 Fantascienza 
                  e pedagogia/ 
                   Fobie, magie, resistenze e utopie 
                Quando c'era il futuro (Franco Angeli, 2013) di Daniele 
                  Barbieri e Raffaele Mantegazza esplora i confini e i punti di 
                  contatto fra pedagogia e fantascienza. Ma ha senso parlare di 
                  science fiction nel 2013? Esistono chiavi di lettura 
                  valide anche per l'impegno politico-sociale dell'oggi? Ne ho 
                  parlato con Daniele Barbieri. 
                   
                  Perché avete scritto un libro all'incrocio fra 
                  pedagogia e fantascienza? 
                  «È la prima volta che io e Raffaele Mantegazza 
                  ci incrociamo, anche se abbiamo passioni e interessi comuni. 
                  Lui usa la fantascienza nelle sue lezioni all'università 
                  e immagino che constati spesso il fenomeno che io osservo lavorando 
                  nelle scuole o altrove. 
                  Immaginiamo di affrontare un nodo drammatico: può essere 
                  la violenza sessuale, l'apatia politica, le molte facce del 
                  razzismo e la stessa definizione di umanità, le catastrofi 
                  ecologiche in corso e il tentativo di uscirne, e così 
                  via. Se si prende il problema di petto, cercando stimoli nella 
                  situazione data (cioè la scuola che, salvo rarissime 
                  eccezioni, versa in condizioni di agonia) quasi mai si suscita 
                  una passione autentica. Al massimo si registra un apprendimento 
                  di tipo passivo. Persino i drammi vicini a noi in un contesto 
                  scolastico sembrano ancora più lontani di Leopardi o 
                  Boccaccio. 
                  Sarebbe complesso spiegare il perché in due parole ma 
                  la narrazione fantascientifica, il laboratorio che gioca a immaginare 
                  futuri, la provocazione di ragionare a partire da qualcosa assolutamente 
                  estraneo alla nostra attuale esperienza, possono invece spalancare 
                  più facilmente porte che di solito sono chiuse.» 
                   
                  Cos'è oggi la fantascienza? 
                  «La migliore fantascienza secondo me è un grimaldello 
                  per uscire da un presente pigro e politicamente ingabbiato, 
                  soprattutto oggi. Credo che per Raffaele Mantegazza la pedagogia 
                  (e dentro di essa la fantascienza) sia uno degli strumenti per 
                  contrastare l'oppressione. È chiaro che alcuni autori 
                  e alcune autrici hanno una formazione scientifica e questo influenza 
                  tutto ciò che scrivono ma è altrettanto palese 
                  che la maggioranza dei libri di fantascienza nasce da persone 
                  che non hanno la minima infarinatura scientifica. Ma tutti e 
                  tutte – chi scrive come chi legge – devono fare 
                  i conti con due questioni che non mi stanco di ripetere. La 
                  prima è che da un secolo circa la scienza e la sua cuginetta 
                  tecnologia hanno invaso le vite delle persone prima di una parte 
                  del mondo e poi dappertutto. Impensabile dunque che ciò 
                  non influenzi anche il nostro immaginario. 
                  Seconda questione: noi viviamo in una società scientifico-tecnologica 
                  senza avere la minima formazione, senza le conoscenze di base 
                  per capirne leggi e regole. Quindi in una sorta di tecno-magia 
                  che rende impossibile il controllo, persino la comprensione 
                  di come i poteri usano la conoscenza scientifica e le sue applicazioni.» 
                   
                  C'è qualcosa di nuovo nella fantascienza contemporanea? 
                  «Si vorrebbe morta la science fiction ma è 
                  viva (pur se con gli inevitabili acciacchi di chi vive in una 
                  fase storica depressiva). Da poco Urania ha portato in edicola 
                  una trilogia di Robert Saywer. La storia inizia quando nella 
                  rete internet nasce Webmind, entità intelligente e incorporea. 
                  Il canadese Saywer ne esplora soprattutto il versante positivo 
                  e ottimista. Non è un ingenuo, ha ben presente rischi 
                  e contraddizioni ma questa trilogia comunica che la parte migliore 
                  dell'umanità potrebbe trovare un alleato non previsto. 
