  
                
  
                Sempre alla ricerca di qualcos'altro 
				 
                A colloquio con Marco Ferradini sul suo cd 
                  “La mia generazione”, dedicato all'amico e sodale 
                  Herbert Pagani, le cui canzoni costituiscono appunto l'essenza 
                  del cd stesso. 
                  Ultima tappa ideale di una collaborazione eccezionale. 
                 Alessio Lega - Sono quasi trent'anni che 
                  Herbert Pagani non c'è più, allora sgomberiamo 
                  subito il campo dal fastidioso fantasma della nostalgia, della 
                  celebrazione vuota di un piccolo mito per cultori. Herbert è 
                  vivo nelle sue opere pittoriche, plastiche, nei suoi dischi, 
                  nei suoi interventi polemici... ora è particolarmente 
                  vivo perché tu ne porti in giro le canzoni, e le canzoni 
                  fin tanto che le si canta restano vive. Il tuo spettacolo è 
                  essenziale, proprio perché nasce sul fiore dell'assenza 
                  di Herbert. Tu ricordi il momento in cui hai saputo della sua 
                  morte? 
                  Marco Ferradini - Era esattamente il 16 di agosto del 1988. 
                  Io stavo tornando dalla Puglia, dove avevo fatto due concerti. 
                  Erano le sei di sera, ero in macchina da solo e viaggiavo, stanco 
                  della lunga strada. A un certo punto dalla radio: «lutto 
                  nel mondo dello spettacolo, è morto a Miami il cantautore 
                  Herbert Pagani». 
                  Questa la frase lapidaria che ha folgorato quella mia serata. 
                  In macchina lì da solo, anche la mia mente ha cominciato 
                  a viaggiare, e ho cercato subito di ricostruire tutto a ritroso 
                  che cosa era successo. Noi ci eravamo rivisti quel maggio, lavoravamo 
                  assieme a certe produzioni pubblicitarie: lui aveva una sala 
                  d'incisione, qui in Via Brunelleschi a Milano, dove confezionava 
                  programmi radiofonici - jingle pubblicitari compresi - molto 
                  belli e, per l'epoca, all'avanguardia, dunque il nostro rapporto 
                  musicale continuava, sia sul piano nobile della canzone, sia 
                  sul piano più artigianale di questi altri impegni. In 
                  quell'occasione l'avevo trovato un po' invecchiato: era incanutito 
                  tutto d'un colpo e si era tagliati corti i capelli, rivelando 
                  un aspetto un po' emaciato e sofferente. Lo avevo trovato piuttosto 
                  preoccupato per la sua salute... «ho delle analisi tutte 
                  sballate, troppi globuli bianchi... le ho anche fatte vedere 
                  a Parigi, ma non mi hanno dato risposte chiare. Sono preoccupato, 
                  ho paura di morire», e io «ma va, ma chi ti ammazza...», 
                  insomma le solite cose che si dicono in quei casi. 
                  Quando lui era giovanissimo aveva già avuto un episodio 
                  di improvvisa anemia molto grave, che però in ospedale 
                  era rientrata, ma che alla fine, trent'anni dopo è insorta 
                  e lo ha ucciso. Lui poi - nel suo mestiere di pittore-scultore 
                  - camminava lungo le spiagge e raccoglieva tutti i residui di 
                  quella che chiamava la “pattumiera di Nettuno”: 
                  teste di bambola, scarpe rotte, frammenti dei più vari, 
                  li portava nel suo atelier qui a Milano, e li lavorava immerso 
                  per ore in effluvi di sostanze tossiche: colle, acidi, ecc. 
                  Chissà, magari alla lunga anche quest'esposizione non 
                  gli ha fatto bene. 
                   
                  Questo è l'inizio commosso di una conversazione avuta 
                  con Marco Ferradini per evocare la presenza di un grande artista, 
                  che per lui è stato anche una frequentazione fissa e 
                  un pilastro della sua carriera. Marco ha avuto un suo percorso 
                  artistico, anche molto distante da quello del poeta ribelle 
                  di “Megalopolis”, del cantore della straziante “Albergo 
                  a ore”, del sionista di sinistra dell'“Arringa per 
                  la mia terra”... Marco è ricordato invece per le 
                  sue canzoni emotive, fra le quali la celeberrima “Teorema”: 
                  pochi però sanno che il testo di questa canzone è 
                  proprio di Herbert Pagani.  
                  Non è una casualità: il rapporto fra i due 
                  è stato un rapporto profondo, che questa intervista cerca 
                  di ricostruire, purtroppo solo dal punto di vista di Ferradini. 
                  Il suo “La mia generazione” è un CD doppio, 
                  una vera e propria caccia al tesoro “Pagani”, la 
                  cui mappa è “disegnata” insieme a un pugno 
                  di amici (fra i quali Ron, Eugenio Finardi, Moni Ovadia, ecc.). 
                  Lo spettacolo tratto da questo disco gira ancora per l'Italia. 
                   
