, 
                  anche i bambini di 13 anni, che mica potevano andare a scuola, 
                  al massimo si facevano la serale se potevano pagarsela col sudore. 
                  Storie di emigrazione italiana dell'ultimo corso pre-boom, quella 
                  degli anni Cinquanta, storie che vanno ostinatamente riscattate 
                  dall'oblio, perché dobbiamo renderci conto che “i 
                  cinesi” eravamo noi e che quella è “la storia 
                  della nostra gente”: officina e casa, tutto assieme, i 
                  turni per dormire e la donna a cucinare per gli uomini al tornio. 
                  Un grande quadro familiare, impreziosito da due meravigliose 
                  figure genitoriali: il padre lucano, violento, spesso maschilista, 
                  eppure generoso e commovente, testardo e duro da piegare come 
                  un tondino d'acciaio, peronista cocciuto eppure dalla parte 
                  del figlio non appena finisce in galera; poi la madre, che invece 
                  di rimanere nelle quattro mura domestiche scopre lei stessa 
                  la militanza e diventa una meravigliosa madre ribelle, una di 
                  quelle che col fazzoletto in testa hanno sconfitto la dittatura. 
                  E sullo sfondo la figura del Tosco, il sindacalista gringo, 
                  il tupamaro Andrés Cultelli e il viceconsole Enrico Calamai, 
                  quest'ultimo uno dei pochi ad aiutare i desaparecidos 
                  nelle istituzioni italiane. 
                  Una biografia romanzata che procede a montaggio alternato, tra 
                  una sessione di tortura e un amore adolescenziale, tra la scoperta 
                  dei libri e il mate fatto di nascosto in una cella, con il vento 
                  degli anni Sessanta che spinge i nuovi emigrati alla militanza 
                  politica e alle botte in galera. 
                  Un grande affresco di storia dell'emigrazione italiana e degli 
                  anni Sessanta e Settanta in Argentina, da non perdere se siete 
                  interessati a queste tematiche. Un libro che se avesse avuto 
                  un editore ben distribuito, con un poco di editing alle spalle, 
                  avrebbe meritato di far parlare di sé con ben altra rilevanza. 
                  Perché è la storia che passa da queste pagine, 
                  dopo essere entrata nella carne di chi le ha scritte. 
                 Alberto Prunetti 
                   
                   
                   Lombroso e i meridionali/ 
                  Lamarckismo, razzismo e il cranio del povero Villella 
                 Il 
                  piccolo pamphlet Lombroso e il brigante. Storia di 
                  un cranio conteso di Maria Teresa Milicia (Salerno editrice, 
                  Roma, 2014, pp.168, € 12,00) è un libro uscito per 
                  contrastare i movimenti No-Lombroso e neoborbonici che si oppongono 
                  al Museo Lombroso di Torino. Milicia fa diventare Lombroso un 
                  lamarckiano, un amico della Calabria e attribuisce la responsabilità 
                  dell'antimeridionalismo presente nell'antropologia criminale 
                  italiana, soprattutto ad Alfredo Niceforo. 
                  Lombroso, fin dalla prima edizione dell'Uomo delinquente 
                  (1876), definì tuttavia i meridionali “una razza 
                  di malfattori associati”, così come gli “zingari”, 
                  i “beduini”, i “negri” d'America, gli 
                  “albanesi” e i “greci”. Niceforo, suo 
                  allievo, descrisse esplicitamente due Italie, quella buona del 
                  nord, i cui abitanti erano ordinati, laboriosi e “gregari”; 
                  quella cattiva del sud: fatta da individualisti, emotivi ed 
                  autonomi. 
                  Alla ormai copiosa bibliografia lombrosiana si aggiunge, quindi, 
                  questo volume scritto con l'intento di chiarire chi fosse il 
                  “brigante” calabrese Villella nel cui cranio Lombroso 
                  trovò una fossetta in sede occipitale. “La prova” 
                  inequivocabile del criminale nato. 
                  Lombroso creò il mito; poco prima di morire ancora narrava 
                  che egli stesso aveva “anatomizzato” il malcapitato 
                  e che l'analisi del suo cranio lo avrebbe illuminato (cfr. l'introduzione 
                  di Lombroso a Criminal Man). 