                  Se il “meticciato” fra una rete intelligente altamente 
                  evoluta e il genere umano ci porta su una strada di liberazione 
                  ne ricaveremo non solo meno guai e più giustizia ma anche 
                  felicità, se si può usare questa parola così 
                  difficile. Resto assai sorpreso che molte persone considerino 
                  pericoloso seguire Sawyer su questa strada. A parte che io non 
                  considero il novecento portatore solamente di catastrofi, per 
                  me questa visione cupa è un freno all'azione, una “museruola” 
                  al pensare. Di fronte a una crisi mondiale inventata, come quella 
                  che viviamo, è molto difficile portare le persone a constatare 
                  che non esiste soltanto una ricchezza economica enorme da redistribuire 
                  secondo giustizia, che non esiste soltanto la possibilità 
                  di risolvere la maggior parte delle tragedie mondiali fermando 
                  il meccanismo che produce e alimenta le guerre: c'è anche 
                  una ricchezza sociale diffusa in tutto il mondo, intelligenze 
                  ed esperienze che il capitalismo dilapida, anzi perseguita. 
                  Se non prendiamo atto di questa enorme potenzialità non 
                  troveremo ragioni di opporci davvero a chi vuole lasciare tutto 
                  com'è.»
                  Andrea Mameli 
                  linguaggiomacchina.it 
                   
                   
                    Desiderare
                   la libertà 
                È uscito recentemente per elèuthera Fantasie 
                  rivoluzionarie e zone autonome di Saul Newman (Milano 2013, 
                  pp.84, € 8,00). Ne pubblichiamo la prefazione all'edizione 
                  italiana. 
                   
                  Due anni fa elèuthera diede alle stampe uno dei miei 
                  saggi, raccolto insieme a contributi di Simon Critchley, Miguel 
                  Abensour, Todd May e altri, in un volume sull'anarchismo e la 
                  filosofia radicale. Esprimo la mia gratitudine nei confronti 
                  dei curatori che hanno promosso la pubblicazione di un altro 
                  dei miei scritti, e sono onorato che il mio lavoro sia stato 
                  reso accessibile ancora una volta al pubblico italiano. Elèuthera 
                  è un editore che ammiro da tempo per il suo impegno sperimentale 
                  e d'avanguardia rivolto alla filosofia europea, alla teoria 
                  politica radicale e in particolar modo all'anarchismo. L'anarchismo, 
                  sia come tradizione eretica di pensiero, movimenti e lotte, 
                  sia come etica e politica di ispirazione anti-autoritaria, è 
                  stato per lungo tempo l'asse portante del mio lavoro; il suo 
                  impulso critico e il desiderio di estendere le possibilità 
                  della libertà umana sono stati le mie linee guida e hanno 
                  costituito l'orizzonte del mio pensiero. Anzi, mi è impossibile 
                  pensare criticamente alla sfera del politico senza confrontarmi 
                  con le domande e le sfide fondamentali poste dall'anarchismo. 
                  La pratica politica, e in particolare quella radicale, deve 
                  continuamente misurarsi con le forme dell'anti-politica, un 
                  ambito decostruttivo con derive anarchiche in cui le identità 
                  fisse, le istituzioni, le relazioni sociali sono radicalmente 
                  destabilizzate. In effetti, questa visione dell'anarchia ha 
                  sempre ossessionato, in un modo o nell'altro, la teoria politica; 
                  per alcuni si incarna in una concezione distopica dello stato 
                  di natura, per altri (gli stessi anarchici, ad esempio) esprime 
                  le possibilità di un'organizzazione sociale cooperativa 
                  senza la necessità di uno Stato sovrano. In entrambi 
                  i casi, l'orizzonte anarchico pone una sfida cruciale a tutte 
                  le forme politiche basate sulla sovranità. Sono in molti 
                  oggi a parlare di una “fase anarchica” quando si 
                  tratta di descrivere le forme contemporanee di attivismo politico 
                  radicale. Dalla nascita del movimento globale anti-capitalista 
                  alla fine degli anni novanta, fino ai recenti movimenti di occupazione 
                  apparsi tutto il mondo (nei quali includerei l'occupazione di 
                  piazza Tahrir al Cairo, poiché tale è stata la 
                  sua ispirazione), abbiamo visto nuove forme di azione orizzontale 
                  o “a rete” che sembrano, se non ispirate direttamente 
                  dai principi anarchici, almeno un loro chiaro riflesso. Inoltre, 
                  si è verificato un netto passaggio dai modelli politici 
                  avanguardisti di tipo marxista a più diffuse forme di 
                  partecipazione e di soggettività post-identitarie, eterogenee, 
                  il cui obiettivo non è più quello di appropriarsi 
                  delle redini del potere statale, quanto piuttosto di dissolvere 
                  questo stesso potere e di creare politiche, pratiche e spazi 
                  autonomi che lo oltrepassino. Il mio lavoro sulla teoria politica 
                  radicale risponde, e cerca di attribuire un senso, proprio a 
                  questi sviluppi. Che ci chiedono in modo forte una riconsiderazione 
                  dell'anarchismo, anzi un ritorno all'anarchismo. 
