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				 Banda Bonnot.2 
                  
                I banditi rossi 
                  
                di Errico Malatesta 
                    
                Una radicale e motivata critica della Banda Bonnot e più in generale delle “espropriazioni” e dell'illegalismo è alla base dell'articolo che Malatesta scrisse un secolo fa e che qui riproponiamo con il titolo originario. Una presa di posizione innanzitutto (ma non solo) etica che non risente del tempo trascorso. Anzi. 
                 
                  Può sembrare troppo tardi 
                  per parlarne. Ma in realtà l'argomento è sempre 
                  di attualità, poiché si tratta di fatti e di discussioni 
                  che, come si son ripetuti nel passato, si ripeteranno purtroppo 
                  ancora nell'avvenire, fino a quando perdureranno le cause che 
                  li producono. 
                  Alcuni individui hanno rubato, e per rubare hanno ucciso; ucciso 
                  a caso, senza discernimento, chiunque si trovava essere un inciampo 
                  tra loro ed il denaro agognato, ucciso degli uomini a loro ignoti, 
                  dei proletari vittime quanto loro e più di loro della 
                  cattiva organizzazione sociale. 
                  In fondo niente di più che volgare: sono i frutti amari 
                  che maturano normalmente sull'albero del privilegio. Quando 
                  tutta la vita sociale è maculata di violenza e di frode, 
                  quando chi nasce povero è condannato ad ogni sorta di 
                  sofferenze e di umiliazioni, quando il denaro è mezzo 
                  necessario per conseguire la soddisfazione dei propri bisogni 
                  ed il rispetto della propria personalità, e per tanta 
                  gente non è possibile procurarselo con un lavoro onesto 
                  e degno, non vi è veramente di che meravigliarsi se di 
                  tanto in tanto sorgono dei poveri insofferenti di giogo, i quali 
                  s'ispirano alla morale dei signori, e non potendo rubare il 
                  lavoro altrui colla protezione dei gendarmi, e non potendo, 
                  per rubare, organizzare delle spedizioni militari o vender veleni 
                  come sostanze alimentari, assassinano direttamente, a colpi 
                  di pugnale e di rivoltella. 
                  Ma quei “banditi” si dicevano anarchici; e ciò 
                  ha dato ai loro attentati briganteschi un'importanza ed un significato 
                  simbolico che per se stessi eran lungi dall'avere. 
                  La borghesia profitta dell'impressione che quei fatti fanno 
                  sul pubblico per denigrare l'anarchismo e consolidare il suo 
                  dominio. La polizia, che spesso ne è la sobillatrice 
                  nascosta, se ne serve per aumentare la sua importanza, soddisfare 
                  il suo istinto di persecuzione e di strage, e riscuote il prezzo 
                  del sangue in denaro e promozioni. E d'altra parte molti dei 
                  nostri compagni, poiché si parlava di anarchia si son 
                  creduti obbligati a non rinnegare chi anarchico si diceva: molti, 
                  abbacinati dal pittoresco della faccenda, ammirati del coraggio 
                  dei protagonisti non han più visto che il fatto nudo 
                  della ribellione alla legge, dimenticando di esaminare il perché 
                  ed il come. 
                  A me pare che per regolare la condotta nostra e consigliare 
                  quella degli altri sia necessario esaminare le cose con calma, 
                  giudicarle alla stregua delle nostre aspirazioni, e non dare 
                  alle impressioni estetiche più peso ch'esse non abbiano. 
                  Coraggiosi erano certamente quegli uomini; ed il coraggio (che 
                  poi forse non è altro che una forma di buona salute fisica) 
                  è indubbiamente una bella e buona qualità; ma 
                  esso può servire al bene come al male. Vi sono stati 
                  uomini coraggiosissimi tra i martiri della libertà, come 
                  ve ne sono stati tra i più odiosi tiranni; ve ne sono 
                  tra i rivoluzionari; come ve ne sono tra i camorristi, tra i 
                  soldati, tra i poliziotti. D'abitudine, e non a torto, si chiamano 
                  eroi quelli che rischian la vita per fare del bene, e si chiamano 
                  prepotenti o, nei casi più gravi, bruti insensibili e 
                  sanguinari quelli che il coraggio adoperano per fare del male. 
                  Né negherò che quegli episodi furono pittoreschi 
                  e, in un certo senso, esteticamente belli. Ma riflettano un 
                  poco i poetici ammiratori del “gesto bello”. 
                  Un'automobile lanciata a tutta corsa con uomini armati di pistole 
                  automatiche, che spargono il terrore e la morte lungo il cammino, 
                  è cosa più moderna certo, ma non più pittoresca 
                  di un masnadiero ornato di piume ed armato di trombone che ferma 
                  e svaligia una carovana di viandanti, o del barone vestito di 
                  ferro, su cavallo bardato, che impone la taglia ai villani: 
                  – e non è cosa migliore. Se il governo italiano 
                  non avesse avuto che generali da operetta ed organizzatori ignoranti 
                  e ladri, sarebbe riuscito forse a fare in Libia una qualche 
                  bella operazione militare: ma sarebbe per questo la guerra meno 
                  criminosa e moralmente brutta? 
                
