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				 portfolio 
                  
                Haiti/Repubblica Dominicana 2 
                  
                testo e foto di Raúl Zecca Castel 
                    
                Dopo la pubblicazione, sullo scorso numero, 
                  del  dossier (prevalentemente 
                  fotografico) realizzato da Paolo Poce 
al confine tra Haiti e la Repubblica Dominicana, questa volta ci inoltriamo all'interno della Repubblica Dominicana per documentare la situazione degli immigrati clandestini haitiani, che lavorano come tagliatori di canna da zucchero. Il dossier è stato realizzato dal nostro collaboratore Raúl Zecca Castel.  
                 
                
                   
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                    |   Barracón del Batey Las Pajas  | 
                   
                 
                 
                  I prigionieri dello zucchero
                    
                Un antropologo italo/catalano è andato 
                  nella Repubblica Dominicana, tra i lavoratori clandestini provenienti 
                  dall'altra metà dell'isola, cioè da Haiti. Ecco 
                  la sua testimonianza scritta e fotografica. 
                
                   
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                    |   Bracciante in una piantagione 
                  di canna da zucchero  | 
                   
                 
                  Nascere ad Haiti, nell'80 
                  per cento dei casi, significa essere destinati a vivere sotto 
                  la soglia di povertà estrema. E nella migliore delle 
                  ipotesi, evidentemente, nemmeno molto a lungo. L'aspettativa 
                  di vita infatti supera di poco i 50 anni e la mortalità 
                  infantile è tra le più alte al mondo. Il tasso 
                  di disoccupazione si aggira intorno al 40 per cento e a quasi 
                  quattro anni dal terremoto che ha provocato più di 300mila 
                  morti lasciando orfani un milione di bambini, Haiti continua 
                  a essere il paese più povero dell'intero emisfero occidentale 
                  e negli ultimi posti della classifica Onu stilata in base all'Indice 
                  di sviluppo umano. Non c'è da sorprendersi, dunque, se 
                  sono migliaia gli haitiani che ogni anno decidono di lasciare 
                  la propria terra e i propri affetti per raggiungere la vicina 
                  Repubblica Dominicana con l'illusione di trovare oltre frontiera 
                  migliori condizioni di vita. 
                  Attraversare il confine, tuttavia, non è affatto semplice, 
                  soprattutto quando non si hanno documenti né tanto meno 
                  regolari permessi. È così che per molti ha inizio 
                  una sorta di calvario caribeño segnato dalla violenza 
                  e dal dolore. Il viaggio, che può durare diversi giorni 
                  di cammino, a volte anche più di una settimana, si fa 
                  in gruppi. A guidare i migranti nel loro pellegrinaggio della 
                  speranza sono trafficanti haitiani e dominicani, spesso con 
                  la complicità di agenti di polizia militare corrotti 
                  che puntualmente esigono el peaje, un vero e proprio 
                  pedaggio clandestino. E chi non ha i soldi per pagare viene 
                  rimandato indietro. “Abbiamo passato la frontiera per 
                  i monti, camminando...”, racconta Manil, un ragazzo di 
                  33 anni “...avevo i piedi consumati, grondavano sangue...io 
                  non sapevo che era così...ho pagato tanti soldi, 5mila 
                  pesos, per venire qui... io non sapevo, il tipo mi dice che 
                  venivo in autobus, ma non era vero, allora quando comincio a 
                  camminare io gli dico che le cose non stavano così, ridammi 
                  i miei soldi, gli dico, torno al mio paese, e lui dice di no, 
                  che stiamo arrivando... e abbiamo camminato ancora tre giorni... 
                  in tutto otto giorni, senza niente, bevendo solo acqua, senza 
                  mangiare...”. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Junior, Marcel, Gilbert e Francisco al rientro 
                  dopo una giornata di lavoro  | 
                   
                 
				 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Alcuni lavoratori approfittano dei carri 
                  trainati da un vecchio trattore per  raggiungere le piantagioni, 
                  spesso distanti diversi chilometri dai bateyes  | 
                   
                 
                 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Gruppo di bambini e bambine del Batey Uce  | 
                   