                  Ma quale tipo di ritorno è possibile nella condizione 
                  attuale? Questa è una domanda complessa. Da un lato, 
                  vi è sempre stato un impulso insurrezionale, una volontà 
                  di resistere (che Michel Foucault avrebbe definito una “qualità 
                  plebea”, un'energia capace di arginare il potere resistendo 
                  alla produzione di corpi docili, e che Michail Bakunin avrebbe 
                  invece definito “istinto di rivolta”), ovvero un 
                  desiderio libertario che ovviamente trascende l'anarchismo, 
                  ma di cui la tradizione anarchica è diventata l'espressione 
                  più schietta e coerente. Quella che ha trasformato l'istinto 
                  di rivolta in una teoria, in una filosofia, in un'etica, in 
                  una scienza sociale e soprattutto in una politica. Qualsiasi 
                  tipo di rinnovamento dell'anarchismo deve prendere come punto 
                  di partenza fondamentale il suo principio etico: la resistenza 
                  al potere. Dall'altro lato, prendere l'anarchismo sul serio 
                  significa valutarlo onestamente in quanto tradizione di pensiero 
                  e di pratiche forgiata da precise coordinate filosofiche e fondata 
                  su alcuni assiomi riguardanti il comportamento umano, la conoscenza, 
                  la morale e le relazioni sociali. Se dobbiamo riflettere oggi 
                  sull'importanza dell'anarchismo, non possiamo permetterci di 
                  essere ciechi verso le sue tensioni, le sue aporie, i suoi limiti, 
                  i suoi passaggi contraddittori, i suoi filoni di pensiero eterogenei 
                  e talora contrastanti. 
                  Dobbiamo ricostruire una genealogia dell'anarchismo nel senso 
                  di Friedrich Nietzsche e di Foucault. Questo comporta qualcosa 
                  di più che passare il nostro tempo a spluciare gli archivi; 
                  piuttosto, si tratta di riconoscere che la nostra eredità 
                  comune è anche “un insieme di faglie, di crepe, 
                  di strati eterogenei che la rendono instabile e, dall'interno 
                  o dal basso, minacciano il fragile erede”. Pertanto, ho 
                  sostenuto che l'anarchismo dovrebbe prendere in considerazione 
                  alcuni sviluppi teorici che inizialmente gli pongono alcuni 
                  problemi, tanto da sembrare addirittura in contrasto con esso, 
                  ma che allo stesso tempo lo costringono a pensare entro certe 
                  condizioni, sia teoriche sia politiche (ad esempio i limiti 
                  del potere, del discorso, i regimi di verità e di conoscenza, 
                  l'inconscio e così via). 
                  Mi riferisco qui alle importanti implicazioni della teoria psicoanalitica 
                  e post-strutturalista per la riflessione politica, ed è 
                  proprio nel tentativo di fare una sintesi tra questi elementi 
                  e l'anarchismo (cercando di condurli a sostenersi l'un l'altro, 
                  a pensarsi l'uno attraverso l'altro) che è possibile 
                  parlare di un post-anarchismo. Questo è una definizione 
                  che ha causato molti fraintendimenti (e forse, con il senno 
                  di poi, la scelta del termine non è stata così 
                  felice), ma con essa non si è mai voluto suggerire che 
                  l'anarchismo si sia estinto oppure sia stato superato. Il prefisso 
                  «post» non vuole significare un essere dopo, ma 
                  al contrario invita a una rinegoziazione dell'anarchismo, a 
                  un tentativo di rivitalizzare ed esplorare la sua rilevanza 
                  per le lotte contemporanee, per i movimenti e per la sperimentazione 
                  politica. Come il post-modernismo non è il seguito della 
                  modernità ma piuttosto una riflessione critica sui suoi 
                  limiti, e allo stesso modo (come ha suggerito Foucault) la critica 
                  dell'Illuminismo fa proprio lo spirito critico dell'Illuminismo 
                  stesso, così il post-anarchismo può essere considerato 
                  come una sorta di apparato che propone una riflessione sui limiti 
                  dell'anarchismo, ma collocandosi al suo interno. Il post-anarchismo 
                  è quindi un tentativo di rinnovare teoria e pratica anarchiche. 