                   
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                    |   Errico Malatesta  | 
                   
                 
Ma sono quelle le idee anarchiche? 
                 Eppure quegli uomini non erano, o non eran tutti, dei malfattori 
                  volgari! 
                  Tra quei “ladri” vi erano degl'idealisti disorientati; 
                  tra quegli “assassini” vi erano delle nature di 
                  eroi, che eroi avrebbero potuto essere se fossero vissuti in 
                  altre circostanze ed avessero ricevuto l'afflato di altre idee. 
                  Giacché è certo, per chiunque li ha conosciuti, 
                  che quegli uomini si preoccupavano di idee, e che, se reagirono 
                  in modo feroce contro l'ambiente ed in quel modo cercarono di 
                  soddisfare le loro passioni ed i loro bisogni, fu in gran parte 
                  per l'influenza di una speciale concezione della vita e della 
                  lotta. 
                  Ma sono quelle le idee anarchiche? 
                  Possono quelle idee, per quanto si voglia sforzare il senso 
                  delle parole, confondersi coll'anarchismo, o invece sono coll'anarchismo 
                  in contraddizione evidente? 
                  Questa è la questione. 
                  Anarchico è, per definizione, colui che non vuole essere 
                  oppresso e non vuole essere oppressore; colui che vuole il massimo 
                  benessere, la massima libertà, il massimo sviluppo possibile 
                  di tutti gli esseri umani. 
                  Le sue idee, le sue volontà traggono origine dal sentimento 
                  di simpatia, di amore, di rispetto verso tutti gli umani: sentimento 
                  che deve essere abbastanza forte per indurlo a volere il bene 
                  degli altri come il proprio, ed a rinunziare a quei vantaggi 
                  personali che domandano, per essere ottenuti, il sacrifizio 
                  degli altri. 
                  Se non fosse così perché dovrebbe egli essere 
                  nemico dell'oppressione e non cercare invece di divenire oppressore? 
                  L'anarchico sa che l'individuo non può vivere fuori della 
                  società, anzi non esiste, in quanto individuo umano, 
                  se non perché porta in sé i risultati dell'opera 
                  d'innumerevoli generazioni passate, e profitta durante tutta 
                  la sua vita del concorso dei suoi contemporanei. 
                  Egli sa che l'attività di ciascuno influisce, diretta 
                  o indirettamente, sulla vita di tutti, e riconosce perciò 
                  la grande legge di solidarietà, che domina nella società 
                  come nella natura. E siccome egli vuole la libertà di 
                  tutti, bisogna che egli voglia che l'azione di questa necessaria 
                  solidarietà invece di essere imposta e subita, inconsciamente 
                  ed involontariamente, invece di essere lasciata al caso e di 
                  essere sfruttata a vantaggio di alcuni ed a danno di altri, 
                  diventi cosciente e volontaria e si esplichi quindi ad eguale 
                  benefizio di tutti. 
                  O essere oppressi, o essere oppressori, o cooperare volontariamente 
                  al maggior bene di tutti. Non vi è altra alternativa 
                  possibile; e gli anarchici naturalmente sono, e non possono 
                  non essere, per la cooperazione libera e voluta. 
                  Non ci si venga qui a fare della “filosofia” e a 
                  parlarci di egoismo, altruismo e simili rompicapi. Noi ne conveniamo: 
                  tutti siamo egoisti, tutti cerchiamo la nostra soddisfazione. 
                  Ma è anarchico colui che la massima sua soddisfazione 
                  trova nel lottare per il bene di tutti, per la realizzazione 
                  di una società in cui egli possa trovarsi, fratello tra 
                  i fratelli, in mezzo a uomini sani, intelligenti, istruiti, 
                  felici. Chi invece può adattarsi, contento, a vivere 
                  tra schiavi e trarre profitto dal lavoro di schiavi, non è, 
                  non può essere anarchico. 