                  Rintracciando Villella nelle carte di archivio, “Lombroso 
                  e il brigante” aggiunge un piccolo mattone alla letteratura 
                  sul tema. Milicia dimostra che Villella probabilmente era un 
                  semplice contadino con piccoli precedenti penali. Confrontando 
                  i differenti racconti su Villella fatti da Lombroso, era comunque 
                  intuibile che questi fosse solamente un “presunto” 
                  brigante e la storia della illuminazione, un mito creato dallo 
                  stesso Lombroso per legittimare le sue grandi scoperte. 
                  Lombroso e i suoi allievi studiarono altri casi di Meridionali: 
                  ad es., Misdea, Musolino e soprattutto il lucano Passannante. 
                  In queste storie, la nascita meridionale era usata come conferma 
                  della pericolosità sociale; nell'ingranaggio biopolitico 
                  la famiglia di queste persone era diagnosticata come pericolosa 
                  e degenerata, tanto da imporre ai familiari cure psichiatriche 
                  e ricoveri (cfr. Giovanni Passannante, di Giuseppe Galzerano). 
                  I meridionali semplicemente tornavano utili alla conferma della 
                  teoria perché erano una categoria di persone – 
                  una razza – in cui la presenza di caratteristiche evolutivamente 
                  arretrate e degenerate si considerava un fatto. 
                  L'ereditarismo di Lombroso prevedeva un sistema in cui le popolazioni, 
                  le persone e i gruppi fossero “più” o “meno” 
                  evoluti. Le donne meno degli uomini, i bambini degli adulti 
                  e i meridionali dei settentrionali. L'ambiente poco poteva in 
                  un sistema gerarchico in cui ognuno aveva un posto in basso 
                  o in alto. I trasformisti lamarckiani, al contrario, pensavano 
                  di poter modificare e migliorare le generazioni delle persone 
                  in tempi brevi e con pratiche di emancipazione; erano spesso 
                  politicamente ingaggiati nel movimento del libero pensiero, 
                  nel partito radicalsocialista, nell'azionismo repubblicano, 
                  nel movimento anarchico e socialista e nei movimenti per l'emancipazione 
                  delle donne. Lombroso, per giunta, era un socialista all'acqua 
                  di rose che coniò il termine misoneismo per giustificare 
                  una “normale” tendenza delle masse alla conservazione. 
                  Lombroso condivideva una visione paternalistica dell'azione 
                  sociale come testimoniano proprio gli scritti sulla Calabria, 
                  tanto apprezzati da Milicia; nei suoi studi i rivoluzionari 
                  e i “settari” erano considerati degli anormali (cfr. 
                  Gli Anarchici e I Tre tribuni). Lombroso non apriva 
                  cioè a reali possibilità di trasformazione delle 
                  generazioni di individui mediante pratiche politiche, educative 
                  e terapeutiche di cui avrebbe beneficiato il patrimonio genetico 
                  “della stirpe”, in una ottica strettamente lamarckiana. 
                  Altri antropologi come Giuseppe Sergi, maestro della Montessori, 
                  davano invece enorme importanza all'educazione come pratica 
                  di emancipazione (cfr. Northerners versus Southerners 
                  di G. Cimino e R. Foschi). Lombroso era, inoltre, inviso soprattutto 
                  ai francesi, custodi e interpreti principali del trasformismo 
                  lamarckiano. 
                  Sulla base di molti contributi storiografici è chiaramente 
                  lecito definire “razziste” una serie di pratiche 
                  e di idee elaborate ben prima del Novecento. La storia del razzismo, 
                  quindi, include i precursori. L'innatismo, l'essenzialismo biologico, 
                  la tipizzazione e la pratica delle gerarchie - tutte presenti 
                  nell'opera lombrosiana - sono state i detonatori del razzismo 
                  di cui la filosofia, la storia e la psicologia si sono occupate 
                  solo dopo la seconda guerra mondiale. I cultori della teoria 
                  della degenerazione, a cui si ascrive l'opera di Lombroso, difesero 
                  un orientamento eugenetico e di controllo delle popolazioni 
                  e degli individui diagnosticati come “essenzialmente” 
                  malati, tarati, viziati e arretrati che preparò sul piano 
                  culturale ciò che poi abbiamo definito “pregiudizio” 
                  e “razzismo”. 
                  Per concludere, i Musei non vanno certamente chiusi ma non dovrebbero 
                  celebrare i “grandi” uomini che hanno costruito 
                  le proprie fortune sulle ossa di chi, come il contadino Villella, 
                  avrebbe meritato di essere rimesso al centro della Storia, magari 
                  iniziando dall'intitolazione del Museo al suo nome. 
                 Renato Foschi 
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