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				 primavere arabe 
                  
                Le transizioni non sono mai veloci 
                  
                di Fabrizio Eva 
                    
                La contemporaneità delle proteste, grandi o piccole che siano, nel mondo arabo e la tipologia delle richieste sono una novità che vivacizza le dinamiche politiche in un mondo considerato finora come culturalmente statico, arretrato e refrattario alla democrazia. 
                 
                  Le notizie dal Nordafrica e dal 
                  Vicino e Medio Oriente compaiono nei notiziari TV e nelle pagine 
                  degli esteri dei quotidiani italiani solo se succede qualcosa 
                  di importante o se ci scappa il/i morto/i. La stessa guerra 
                  civile siriana, che pure ha un carico di sangue quotidiano, 
                  passa in secondo piano se c'è qualche evento più 
                  “attuale” (vedi Crimea-Ucraina) e ormai quasi non 
                  fa più notizia. Con questo noi riceviamo delle notizie 
                  frammentate che ci abituano al sensazionalismo e non ci raccontano 
                  invece le dinamiche più quotidiane; quelle che si prolungano 
                  e durano nel tempo e che sono i veri percorsi delle transizioni 
                  da una situazione ad un'altra. 
                  La lettura “globalizzata” degli avvenimenti è 
                  quasi sempre in accordo con una visione predefinita e raccontata 
                  secondo schemi standardizzati; ad esempio che arabi e musulmani 
                  in genere siano incompatibili con la democrazia. Con questa 
                  idea dominante diventa difficile capire bene cosa sia successo 
                  e soprattutto quali esiti ci siano stati e quali potranno avere 
                  le diverse dinamiche geopolitiche dell´area del Nordafrica 
                  e del Vicino e Medio Oriente. 
                  Intanto c'é da dire che qualcosa di profondamente nuovo 
                  c'è stato e non si tornerà più alla condizione 
                  “mentale” di prima. Nel mondo arabo, per la prima 
                  volta dagli anni ´50-´60, movimenti radicali sono 
                  avvenuti contemporaneamente in diversi stati e aree; e con qualche, 
                  anche se limitato, successo. 
                  Indietro non si torna, soprattutto come atteggiamento mentale, 
                  in particolare giovanile. 
                  Nelle strade sono scesi i giovani, che in qualche caso hanno 
                  avuto l'appoggio di altri strati sociali e di età diverse. 
                  Giovani (meno di 25 anni) che sono mediamente il 50% della popolazione 
                  dei paesi arabi, guardano al futuro e dei quadri ideologici 
                  del passato, anche recente (incluso il fondamentalismo islamico), 
                  molti di loro sanno poco o se ne disinteressano. O sono contro. 
                  Il fattore fondante delle varie rivolte è stato il voler 
                  scendere fisicamente nelle piazze; anche se nei luoghi fisici, 
                  a differenza di internet e delle chat, manganelli, armi, forze 
                  di polizia e esercito, se intervengono dalla parte del potere, 
                  sono in grado di far pagare costi altissimi in termini di morti, 
                  feriti, arresti e poi condanne. 
                  La motivazione delle proteste, semplice e accomunante, solo 
                  apparentemente non ideologica, rimane sempre la stessa: la diffusa 
                  e consolidata insofferenza verso abusi e privilegi che sono 
                  diventati sistema in strutture statali autoritarie. Dire basta 
                  con l'uso e abuso dello spazio quotidiano da parte dei rappresentanti 
                  del potere e dei privilegiati. Soprattutto in un contesto in 
                  cui le difficoltà economiche rendono ancora più 
                  stridente la differenza tra i privilegiati e gli esclusi dal 
                  sistema. 
                  Ci sono stati cambiamenti; in alcune aree (Egitto e Tunisia) 
                  si è innescato un processo politico in continua dinamica, 
                  in Libia c´è stata una vera e propria guerra. In 
                  qualche area (Bahrein) il confronto è stato meno violento, 
                  ma è stato represso con la forza e con condanne, anche 
                  a morte dei rivoltosi; l'Arabia Saudita ha inviato truppe e 
                  autoblindo per aiutare un emiro sunnita alle prese con la maggioranza 
                  della popolazione sciita che chiedeva riforme e più diritti 
                  politici. Solo lo Yemen, anche col cambio del presidente, rimane 
                  nella solita situazione conflittuale interna tra i diversi clan 
                  (con diversi orientamenti e eresie islamiche); in Siria continua 
                  lo scontro cruento che è arrivato a mettere in seria 
                  difficoltà il governo di Assad, dopo il riconoscimento 
                  dell'opposizione armata da parte degli USA e le critiche caute, 
                  ma esplicite, della Russia, ma che ora è più equilibrato 
                  sul campo, anche (o soprattutto) per le crescenti divisioni 
                  ideologico(-religiose) interne tra i diversi gruppi armati ribelli 
                  (variamente finanziati dall'estero), che hanno indebolito la 
                  rivolta e consentito ad Assad di riguadagnare posizioni. 