                  Vi sono degli individui forti, intelligenti, appassionati, con 
                  grandi bisogni materiali o intellettuali, che essendo stati 
                  dalla sorte messi tra gli oppressi vogliono a qualunque costo 
                  emanciparsi e non ripugnano dal diventare oppressori: individui 
                  che trovandosi coattati nella società attuale prendono 
                  a disprezzare ed odiare ogni società, e sentendo che 
                  sarebbe assurdo voler vivere fuori della collettività 
                  umana, vorrebbero sottoporre al loro volere, alla soddisfazione 
                  delle loro passioni, tutta la società, gli uomini tutti. 
                  Costoro a volte, quando sanno di letteratura, sogliono chiamarsi 
                  superuomini. Essi non s'imbarazzano di scrupoli; essi vogliono 
                  “vivere la loro vita”; irridono alla rivoluzione 
                  e ad ogni aspirazione avveniristica, vogliono godere oggi, a 
                  qualunque costo ed al costo di chiunque siasi; essi sacrificherebbero 
                  tutta l'umanità per un'ora (c'è chi ha detto proprio 
                  così) di “vita intensa”. 
                  Essi sono dei ribelli; ma non sono anarchici. Essi hanno la 
                  mentalità, i sentimenti dei borghesi mancati e, quando 
                  riescono, diventano borghesi di fatto, e non dei meno cattivi. 
                  Noi possiamo qualche volta, nelle vicende della lotta, trovarceli 
                  a lato; ma non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo confonderci 
                  con loro. Ed essi lo sanno benissimo. 
                  Ma molti di essi amano dirsi anarchici. È vero – 
                  ed è deplorevole. 
                                Influenze di polizia e intellettuali alla moda 
Noi non possiamo impedire che uno prenda il nome che vuole, né possiamo d'altra parte abbandonare noi il nome che comprende le nostre idee e che logicamente e storicamente ci appartiene. Quel che possiamo fare è di vigilare perché non vi sia confusione, o ve ne sia il meno possibile. 
Indaghiamo però come è avvenuto che individui dalle aspirazioni così opposte alle nostre hanno preso un nome che è la negazione delle loro idee e dei loro sentimenti. 
Io ho accennato più sopra a losche manovre di polizia, e mi sarebbe facile provare come certe aberrazioni, che si son volute far passare per anarchiche, trassero la loro prima origine dalle sentine poliziesche di Parigi, per suggestione dei capi di polizia Andrieux, Goron e simili. 
Questi poliziotti, quando l'anarchismo incominciò a manifestare ed acquistare importanza in Francia, ebbero l'idea geniale, degna davvero dei più astuti gesuiti, di combattere il nostro movimento dal di dentro. Mandarono in mezzo agli anarchici degli agenti provocatori che si davano l'aria di superrivoluzionari, ed abilmente travisavano le idee anarchiche, le rendevano grottesche e ne facevano una cosa opposta a quello che esse veramente sono. Fondarono giornali pagati dalla polizia; provocarono atti insensati e malvagi e li valutarono qualificandoli anarchici; compromisero dei giovani ingenui che poi, naturalmente, vendettero; e riuscirono colla compiacente complicità della stampa borghese a persuadere una parte del pubblico che l'anarchico era quello che essi rappresentavano. Ed i compagni francesi hanno buone ragioni per credere che queste manovre poliziesche durino ancora, e non sieno estranee agli avvenimenti che han dato occasione a quest'articolo. Qualche volta le cose vanno forse oltre dell'intenzione del provocatore – ma in ogni modo la polizia ne profitta lo stesso. 
A queste influenze di polizia bisogna aggiungerne altre; più pulite ma non meno nefaste. In un momento in cui degli attentati impressionanti avevano attirato l'attenzione del pubblico sulle idee anarchiche, dei letterati di talento, professionisti della penna sempre alla ricerca del soggetto alla moda e del paradosso sensazionale, si misero a far dell'anarchismo. E, siccome erano borghesi, dalla mentalità, dall'educazione, dalle ambizioni borghesi, fecero dell'anarchismo che serviva bene per dare un brivido voluttuoso alle signorine fantastiche ed alle signore ristucche, ma aveva poco da fare col movimento emancipatore delle masse, che l'anarchismo vuol provocare. Erano persone di talento, scrivevano bene, dicevano spesso cose che nessuno capiva e... furono ammirati. O che forse non vi è stato un momento in cui in Italia si diceva che Gabriele D'Annunzio era diventato socialista? 