                 
                Stipati nei barracones 
                La maggior parte dei migranti haitiani non sa cosa li attende 
                  una volta superata la frontiera. Il sogno di un lavoro ben pagato 
                  e la fiducia in un nuovo futuro allontana le preoccupazioni 
                  rendendo sopportabili le sofferenze e gli abusi patiti durante 
                  il lungo viaggio. Ma è un sogno votato a infrangersi 
                  molto presto. Essere sprovvisti di documenti, infatti, espone 
                  i nuovi arrivati ai rischi della clandestinità, e in 
                  particolare allo sfruttamento da parte di datori di lavoro senza 
                  scrupoli, che facendo leva sulla paura di un rimpatrio forzato 
                  sottomettono i migranti a condizioni non troppo diverse da quelle 
                  cui furono costretti i loro antenati schiavi. Simbolo per eccellenza 
                  di questa cruda realtà sono i bateyes, piccoli 
                  agglomerati di baracche dispersi tra le immense piantagioni 
                  di canna da zucchero. Creati per ospitare i lavoratori durante 
                  la zafra, la stagione del raccolto, nel tempo, sono diventati 
                  vere e proprie comunità invisibili, baluardi della povertà 
                  e dell'emarginazione. Retaggio di quel che un tempo non troppo 
                  lontano furono luoghi simili a campi di concentramento, i bateyes 
                  costituiscono ancora oggi ghetti sociali ed economici riservati 
                  alla popolazione di origine haitiana. 
                  È qui che si consuma la tragedia umana di tanti lavoratori 
                  costretti a sopravvivere giorno dopo giorno in condizioni al 
                  limite della sopportazione e della dignità umane. Stipati 
                  gli uni sugli altri in quelli che chiamano barracones, 
                  uomini, donne e bambini condividono spazi angusti e fatiscenti, 
                  privi di finestre, energia elettrica ed acqua corrente, dormendo 
                  a terra o in improbabili letti a castello su logori materassi 
                  in gommapiuma. Sono i prigionieri dello zucchero, vittime impotenti 
                  di un sistema di lavoro basato sull'inganno e la rapina. 
                  Prima dell'inizio della stagione del raccolto, infatti, quando 
                  le diverse imprese dello zucchero sono in cerca di manodopera 
                  a basso costo, le promesse vendute ai lavoratori sono davvero 
                  allettanti: buoni salari, ferie pagate, premi di produzione, 
                  assistenza sociale, liquidazione, ecc. È così 
                  che in molti si illudono di un facile guadagno. La realtà, 
                  tuttavia, si rivela ben presto molto diversa. 
                  Le giornate nei bateyes cominciano alle 4 del mattino. I braccianti 
                  si svegliano che non è ancora l'alba per approfittare 
                  dei rari momenti di frescura che caratterizzano queste latitudini. 
                  Non c'è tempo per la colazione. Si devono affilare i 
                  machetes, un'operazione delicata e minuziosa che si protrae 
                  per lunghi munti. Dopodiché ci si procura dell'acqua 
                  e si attende il pullman dell'impresa. Prima delle 6 le piantagioni 
                  che circondano i bateyes vengono invase da un piccolo esercito 
                  di haitiani che ingaggiano la loro guerra quotidiana con la 
                  canna da zucchero. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Junior a lavoro  | 
                   
                 
				 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Wilson mostra le mani consumate dal lavoro  | 
                   
                 
                
                  L'attività dei picadores, i tagliatori, è 
                  un lavoro duro, sfiancante e pericoloso. Presto il sole raggiunge 
                  lo zenit e l'afa diventa insopportabile. Le polveri che si alzano 
                  sotto i fendenti dei machetes filtrano nel naso, negli occhi 
                  e nella gola. Il sudore bagna i vestiti e la fame divora lo 
                  stomaco. Non è raro così che per un momento di 
                  disattenzione o per le forze che d'improvviso vengono a mancare 
                  si compia qualche errore. In una concezione della vita estremamente 
                  fatalista, i braccianti mostrano le loro ferite di battaglia 
                  senza enfasi, con la noncuranza di chi è rassegnato all'inevitabile. 
                  Si lavora ininterrottamente anche per 10-12 ore al giorno, molto 
                  spesso persino la domenica, tagliando quanta più canna 
                  possibile. Non esiste alcun contratto scritto, men che meno 
                  un salario fisso. Si viene pagati a cottimo, in base alle tonnellate 
                  di canna accumulate, ma il prezzo di una tonnellata non è 
                  chiaro a nessuno e i conti non tornano mai: “loro ti danno 
                  quello che vogliono”, ripetono tutti quanti “...non 
                  importa quanto hai lavorato, ti danno quello che vogliono perché 
                  tanto non puoi reclamare...perché se reclami non lavori...e 
                  se non lavori non mangi”. La logica è perversa, 
                  ma il sillogismo inattaccabile. Il risultato è il silenzio. 
                  Così i braccianti accettano qualsiasi cifra venga loro 
                  data, sottomettendosi alla totale arbitrarietà di un 
                  sistema di ricatto che trova la sua ragion d'essere nella mancanza 
                  di reali alternative possibili. Qui, difatti, la canna da zucchero 
                  rappresenta una monocoltura esclusiva e totalizzante, concentrata 
                  nelle mani di poche imprese consorziate che si spartiscono un 
                  ricco oligopolio. 
                
                   
                      | 
                    Willneville vive nel Batey Consuelito. 
                       
