rivista anarchica
anno 44 n. 388
aprile 2014


razzismo

Gli zingari?
Sterminateli pure

di Marco Rossi


Così si poteva leggere fin dal Quattrocento in vari bandi emessi contro i “figli del vento” nel territorio italiano che anticipavano le direttive antizingare dello sterminio nazi-fascista. In queste pagine si ricordano le responsabilità del fascismo italiano nel Porrajmos, spesso dimenticate.


Io non offendo nessuno ma le brigate nere e i fascisti come anche ci sono oggi non sono esseri umani, non saranno mai umani, lei mi scuserà. Anche oggigiorno dove siamo arrivati?
Mirko Levak, rom di Marghera (Venezia), superstite di Auschwitz

Dopo circa mezzo secolo di rimozione, a partire dagli anni Ottanta, il Porrajmos, lo sterminio delle popolazioni rom e sinti, pianificato e attuato dal regime nazista, è uscito dalle tenebre della storia contemporanea ed ormai la ricerca ha iniziato a ricostruire fasi, meccanismi e responsabilità di questa tragedia che però non riguarda soltanto la memoria della Germania di Hitler, ma anche quella di altri fascismi europei, incluso quello italiano.
Pur rispettando la riluttanza culturale dei rom a parlare di morte e ricordare avvenimenti dolorosi, si tratta di un passato che continua purtroppo a riproporsi nel presente, senza sollevazioni ma neanche memoria collettiva.
Resta come un'ombra pesante sulla storia nazionale, non meno sgradevole e muta di quella riguardante i genocidi coloniali perpetrati sotto le insegne tricolori o i crimini commessi dalle truppe italiane in Spagna o nei Balcani, per taluni aspetti connesso alla persecuzione degli ebrei, ma allo stesso tempo con origini diverse seppure ugualmente remote.
L'ostilità in Italia verso le popolazioni nomadi, secondo alcune fonti, può essere fatta risalire al 1422, quando la loro comparsa a Bologna suscitò avversione e misure legali, comprendenti anche il divieto di frequentarli, pena multa e scomunica; comunque, dal secolo quindicesimo, gli “zingari” – come precisa Alessandro Dal Lago – “subirono una persecuzione capillare da parte delle comunità urbane e dalle autorità politiche e religiose” parimenti ad altri soggetti (eretici, streghe, ebrei e devianti di ogni tipo). La legislazione statale antigitana registra infatti in tale periodo una progressiva estensione, con bandi e decreti penali: Venezia (1483), Milano (1493), domini estensi (1524), Firenze (1547), Stato pontificio e Napoli (1555).
Da sottolineare il fatto che sovente era il potere stesso a legittimare e persino incoraggiare i propri sudditi a commettere angherie, come nel caso di un editto della Serenissima Repubblica di Venezia che nel 1558 stabiliva che “li detti Cingani così homini come femmine” potevano “esser impune ammazati”, similmente ad una grida milanese del 1663 che precisava: “Ogni cittadino è libero di ammazzare gli zingari impune e di levar loro ogni sorta di robbe, di bestiame e denari che gli trovasse”.

“Una razza di delinquenti”