                  Tu ed Herbert avevate solo dei rapporti di lavoro - per 
                  quanto ricorrenti - o vi potevate definire amici? Non è 
                  enorme la distanza anagrafica fra voi due, ma in certi casi 
                  un piccolo salto generazionale può significare un muro. 
                  Marco - Noi ci si trovava per lavorare, dunque era un rapporto 
                  basato sul lavoro. Ce lo siamo detti tante volte: “dai 
                  usciamo, andiamo al cinema a un concerto...”, ma poi, 
                  fuori dal lavoro, non ci siamo mai trovati. Questo oggi mi spiace 
                  assai, perché già solo a stargli vicino, anche 
                  solo per cantare in un coretto di un jingle, era uno che ti 
                  insegnava molto. Sai, nella vita mi sono mosso parecchio per 
                  suonare, però alla fine resto quello nato a Como e vissuto 
                  nell'ambiente musicale milanese (che era ricchissimo). Però 
                  lui aveva una percezione internazionale della cultura. 
                  Io sono un gatto: legato alla sua casa ma curiosissimo delle 
                  esperienze altrui. Incontrare uno come Herbert era come avere 
                  un libro vivente aperto dinanzi a sé. 
                  Confrontarsi con lui era anche come salire sul ring, lui aveva 
                  un modo di fare irruento, poteva risultare pesante, era sul 
                  palco anche nella vita. Tutto il contrario di me. Era anche 
                  una persona sempre insoddisfatta, sempre alla ricerca di qualcos'altro. 
                  Uno divorato dal proprio fuoco, che non si fermava mai, eternamente 
                  inquieto. Passavi una serata a convincerlo che una certa cosa 
                  era buona così, era bellissima, che era compiuta... lui 
                  ti diceva “si”, però si vedeva che ruminava. 
                  Poi alle cinque del mattino squillava il telefono, ed era Herbert 
                  che ci aveva pensato tutta la notte e ti buttava giù 
                  dal letto per dirti che era tutto da rifare. Un rompicoglioni, 
                  come tutti i geni... lavorare con lui poteva risultare sfiancante. 
                  Però ora, a distanza di tanti anni, quelle telefonate 
                  alle quattro del mattino sono proprio le cose più belle 
                  che mi ricordo. 
                   
                  Sono il segnale di un atteggiamento di rispetto per il 
                  pubblico, una percezione artigianale del lavoro artistico che 
                  è quasi completamente andata perduta. 
                  Marco - Noi ci consideravamo degli artigiani, senza troppe velleità 
                  da “artistoni”. Ma eravamo anche convinti di essere 
                  una cosa ben diversa dalla produzione industriale. Tutte le 
                  volte che nel mio lavoro mi sono confrontato con l'industria 
                  sento di essere stato violentato. 
                  Herbert era completamente indipendente da ogni tipo di condizionamento 
                  esterno: libero e senza dogmi. Ai suoi esordi, negli anni '60, 
                  era entrato in un giro anche commerciale: radio e televisioni 
                  con canzoni come Cin cin con gli occhiali. Ma poi, un 
                  po' per la sua complessa sessualità, un po' perché 
                  voleva dire tutte le sue cose coi suoi tempi, era entrato in 
                  rottura con l'industria musicale. 
                   