                       
                      Ha 25 anni ed è arrivato nella Repubblica Dominicana  
                      quando ne aveva solo 16. Da allora non è mai più 
                      tornato ad Haiti. | 
                   
                  
                      | 
                    André 
                      vive nel Batey Chicarrones. 
                       
                      Dice di avere 92 anni e continua a tagliare canna da zucchero 
                      perché  ancora non riceve alcuna pensione nonostante 
                      più di 50 anni di lavoro.  
                      Anche i suoi figli sono picadores, tagliatori. | 
                   
                 
                 
                  Tra 500.000 e 1.000.000 di clandestini 
				  
                Quando i braccianti rientrano al batey, allora, tutto quello 
                  che hanno guadagnato è l'equivalente di pochi dollari, 
                  appena sufficienti per una ciotola di riso e una manciata di 
                  fagioli, quanto basta – forse – per tirare avanti 
                  un altro giorno. Eppure non sono pochi i lavoratori che per 
                  mantenere famiglie spesso troppo numerose e per far fronte a 
                  spese impreviste, perlopiù medicinali, finiscono per 
                  indebitarsi al negozio degli alimentari dando inizio a un circolo 
                  vizioso che con il passare del tempo si fa sempre più 
                  difficile da rompere, come catene invisibili strette ai piedi 
                  di nuovi schiavi. 
                  Con il passare del tempo, infatti, la realtà si manifesta 
                  in tutta la sua durezza e delle promesse ricevute a inizio zafra 
                  resta solo il rimprovero di un'eco lontana, eterno ritorno di 
                  una memoria collettiva impunemente tradita. Salari infami, condizioni 
                  di lavoro disumane, assicurazioni mediche fittizie, pensioni 
                  inesistenti, malattie professionali, raggiri, minacce, violenze: 
                  sono queste le tristi vicende che scandiscono il ritmo del tempo 
                  nei bateyes, dove i diritti non trovano cittadinanza. Forse 
                  anche perché non trovano cittadini.
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Barracón 
                        del Batey Caimito  | 
                   
                 
                 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Stanza 
                        di un barracón del Batey Doña Ana.  
                        In meno di 10m² possono dormire anche sette-otto 
                        braccianti  | 
                   
                 
                Il problema dei documenti, infatti, nei bateyes ma non solo, 
                  è una questione di rilevanza fondamentale, soprattutto 
                  per i nuovi nati, figli di genitori haitiani, in territorio 
                  dominicano. Fino al 2010 la costituzione nazionale prevedeva 
                  l'acquisizione della cittadinanza sia tramite ius sanguinis 
                  sia tramite ius soli, ma a partire da quell'anno una 
                  nuova legge ha sancito che il diritto di sangue sarebbe stato 
                  il solo e unico criterio. Poco male, se non fosse che è 
                  stato deciso di applicare tale legge in forma retroattiva a 
                  cominciare dal 1929, di fatto, denazionalizzando e rendendo 
                  apolide migliaia di persone, con tutte le conseguenze del caso: 
                  impossibilità di accedere all'istruzione, ai servizi 
                  sanitari, al mondo del lavoro, in sintesi, alla vita civile 
                  del paese. Di qui, una situazione altamente discriminante e 
                  pericolosa, figlia di politiche minoritarie ultranazionaliste 
                  che si alimentano di antichi rancori storici, ma che hanno un'incidenza 
                  fortissima sulla vita materiale di intere famiglie. 
                
                   
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                    |   Il centro paga di Batey Nuevo dove ogni sabato i lavoratori  
                  ricevono il loro misero salario  | 
                   
                 
                 Si ipotizza che il numero di haitiani nella Repubblica Dominicana 
                  oscilli tra i 500mila e il milione, ma si tratta di stime difficili 
                  da verificare proprio per il fatto che la maggior parte di queste 
                  persone non gode di uno status giuridico regolare. Una situazione, 
                  evidentemente, che favorisce l'insorgere e il perpetuarsi di 
                  “zone protette”, come i bateyes, che da un lato 
                  garantiscono ai braccianti la sopravvivenza senza il timore 
                  di essere deportati e rimpatriati, proprio perché, dall'altro 
                  lato, costituiscono una preziosa riserva di manodopera ad alto 
                  rendimento comodamente sfruttabile. 
                  Giunti con l'illusione di poter lavorare quei sette-otto mesi 
                  che dura la stagione del raccolto per poi tornare ad Haiti dalle 
                  proprie famiglie con qualche soldo in tasca, i braccianti finiscono 
                  per trascorrere la propria vita nei bateyes, condannati a pagare 
                  un prezzo altissimo per aver ingenuamente creduto nel sogno 
                  di un futuro migliore. Risparmiare anche solo pochi dollari 
                  per il viaggio di ritorno è un privilegio di pochi fortunati 
                  che, tuttavia, a malincuore spesso decidono di restare, per 
                  l'imbarazzo e la vergogna di ripresentarsi a mani vuote dopo 
                  tanto tempo. 
                