Quegl'“intellettuali” dopo poco ritornarono quasi tutti all'ovile borghese a godersi il prezzo della notorietà acquistata, manifestandosi quali in realtà non avevano mai cessato di essere, e cioè avventurieri letterari in cerca di reclame; ma il male era fatto. 
Tutto questo in sostanza avrebbe prodotto poco danno se non vi fosse al mondo che gente dalle idee chiare, che sa nettamente che cosa vuole ed agisce in conseguenza. Ma invece vi è purtroppo un gran numero di persone dall'animo incerto, dalla mente confusa, che oscillano continuamente da un estremo all'altro. 
Così vi sono quelli che si dicono e si credono anarchici, ma quando commettono delle cattive azioni (che sarebbero poi spesso perdonabili in considerazione del bisogno e dell'ambiente) se ne glorificano dicendo che i borghesi fanno così e peggio. È vero; ma perché allora si credono diversi e migliori dei borghesi? 
Essi attaccano i borghesi perché rubano agli operai una buona parte del prodotto del suo lavoro, ma non trovano nulla da opporre se uno ruba all'operaio quel poco che il borghese gli lascia. 
Essi si indignano perché il padrone per aumentare il suo profitto fa lavorare un uomo in condizioni malsane, ma sono pieni di indulgenza per chi dà un colpo di coltello a quell'uomo per levargli pochi soldi. 
Hanno schifo per l'usuraio che sottrae a un poveraccio una lira d'interesse per dieci lire che gli ha prestato, ma trovano commendevole o quasi che uno prenda a quello stesso poveraccio dieci lire su dieci, che non gli ha prestate, passandogli una moneta falsa. 
E siccome sono dei deboli di spirito, naturalmente si credono uomini superiori ed ostentano un profondo disprezzo per “le masse abbrutite” e si credono nel diritto di far male ai lavoratori, ai poveri, ai disgraziati, perché questi “non si ribellano e quindi sostengono la società attuale”. Io conosco un capitalista che si compiace, quando sta alla birreria, di dirsi socialista e magari anarchico, ma non cessa per questo di essere nella sua officina uno dei più abili sfruttatori: padrone duro, avaro, superbo. E non lo nega, ma usa giustificare la sua condotta in un modo originale per un padrone. Egli dice: “I miei operai meritano il trattamento che faccio loro, giacché vi si sottomettono; essi sono nature di schiavi, essi sono la forza che sostiene il regime borghese, ecc ecc.”. È proprio il linguaggio di coloro che vogliono dirsi anarchici, ma non sentono simpatia e solidarietà per gli oppressi. Ma conclusione sarebbe che i loro veri amici sono i padroni, ed i loro nemici le masse diseredate. 
Ma allora perché cianciare di emancipazione e di anarchismo? Che vadano coi borghesi, e ci lascino in pace. 
                                Né furto né assassinio 
								
                Mi sono troppo allungato per un articolo di giornale, e bisogna 
                  concludere. 
                  Concluderò dando un consiglio a coloro che “vogliono 
                  vivere la loro vita” e non si curano della vita degli 
                  altri. 
                  Il furto, l'assassinio sono mezzi pericolosi ed in generale 
                  poco produttivi. Per quella via il più delle volte si 
                  riesce solo a consumare la vita nelle carceri o a perderla sul 
                  patibolo – specialmente se uno ha l'imprudenza di attirare 
                  su di sé l'attenzione della polizia dicendosi anarchico 
                  e praticando gli anarchici. Come affare, gli è un affare 
                  magro! 
                  Quando si è intelligenti, energici e senza scrupoli si 
                  può facilmente far la propria strada in mezzo alla borghesia. 
                  Tentino dunque di diventare borghesi, col furto e coll'assassinio, 
                  s'intende, ma legali. Faranno un affare migliore; e, se è 
                  vero che hanno delle simpatie intellettuali per l'anarchismo, 
                  si risparmieranno il dispiacere di far del male alla causa che 
                  è cara al loro intelletto. 
                 Errico Malatesta 
                   
                  (da “Volontà” di Ancona, N. 2 del 15 giugno 
                  1913)  |