Questa persecuzione, costantemente affiancata da un apparato di leggende e pregiudizi contro gli “zingari”, era destinata ad attraversare i secoli, in quanto ogni potere dominante non avrebbe mai smesso di ritenere un pericolo per gli assetti sociali costituiti l'esistenza di gruppi umani “vaganti” indifferenti verso i confini nazionali, refrattari a sottomettersi alle leggi vigenti e all'obbligo del lavoro subordinato; d'altronde, anche il filosofo illuminista Immanuel Kant aveva affermato che “l'uomo del non luogo è criminale in potenza”.
Questa impostazione venne anche avvalorata e ammantata di scientificità attraverso le teorie del noto criminologo positivista Cesare Lombroso che, nel 1876, nel trattato L'uomo delinquente aveva descritto gli “zingari” come “l'immagine viva di una razza di delinquenti, e ne riproducono tutte le passioni e i vizi. Hanno in orrore (...) tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione, sopportano la fame e la miseria piuttosto che sottoporsi a un piccolo lavoro continuato; vi attendono solo quanto basti per poter vivere (...) sono ingrati, vivi e al tempo stesso crudeli (...). Amanti dell'orgia, del rumore, dei mercati fanno grandi schiamazzi; feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro; si sospettarono, anni orsono, di cannibalismo”. Analoga definizione di “razza vagabonda (...) per impulso congenito e non domato dall'azione della civiltà” si ritrova nel ponderoso saggio I vagabondi. Studio sociologico e giuridico, pubblicato da Eugenio Florian e Guido Cavaglieri tra il 1887 e il 1900.
Conseguentemente, contro rom e sinti venivano attuati provvedimenti repressivi utilizzati anche per colpire altri soggetti e categorie sociali quali disoccupati, vagabondi, donne immorali, operai scioperanti, ribelli sociali, anarchici e sovversivi in genere.
Agli inizi del Novecento, con la ridefinizione e il rafforzamento dei confini degli Stati-nazione europei, il carattere “eversivo” delle migrazioni transnazionali venne ulteriormente perseguito e osteggiato, nella convinzione che “nell'uomo inferiore il Nomadismo distrugge ogni idea di Patria” (Adriano Colocci, 1889). Così, nel 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, il giudice del Regno d'Italia, Alfredo Capobianco, nel saggio Il problema di una gente vagabonda in lotta con le leggi, si fece portavoce della linea più drastica contro Rom e Sinti, senzapatria per antonomasia: “Si liberi il nostro territorio da questa razza di stranieri vagabondi per i quali Noi riteniamo che la sorveglianza non sia mai eccessiva né infruttuosa”.
Con questi antecedenti giuridici e un trascorso di preconcetti secolari, l'apice dell'oppressione anti-zingara in Italia fu senz'altro raggiunto sotto il regime fascista: inizialmente attraverso l'applicazione di misure di polizia già esistenti e di nuove norme in materia di ordine pubblico. In base al Testo unico di Pubblica Sicurezza, erano infatti eseguiti provvedimenti di sicurezza – dall'ammonizione al confino – nei confronti delle “persone socialmente pericolose” designate come tali “per voce pubblica” quali vagabondi, oziosi, mendicanti e soggetti esercitanti mestieri girovaghi.
Successivamente, con le Leggi emanate nel 1938 il “problema zingaro” venne compreso nella politica di discriminazione razziale come appendice della “questione ebraica”, registrando un ulteriore inasprimento nel corso della Seconda guerra mondiale e poi la diretta complicità con il sistema nazista durante la Repubblica di Salò. Nel febbraio 1926, a titolo d'esempio, una direttiva del ministero dell'Interno segnalava infiltrazioni nel Regno di “zingari dediti al vagabondaggio e alla questua” richiamando gli uffici di Pubblica Sicurezza ad impedire il loro ingresso, così come per “saltimbanchi o simiglianti”, in carovana o isolatamente ed anche se muniti di regolare passaporto.
Un'altra circolare ministeriale ai prefetti nell'agosto dello stesso anno, ribadiva la necessità di “colpire nel suo fulcro l'organismo zingaresco” epurando il territorio nazionale dalle carovane di zingari per “la loro pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell'igiene pubblica”, con il conseguente ordine agli uffici di frontiera per il respingimento di gruppi nomadi.