                  In tutti i paesi dove ci sono state manifestazioni di piazza 
                  si è potuto vedere che la neutralità dell'esercito 
                  è stata un fattore determinante; dove non ha collaborato 
                  con il potere reprimendo le agitazioni si è arrivati 
                  ad un esito politico di cambiamento, anche se ancora tutto da 
                  sviluppare. Dove l´esercito si è schierato dalla 
                  parte del potere abbiamo visto scontri cruenti e repressione 
                  dura. La Libia è un caso a parte visto che c'è 
                  stato un intervento militare diretto (e voluto) dall'esterno 
                  e l'esercito libico di fatto non esisteva come potente struttura 
                  autonoma. 
                
                   
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                    |   Manifestazione a Tunisi (Tunisia)  | 
                   
                 
                La questione della laicità dello Stato 
                Quali risultati sono stati ottenuti? Molto e poco nello stesso tempo. Il presidente Ben Ali in Tunisia è fuggito con la cricca dei famigli e dei più vicini nel gennaio 2011 ed è stato l'inaspettato evento che ha convinto anche altri manifestanti in altri paesi a continuare o a iniziare le proprie manifestazioni di protesta; non c'è nulla di più forte del “sapore della vittoria” per sostenere le lotte. Il dopo Ben Ali ha visto che chi ha fatto carriera e fortuna col regime è rimasto, sia pure in posizione defilata. La polizia ha ricominciato a reprimere e talvolta sparare sui manifestanti che volevano maggiori e più rapidi cambiamenti. Molti tunisini sono inizialmente scappati (senza reali motivi in più rispetto a prima) a Lampedusa evidenziando però che le dichiarazioni allarmistiche dei nostri ministri (esodo biblico, tsunami migratorio, ecc.) erano esagerate. Fino a dopo l'estate 2011 sono arrivati a Lampedusa circa in 40.000, mentre la certo più povera Tunisia ha gestito in febbraio una vera ondata (200.000 circa in meno di 4 settimane) di lavoratori in fuga, a suo tempo immigrati in Libia, senza parlare, come da noi, di scenari apocalittici. E tuttora ha “avanzi” di questa ondata dalla Libia. 
Il partito di ispirazione religiosa Ennahda ha vinto (ma non stravinto) le elezioni di fine 2011 e non poteva (e non può) essere diversamente se in un paese a larghissima maggioranza musulmana si chiede “democraticamente” di votare; la situazione è rimasta sostanzialmente in stallo per mesi: la disoccupazione e i privilegi non sono spariti, i gruppi più fondamentalisti hanno cercato di forzare la mano e introdurre abitudini da “bravi musulmani” (velo per le donne e censura a certi film e programmi televisivi). Ma c'è stata una forte resistenza laica interna e soprattutto le giovani donne non vogliono essere confinate in casa e subire prepotenze maschili perché per molte di loro il vivere “all'occidentale” è una pratica quotidiana consolidata. L'assassinio di due politici laici da parte di uno (o due) gruppi terroristi salafiti ha provocato una fortissima reazione interna che ha costretto il ministro degli interni a dichiarare pubblicamente il rammarico del governo e la sua assoluta distanza ideologica da tali atti. Ma forse altrettanto significativo è il caso individuale di Amina Sboui, che conduce la sua battaglia postando sue foto a torso nudo e fumando su facebook o anche, con maggior rischio e determinazione, presentarsi fisicamente dove i gruppi e i partiti salafiti hanno organizzato una riunione politica. Disposta a pagare con qualche mese di prigione ingiustificata un gesto che però può valere molto sul piano di un cambiamento culturale sia nell'ambito dei comportamenti che in quello dei diritti individuali. Il risultato politico, il migliore in tutta l'area delle “primavere”, è stata l'approvazione nel gennaio 2014 di una costituzione di compromesso, ma che vede chiaramente riconosciuta la laicità dello stato e il ruolo paritario delle donne nella società. Pericolosamente diversa era la prima bozza di fine 2011, inizio 2012. 
                  L'enigma Egitto 
                In Egitto dopo le dimissioni di Mubarak la struttura di potere dell'esercito ha continuato a controllare lo spazio fisico della politica e dello stato (e dell'economia) anche se in modo più discreto fino al giugno 2013. Nessuna donna ha fatto parte della commissione incaricata di proporre le modifiche alla costituzione. Le modifiche proposte hanno avuto più del 70% dei voti al referendum appositamente indetto nel 2011. Probabilmente gli egiziani hanno voluto gustarsi il primo voto libero da decenni per ottenere un risultato veloce piuttosto che aspettare i tempi di una radicale modifica costituzionale come volevano i gruppi e movimenti più giovani e motivati politicamente. Ma questo risultato ricorda anche un po' a tutti che non è più periodo di masse rivoluzionarie (se mai ci fosse stato) soprattutto dove la pratica della democrazia quotidiana è ai suoi primi vagiti. In questo senso Tunisia e Egitto (e la Libia) sono degli stati “giovani”, che devono imparare a gestire le nuove istituzioni indipendenti dopo decenni di autoritarismo. 