                   
                      | 
                    Bimba 
                      del Batey Tabacón.    
                      Qui non c'è energia elettrica. I bambini e le bambine 
                      imparano presto  
                      che la scuola non è un diritto ma un privilegio. 
                      Per questo il destino  
                      porterà i primi nei campi con i genitori e le seconde 
                      ad aiutare le madri 
                      nelle faccende domestiche. | 
                   
                   
                      | 
                    Joy 
                      vive nel Batey Amistad. 
                       
                      Ha 62 anni e cinque figli. Come quasi tutti i tagliatori 
                      di canna da  
                      zucchero, con il passare del tempo, sta diventando cieco 
                      a causa  
                      delle polveri che si alzano sotto i fendenti del machete 
                      e che  
                      filtrano negli occhi. | 
                   
                 
                Zafra dopo zafra, anno dopo anno, le speranze di rivedere i 
                  propri cari vanno affievolendosi e cedono il posto a una sorta 
                  di rassegnata abitudine. Così, nella scura foschia che 
                  precede l'alba, come in una guerra senza fine, machete in mano, 
                  ci si prepara ancora una volta ad affrontare la canna da zucchero 
                  che indifferente a tutto continua a crescere.  
                 Raúl Zecca Castel
                 
                   
                      | 
                    Felix ha 62 anni.    
                      Mi dice di aver cominciato a tagliare canna da zucchero 
                      quando ne aveva appena 11.  Come gran parte dei lavoratori 
                      lamenta condizioni di ricatto davanti alle quali il bivio  
                      è la scelta tra sfruttamento da un lato e morte per 
                      fame dall'altro:  “Se tu parli... loro dicono il 
                      contrario... è un veleno... meglio stare zitti, come 
                      un muto,  non parlare... non bisogna parlare... per questo 
                      non parlo né per primo, né per  secondo né 
                      per terzo... ma mica perché sono stupido, capisci? 
                      Visto che loro ballano  allora ballo anch'io... se si fermano 
                      mi fermo anch'io... ma non è perché uno le 
                      cose  non le vede... gli occhi vedono e la bocca sta chiusa... 
                      ma ci sono tante cose che non  vanno bene... un esempio: 
                      se io dico che quel mucchio di canna è più 
                      pesante di una  tonnellata loro non mi fanno caso e mandano 
                      qui un signore di quelli che stanno a  prendere aria in casa...e 
                      io che invece sto qui a sudare rompendomi le braccia... 
                      e  voglio mangiare... e se io protesto dicendo che quel mucchio 
                      di canna è più pesante...  be', lasciamo stare, 
                      non devo parlare... ma perché quello che comanda 
                      è lui... questo  
                      è il problema... Allora cosa succede... che il pesatore 
                      per noi non va bene... ma per  l'impresa invece sì 
                      che va bene! Perché per ogni tonnellata di canna 
                      lui ci guadagna...  
                      perché 
                      visto che noi siamo sotto di loro allora loro fanno quel 
                      che vogliono... per  questo gli occhi vedono ma la bocca 
                      sta chiusa... ma idioti non siamo!... non si può  
                      dire niente perché la canna è loro, la terra 
                      è loro, noi lavoriamo per loro e dobbiamo  accettare 
                      quello che dicono loro... non va bene... ti sembra?”. | 
                   
                 
				 
                 
                 
                
                   
                    | Le foto di Raúl Zecca Castel sono state 
                      considerate dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti 
                      (Usdol) per emettere una valutazione critica rispetto alle 
                      condizioni di lavoro dei braccianti nelle piantagioni di 
                      canna da zucchero della Repubblica Dominicana. Il dossier, 
                      datato 27 settembre 2013, sostiene che la Repubblica Dominicana 
                      ha violato gli accordi del Trattato di Libero Commercio 
                      Cafta-Dr sottoscritto nel 2004, poiché non rispetta 
                      il capitolo relativo alle direttive sul lavoro (salari minimi, 
                      ore di lavoro, sicurezza e salute, età minima per 
                      l'impiego di bambini, lavoro forzato o obbligatorio). L'indagine 
                      del Dipartimento del Lavoro era stata sollecitata nel 2011 
                      dal missionario anglo-spagnolo Christopher Hartley, già 
                      espulso dalla Repubblica Dominicana nel 2007, dopo anni 
                      di continue pressioni e minacce per la sua incessante lotta 
                      a favore dei diritti dei lavoratori haitiani. A oggi, gli 
                      Stati Uniti sono il principale acquirente di zucchero dominicano 
                      per il quale godono di una quota preferenziale. | 
                   
                 
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