Campi di concentramento. In Italia

Nel 1938, l'anno dell'introduzione in Italia delle Leggi “per la difesa della razza”, pur se, come precisato dall'antropologo di regime Guido Landra, “gli zingari costituiscono un problema importante, per quanto meno importante di quello ebraico”, si registrarono le prime retate su vasta scala con l'internamento di famiglie “zingare” in alcune località di Abruzzo, Calabria e Sardegna.
Va peraltro osservato che, sia all'interno del Manifesto della Razza che nelle Leggi razziali, per l'identificazione del soggetto “zingaro”, a differenza di quello “giudaico”, non furono utilizzati criteri pseudoscientifici per dimostrarne l'inferiorità e la pericolosità, ma piuttosto ci si affidò alla sua presunta evidenza esteriore, risultante dal caratteristico abbigliamento e dal suo comportamento “dedito al vagabondaggio”, nonché al latente e diffuso odio antizingaro di cui erano intrise le comunità e il senso comune.
L'unico supporto “scientifico” alla discriminazione razzista degli “zingari” risultò quello accreditato da Renato Semizzi, professore di Medicina sociale a Trieste e firmatario del Manifesto della razza, secondo il quale si trattava di un “popolo vagabondo, nomade, astuto, sanguinario e ladro, perseguitato e disprezzato, che vive d'inganno, di furti, di ripieghi, che esercita mestieri modesti e adatti alla vita irrequieta, perseguitata e dinamica, [che] ha acquistato delle qualità psicologiche di razza che possono chiamarsi ‘mutazioni di psicologia razziale'”.
A sostegno di questo ritratto razzista, va sottolineata la deleteria quanto pervasiva funzione svolta, anche allora, dalla stampa e dalla letteratura popolare nel veicolare illustrazioni, descrizioni e fatti di cronaca nera che offrivano al grande pubblico una torbida rappresentazione della realtà “zingara”, sempre in bilico tra pittoresco e criminalizzazione. Grazie proprio a questa costante e profonda opera di disinformazione, “lo stereotipo dello ‘zingaro' nomade, vagabondo, delinquente, ladro e asociale era infatti diffuso sia tra gli strati alti sia tra quelli bassi della popolazione italiana e quindi si trattava di un'opinione culturalmente condivisa e ben accetta” (Luca Bravi).
“Il sentiero in discesa che comincia dalla negazione dell'uguaglianza tra gli uomini – come avvertiva Primo Levi – finisce fatalmente nella perdita della libertà e nel lager”: infatti, dalla discriminazione al campo di concentramento, il passo è breve.
Fin dal 1937 – quindi, un anno prima delle Leggi razziali e tre dall'entrata in guerra dell'Italia – l'ispettore generale di polizia, Ercole Conti, aveva ricevuto l'incarico dal ministero dell'Interno di individuare località consone per impiantarvi campi per l'internamento “nelle contingenze belliche” di oppositori politici e categorie di “asociali” e, per quanto riguardava gli “zingari” italiani egli “indicò nelle isole di Stromboli e Filicudi e nel comune di Fontecchio negli Abruzzi i siti adatti per costituirvi un campo recintato costituito da baracche o tende della capienza di 130 o 140 persone, che dovevano essere sorvegliate dai carabinieri” (Amedeo Osti Guerrazzi).
Con l'entrata in guerra dell'Italia, l'11 settembre 1940 il ministero dell'Interno Bocchini dispose quindi il “rastrellamento e la concentrazione di zingari italiani e stranieri sotto rigorosa sorveglianza per porli in località adatte in ciascuna provincia che sia lontana da fabbriche o depositi esplosivi”, sia perché “commettono talvolta delitti gravi per natura intrinseca”, sia in quanto ritenuti “capaci di esplicare attività antinazionale”; un'ulteriore circolare ministeriale venne emanata in data 27 aprile 1941, avente ancora per oggetto “l'internamento degli zingari italiani”. Tale misura era stata anticipata sempre da Guido Landra, dopo aver compiuto una visita ufficiale in Germania, visitando tra l'altro il lager di Sachsenhausen, dove erano rinchiusi asociali e oppositori politici. Nella sua veste di capo dell'Ufficio studi sulla razza, fu infatti lui ad indicare, esplicitamente, il modello nazista: “Non avendo alcun dato per l'Italia, ci limiteremo a riportare alcune osservazioni compiute da Römer in Sassonia per incarico dell'Ufficio Politico Razziale del Partito Nazionalsocialista. Come scrive questo autore, indipendentemente dagli ebrei e dai loro meticci, vivono in Germania numerosi individui razzialmente molto diversi dal popolo tedesco. In primo luogo bisogna tener presente gli zingari e vivono talora in bande e talora invece dispersi in mezzo al resto del popolo (...) in maniera del tutto asociale, senza alcun mestiere preciso (...) In Germania è stata compiuta un'inchiesta ed è in progetto il concentramento di tutti gli zingari in una località particolare. Sarebbe auspicabile che un'inchiesta del genere fosse compiuta anche in Italia e che fossero presi i relativi provvedimenti”. Nel novembre successivo, ancora Landra, ormai al servizio del Minculpop, condannò possibili matrimoni tra gli italiani e “questi eterni randagi, privi in modo assoluto di senso morale”.