La questione copta (e del diritto delle donne musulmane di sposare anche qualcuno di altra religione) sembra non fare parte della questione democrazia. E decine di uomini hanno disperso con la violenza una manifestazione delle donne l'8 marzo 2011 (che però c'è stata, mentre prima …). Esercito e Fratelli Musulmani si sono ritrovati alleati nel sostenere le modifiche soft, leggere, della Costituzione: ambedue vogliono la stabilità, perché temono che la spinta giovanile al cambiamento eroda dal basso soprattutto il modo autoritario con cui “pensano” e vogliono gestire gli uni (l´esercito) la politica e la loro fetta di economia, gli altri (i Fratelli) la società. Alle elezioni è stato normale che il risultato ricalcasse quello delle elezioni tunisine: almeno il 40% della popolazione si è affidato al partito religioso perché ... perché no? Una bella fetta della popolazione (più anziana, ma non solo) che non sa di politica, che segue la TV di stato, che legge poco e che si affida ai comportamenti consuetudinari, trova il “discorso” religioso quello più comprensibile e migliore per gestire la società. Più preoccupante il successo (più del 20%) dei partiti cosiddetti “salafiti”, cioè fondamentalisti islamici e ultraconservatori. Va ricordato, però, che alle prime elezioni veramente multipartitiche in Egitto è andato a votare poco più del 50% degli aventi diritto; e senza campagne astensionistiche! 
Ma un processo è iniziato e ci sono ancora occhi attenti e giovani disposti a rischiare. Dopo la negoziazione diplomatica nello scontro Israele-Hamas a Gaza nel novembre 2012 il presidente egiziano Morsi (della Fratellanza Musulmana) ha cercato subito di infrangere la nuova costituzione e di dotarsi di poteri eccezionali che nemmeno Mubarak si era dato. Ma le potenti manifestazioni di piazza degli oppositori hanno evidenziato ai Fratelli Musulmani che non sono i padroni del campo e per loro, abituati alla repressione e a credere di essere gli unici rappresentanti del popolo, questa è una novità che non sembrano capaci di gestire. Il Profeta e il Corano non dicono come trattare le manifestazioni di piazza o gli assalti alle proprie sedi. 
L'opposizione ha deciso di non boicottare il referendum del 15 dicembre 2012 sulle contestate modifiche alla pur nuova costituzione, che Morsi ha voluto indire in fretta insieme al rafforzamento dei propri poteri; alcuni commentatori hanno giudicato queste mosse come “ingenue” più che avventate ed altri come un segno di incapacità a gestire quella “democrazia” e quella legittimazione elettorale che il presidente e anche altri leader dei Fratelli Musulmani continuano a citare nei loro discorsi. 
Al di là dei discorsi (sembra che i nuovi leader abbiano imparato in fretta come apparire o affermare di essere “democratici”) diventano molto significativi i dati sull'affluenza e le percentuali dei risultati. L'affluenza al voto del referendum è stata molto bassa (32,9% in totale sui due turni); significa che la Fratellanza non è riuscita a mobilitare gli egiziani a favore della loro “idea” di come deve essere un Egitto musulmano; e paradossalmente gli integralisti erano a favore del boicottaggio perché le modifiche erano troppo blande. Con una percentuale così bassa di votanti la vittoria con il 63,8% vuole dire che in soli pochi mesi la Fratellanza ha perso voti e popolarità; 2 egiziani su 3 sono disinteressati a queste questioni di principio (tra cui se la sharia debba essere la fonte principale di ispirazione per le leggi) e solo 1 su 5 ha espresso il suo favore. 
Le manifestazioni nella solita piazza simbolo Tahrir hanno detto che l'opposizione è (abbastanza) forte e che non sta zitta; dopo aver assaggiato la vittoria contro Mubarak molti non sono disposti ad accettare un semplice cambio di padrone. Il numero dei manifestanti contro Morsi e l'occupazione del potere da parte della Fratellanza ha raggiunto le centinaia di migliaia se non di più e questo ha spinto l'esercito nel giugno 2013 a dare una specie di ultimatum a Morsi, e poi in luglio e in agosto intervenire direttamente esautorando (pretestuosamente) il presidente Morsi, destituendo governatori, incarcerando la dirigenza della Fratellanza, sparando sui manifestanti. Una serie di errori politici e pratici, ma non ci si può aspettare “capacità” politiche da militari cresciuti sotto Mubarak. 