                  Eppure, a ben guardare, rispetto alla canzone d'autore 
                  più intellettualizzata degli anni '70, lui resta un puro, 
                  con un'intenzione profondamente popolare, tanto da guadagnarsi 
                  talvolta l'accusa di populismo. Benché pochi anni vi 
                  separino, tu sei molto più influenzato dal modello anglofono 
                  - i Beatles, Jackson Browne - invece lui dal modello francese. 
                  Tu come ti sei confrontato con quel mondo musicale per te estraneo? 
                  Marco - Io ascolto quei dischi con una certa distanza, perché 
                  in effetti sono estranei al mio mondo musicale. Però 
                  li ascolto anche con molta attenzione per percepire l'importanze 
                  delle parole, la poetica. Senza prevenzioni, credo, trovo che 
                  quel modo di fare fosse perfettamente congeniale a lui, non 
                  solo per la radice francese, ma per una molto più profonda 
                  essenza barocca, mediterranea. 
                  Lui era nato a Tripoli e aveva un qualcosa di eccessivo nel 
                  modo di esprimersi, gli dicevo che mi ricordava quei dolci arabi, 
                  bellissimi a vedersi e anche da assaggiare... ma non oltre il 
                  primo boccone, perché poi sono troppo-troppo: troppo 
                  dolci, troppo speziati, troppo carichi. I suoi arrangiamenti 
                  lo rispecchiavano, e ogni tanto lo sento annegare in questo 
                  mare di violini, di trombe, di cori (che non sopporto!). Herbert 
                  voleva sempre esagerare, anche in quello che abbiamo fatto insieme, 
                  non dice «ignora quella donna», ma dice «prendi 
                  una donna, trattala male...». Herbert era tutto a colori 
                  forti. 
                  La prima volta che l'ho visto aveva un maglione tutto colorato, 
                  me lo ricordo imponente, con questa gran massa di capelli ricci, 
                  con questo modo di fare... ho subito pensato «ecco uno 
                  che vuole fare l'artista», beh, no quello era proprio 
                  un riflesso del mondo che gli esplodeva dentro. 
                  
                  Una stima preventiva 
                Però se penso al suo modo così totale di 
                  concepire la sua musica: oltre alle parole molto forti, le melodie, 
                  le armonie elaborate, i violini, i cori, nei suoi dischi entrano 
                  pure i rumori della strada! C'è proprio tutto, sono una 
                  sorta di opera totale. Poi sento i pezzi fatti con te, dove 
                  ha saputo scrivere dei testi che si confacevano al tuo mondo 
                  molto più sobrio, sospeso fra il folk e il pop... insomma 
                  trovo che sia stato anche bravo e rispettoso della tua poetica. 
                  Ora rileggendo le sue canzoni alla tua maniera, penso che 
                  tu stia facendo lo stesso lavoro al contrario. 
                  Marco - Io sono tendenzialmente un minimalista, ormai non sopporto 
                  più nemmeno la batteria e ho messo in questo spettacolo 
                  il basso acustico. Tutto ciò che mi distoglie dall'interpretazione, 
                  dall'espressività della voce mi dà fastidio. Io 
                  voglio arrivare a fare un acquerello musicale di grande semplicità. 
                  Herbert aveva in qualche modo intuito tutto questo, anche perché 
                  faceva abitualmente l'autore per altri. 
                  Continuo a scoprire tracce del suo lavoro d'autore che non conoscevo: 
                  recentemente ho scoperto un disco di Antoine con tutti i pezzi 
                  firmati da Pagani. Lui aveva la capacità di sentire quello 
                  che tu volevi esprimere e di scriverlo in forma di canzone. 
                    
                  Così arriviamo al famoso fine settimana in montagna 
                  dov'è nata la vostra principale collaborazione: “Teorema” 
                  e le altre cose... 
                  Marco - Io avevo già preparato le musiche e avevo messo 
                  dei testi casuali, che non c'entravano assolutamente un cazzo 
                  con quelle che sono state le canzoni una volta finite. Noi siamo 
                  andati tre giorni in montagna e abbiamo passato la maggior parte 
                  del tempo a passeggiare. Io gli raccontavo le mie situazioni 
                  sentimentali: mi stavo separando proprio in quel periodo, lui 
                  s'era separato poco prima, è nata così l'empatia. 
                  Poi alla sera tutto quello che ci eravamo detti tornava fuori. 
                  Eravamo soli noi due in questo chalet bellissimo, tutto profumato 
                  di legno, con le stanze piccoline davanti al camino, con la 
                  chitarra in mano... io suonavo, cantavo le melodie, e lui col 
                  taccuino in mano: «prova a cantare questo... no, dai, 
                  ora cambia questa parola...», e così sono nate 
                  quelle canzoni. Era proprio il suo mestiere! Ho ritrovato quella 
                  stessa genialità, quella stessa immediatezza d'intuizione 
                  quando ho lavorato con Mogol: gente che per tutta la vita ha 
                  trasformato ogni cosa in parole. 
                   