Quanti? Non si sa

Il regime fascista non tenne conto delle località indicate dallo zelante ispettore Conti, optando per altre soluzioni concentrazionarie. Infatti, i circa 50 campi d'internamento istituiti in territorio italiano furono generalmente “misti”, dove rom e sinti si trovarono rinchiusi assieme a antifascisti, ebrei e slavi, come a Boiano (Campobasso) e Tossicia (Teramo), Prignano (Modena), Perdasdefogu (Nuoro), Ferramonti di Tarsia (Cosenza); ma almeno uno fu riservato agli “zingari” presso il convento di San Bernardino ad Agnone (Campobasso) dove, tra l'altro, i carabinieri si resero responsabili di violenza sessuale nei confronti delle prigioniere. In numerosi casi ad essere internati erano interi gruppi familiari, come quello degli Hudorovich, comprendente sei persone, bambini compresi, ritenuti ostili al regime e quindi reclusi prima nel campo di Boiano e poi in quello di Agnone. All'interno dei campi, circondati dal filo spinato, le guardie fasciste esercitavano violenze di ogni sorta e le condizioni di vita erano penose: come descritto da Altiero Spinelli “divenne prima o poi un quadro abituale gli sventurati che frugavano qua e là tra i rifiuti e le immondizie, in cerca di avanzi di cibo e di mozziconi di sigarette”.
Tra il 1942 e il '44, si aggiunsero altri campi destinati a rinchiudere in prevalenza migliaia di civili sloveni e dalmati rastrellati come sospetti partigiani; ad esempio, nel campo di Tossicia, inizialmente allestito per detenere ebrei, apolidi e cinesi, nell'estate del 1942 furono deportati un centinaio di “zingari” rastrellati in Slovenia e tenuti in condizioni penose tanto che, dalla relazione scritta il 27 settembre 1943 dal maresciallo dei carabinieri di Tossicia per informare il locale Podestà sull'evasione in massa dei superstiti del campo, si apprende che questi erano fuggiti “senza produrre alcun rumore perché tutti privi di scarpe”.
Allo stato attuale degli studi, appare difficile fornire una stima attendibile dei rom e sinti italiani e di quelli deportati da Slovenia e Dalmazia internati nei campi di concentramento italiani rinchiusi; secondo alcune stime, complessivamente potrebbero essere stati seimila, dei quali circa mille vittime di violenze, denutrizione, malattie.
Un numero imprecisato venne invece trasferito nei lager nazisti, come nel caso di una ventina di deportati nel campo austriaco di Leckenback nel novembre 1941, in gran parte transitando per il famigerato campo di Gries a Bolzano. Emblematica pure la testimonianza del rom abruzzese Arcangelo Morelli, rinchiuso e torturato nel manicomio dell'Aquila divenuto il quartier generale della Gestapo.
Dopo l'8 settembre 1943, così come a Tossicia, anche dagli altri campi gli “zingari” poterono evadere assieme ai prigionieri – perlopiù comunisti slavi e anarchici italiani – ancora trattenuti, trovando rifugio sulle montagne dove in alcuni casi si unirono alle formazioni partigiane combattendo nella Resistenza.

Marco Rossi

Relazione presentata al convegno “Porrajmos. Lo sterminio nascosto”, in occasione del Giorno della Memoria, svoltosi a Livorno il 28 gennaio 2014, su iniziativa dall'Associazione d.Nesi/Corea.