La messa fuori legge dei Fratelli Musulmani e le condanne a morte in massa (529 in una sola sentenza) imprimono una direzione distorta alla transizione politica del dopo Mubarak e le dichiarazioni “laiche” di appoggio al colpo di stato sono un segnale di pericolosa debolezza e un segnale che nel campo degli oppositori a Morsi, nonostante le migliaia e migliaia di manifestanti in piazza, ancora non emergono figure di leader capaci di una visione e di una proposta politica chiara e autonoma dall'esercito. 
In Libia, a suo tempo, Gheddafi non poteva lasciare; era la guida della rivoluzione e la struttura politica e dell'esercito erano sotto il suo controllo, soprattutto in Tripolitania. E infatti non ha esitato ad usare esercito e mercenari, e i pochi casi di defezione ci dicono che il grosso di quel poco esercito stava con lui. La situazione libica è stato un caso storico-geografico a parte nel quadro nordafricano e non possiamo includerla nelle “primavere”. 
                  Una situazione di non-ritorno 
                In Siria dopo le prime avvisaglie di manifestazioni nel marzo 
                  2011 il sistema di controllo preventivo (internet normalmente 
                  limitato, controllo delle comunicazioni, prelevare e intimidire 
                  gli “agitatori”, rete collaudata di informatori, 
                  ecc.) era stato attivato con successo. Ma le manifestazioni 
                  hanno continuato e si sono diffuse. Le abituali promesse del 
                  potere di fare le riforme non sono state più credute: 
                  fatti e non parole, e i “fatti” di cambiamento non 
                  sono arrivati. Esercito e polizia hanno sparato. L'ipotetico 
                  scontro interno al sistema di potere tra l´apparato del 
                  partito Baath, fatto da funzionari abituati al potere e alla 
                  corruzione e/o di una certa età, e il giovane presidente 
                  Bashar Al Assad in realtà non è avvenuto. Molti 
                  siriani, in diverse aree del paese, hanno continuato a scendere 
                  in piazza sostanzialmente in una posizione perdente contro le 
                  “forze dell'ordine”. La sostanziale cecità 
                  e sordità del sistema di potere siriano nei confronti 
                  delle richieste di cambiamento e democrazia ha lasciato sempre 
                  più spazio all'azione dei gruppi armati, sempre più 
                  sostenuti dall'esterno, in prima fila Qatar e Arabia Saudita: 
                  i primi a sostegno di tutti i gruppi somiglianti o affiliati 
                  alla Fratellanza Musulmana e i secondi a sostegno dei gruppi 
                  più fondamentalisti. 
                  Gli scontri cruenti hanno provocato masse di profughi (tra Turchia, 
                  Giordania e Libano, si stima circa tra i 2 e 3 milioni) e una 
                  guerra civile che dura da mesi con circa 150.000 morti stimati. 
                  Oggi, aprile 2014, i margini di trattativa sembrano sfumati: 
                  divisioni interne tra i gruppi dei ribelli, alcuni dei quali 
                  non hanno partecipato agli incontri negoziali di Ginevra e, 
                  paradossalmente, la questione delle armi chimiche che avrebbe 
                  dovuto/potuto essere un duro colpo e un pericolo per Bashar 
                  Assad si è volta a suo favore (apparentemente responsabile 
                  e disponibile alle richieste dell'ONU) e ha accresciuto il ruolo 
                  negoziale e di prestigio della Russia. Il crollo del sistema 
                  Assad non sembra più all'orizzonte e qualunque “dopo 
                  Assad” non sarà una transizione facile e indolore. 
                  Soprattutto a che prezzo di vite e sofferenze. 
                  Per finire una cosa è certa: la contemporaneità 
                  delle proteste, grandi o piccole che siano, nel mondo arabo 
                  e la tipologia delle richieste sono una novità che vivacizza 
                  le dinamiche politiche in un mondo considerato finora (soprattutto 
                  dall'Occidente) come culturalmente statico, arretrato e refrattario 
                  alla democrazia. 
                  Credo che difficilmente si potrà tornare alla situazione 
                  precedente e la grande novità è che i tradizionali 
                  centri di potere non sanno come gestire queste nuove dinamiche 
                  perché non hanno strumenti concettuali per comprenderle 
                  (purtroppo anche in molta parte dell'Occidente); messi alle 
                  strette, vedi Egitto, riescono a pensare solo all'azione militare, 
                  alla repressione e al colpo di stato. 
                  È importante che si osservi con attenzione ciò 
                  che succede cercando di svincolarsi da tesi precostituite ed 
                  essendo disposti ad attribuire all'Altro la nostra stessa capacità 
                  di comprensione e anche che abbiano le nostre stesse debolezze. 
                 Fabrizio Eva 
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