                  Non tutti gli ingredienti, anche se buoni, si possono 
                  mischiare, non tutti possono collaborare. Fra voi due la collaborazione 
                  ha funzionato, ma non è una cosa meccanica. 
                  Marco - Fra noi la collaborazione ha funzionato perché 
                  si basava su una stima preventiva. Come se tu passassi davanti 
                  a una casa e dicessi «che bella casa, mi piacerebbe vivere 
                  lì», e dopo un po' hai l'occasione di vivere proprio 
                  in quella casa. Io, quando ho visto Herbert per la prima volta, 
                  mi sono detto «che forte questo qui, chissà che 
                  testa ha: mi piacerebbe collaborarci». Non voglio metterla 
                  su un piano troppo spirituale, ma penso che ci sia una specie 
                  di destino, poli che si attraggono. Così, quando ci è 
                  capitato di lavorare assieme, è stato tutto molto naturale. 
                   
                  Poi però, dopo la sua morte, ci hai messo più 
                  di vent'anni per riprendere questo filo e arrivare a concepire 
                  il CD “La mia generazione” e lo spettacolo che racconta 
                  Pagani. 
                  Marco - È una questione di rispetto. Io avrei potuto 
                  prendere quei pezzi e inciderli dopo poco che era morto, insistere 
                  sull'effetto immediato della nostalgia di quelli che lo seguivano, 
                  mentre ora è solo un lavoro culturale. Però, se 
                  solo avessi potuto sospettare che lo facevo per interesse, mi 
                  sarei fatto schifo. Quindi sono passati tanti, tanti anni... 
                  e un giorno la comunità ebraica di Trieste mi chiama 
                  per un concerto dedicato a Herbert Pagani, e ho accettato. Lì 
                  a Trieste un ragazzo che suonava in un gruppo klezmer mi ha 
                  detto «ma perché non tiri fuori i pezzi di Herbert 
                  che nessuno canta più, tu che ci hai lavorato assieme 
                  sei l'unico che ha la credibilità per farlo». 
                  Così mi sono messo a riascoltare quei pezzi in modo diverso, 
                  con la chitarra in mano. Prendevo le melodie e le rielaboravo 
                  armonicamente, aggiungendo qui e là degli interventi 
                  strumentali, così le ho fatte mie senza fare nessuna 
                  fatica, con quella stessa naturalezza con cui avevo collaborato 
                  con lui da vivo. Insomma ho ripreso un discorso interrotto... 
                  una specie di magia. 
                  Qualche errore, ben pochi compromessi 
                Hai fatto un disco molto collettivo, con molte voci. 
                  Lo avevi pensato così? 
                  Marco - No, non avevo nessuna idea commerciale precisa. Sono 
                  partito molto dalla base «proviamo a fare un disco per 
                  far riscoprire questo cantautore», poi i miei stessi musicisti 
                  hanno allargato questo discorso agli artisti dell'area milanese 
                  che potevano avere qualcosa in comune con quell'ambiente in 
                  cui Herbert aveva lavorato. Una sorta di riappropriazione collettiva. 
                  E poi nel libretto ci sono le fotografie di quando ci frequentavamo... 
                  insomma è diventato molto più di un album, una 
                  sorta di documento della mia vita. 
                   
                  Ormai è qualche anno che ti sei completamente reimmerso 
                  in Herbert e che vivi, potremmo dire, in sua compagnia. Per 
                  il futuro hai qualche idea? pensi di fare qualcosa di completamente 
                  diverso o vuoi ancora approfondire questo lavoro di riscoperta? 
                  Marco - Io sono uno che scrive in continuazione, dunque ho sempre 
                  parecchio materiale nuovo. Questo lavoro su Herbert in effetti 
                  mi ha assorbito parecchio, e me lo sto godendo. Sento che con 
                  quest'album mi sono fatto un regalo... ma anche Herbert a sua 
                  volta con questo disco mi ha fatto il regalo di ricollocarmi 
                  nell'ambiente della canzone d'autore, nel quale prima ero percepito 
                  come estraneo... la cosa all'inizio mi ha stupito un po': molte 
                  di queste canzoni sono proprio mie, nelle altre mi riconosco, 
                  insomma questo sono io, è un album che mi rispecchia! 
                  Nella vita ho fatto senz'altro qualche errore, ma ben pochi 
                  compromessi. Ripartendo dopo questo lavoro, posso continuare 
                  a guardare quello che ho fatto sin dall'inizio e riprendere 
                  il percorso naturalmente. 
                 Alessio Lega 
                  alessiolegaconcerti@gmail.com 
               |