                  Si tratta di un modo di intendere la politica radicale in termini 
                  di contingenza e divenire, attraverso attività autonome 
                  e forme di azione diretta. I temi analizzati nel presente saggio, 
                  originariamente scritto per una rivista dedicata alla teoria 
                  della pianificazione2, rappresentano il tentativo di pensare 
                  ai vari modi in cui il post-anarchismo potrebbe riformulare 
                  la nostra concezione dello spazio politico. La questione dello 
                  spazio (spazi fisici, spazi sociali, ma anche spazi psicologici 
                  e paesaggi) è presa raramente in considerazione nella 
                  teoria politica radicale, ma è sempre lì presente 
                  e ha un impatto incommensurabile sulla nostra percezione, in 
                  ogni lotta politica, di ciò che è possibile. Se, 
                  come ha mostrato Foucault, la disposizione degli spazi fisici 
                  è sempre una questione politica, parimenti si potrebbe 
                  sostenere che la politica è sempre una questione spaziale. 
                  La politica radicale presuppone certi immaginari dimensionali, 
                  una certa mappatura di territori passati, presenti, futuri. 
                  La stessa rivoluzione avviene in un luogo particolare: il pensiero 
                  rivoluzionario concepisce un settore strategico, una disposizione 
                  di forze e di relazioni di potere, un obiettivo centrale da 
                  sequestrare o distruggere. Non si può fare a meno di 
                  pensare a simboli e punti di riferimento fisici come la Bastiglia 
                  o il Palazzo d'Inverno. In questo saggio, il mio obiettivo è 
                  non solo quello di indagare se sia possibile una concezione 
                  alternativa dello spazio politico radicale, ma anche quello 
                  di esplorare (con il supporto della teoria psicoanalitica lacaniana 
                  e del pensiero di Cornelius Castoriadis) alcune delle fantasie 
                  fondamentali che sono alla base delle pratiche politiche radicali. 
                  È attraverso l'anarchismo – o meglio il post-anarchismo 
                  – che possiamo ottenere una diversa comprensione dello 
                  spazio politico, una concezione in cui pratiche, stili di vita 
                  e forme di resistenza autonome, anziché disperdersi nella 
                  grande narrazione della Rivoluzione, concorrono a costituire 
                  una pluralità di luoghi. Se guardiamo agli squat, ai 
                  centri sociali, alle cooperative di ogni genere, ai media alternativi, 
                  alle comuni, sono tutte realtà che possono essere viste 
                  come sperimentazioni spaziali autonome, situate sia all'interno 
                  sia all'esterno del “sistema”. Questo aspetto è 
                  importante anche per il nostro modo di pensare alla progettazione 
                  degli spazi urbani e alle modalità con cui vengono prese 
                  le decisioni di pianificazione: se come attività intrapresa 
                  da un'élite tecnocratica di specialisti, o come forma 
                  di attivismo autonomo e democratico intrapreso dalla gente comune 
                  in contesti locali. Ora che tanti spazi pubblici e servizi sono 
                  stati privatizzati (passando dal controllo dello Stato al controllo 
                  aziendale), è il momento di ripensare gli spazi comuni, 
                  in opposizione a questo processo, come luoghi radicalmente aperti 
                  e non controllati. Riformulata così, la pianificazione 
                  può diventare un'attività insurrezionale. Di conseguenza, 
                  diventa qui fondamentale l'idea di insurrezione piuttosto che 
                  quella di Rivoluzione. Questo passaggio può essere inteso 
                  in molti modi, ed è irrinunciabile per il pensiero anarchico 
                  e la sua politica. Seguendo Max Stirner (e in qualche misura 
                  anche Gustav Landauer), con insurrezione intendo un tipo di 
                  trasformazione micropolitica in cui i nostri soggettivi legami 
                  psicologici con il potere vengono effettivamente sciolti. Non 
                  ci può essere alcuna trasformazione sociale radicale 
                  se essa non avviene innanzi tutto al livello del desiderio individuale 
                  e collettivo, il che comporta di imparare a desiderare in modo 
                  diverso: ossia a desiderare la nostra libertà, piuttosto 
                  che la nostra attuale servitù.
                  Saul Newman 
                   
                   
                   Un prete, i gay, 
                  l'Arcigay, l'Aids 
                “Don Marco mi è stato padre, fratello maggiore... 
                  Penso a don Marco quando leggo l'Ecclesiaste. Persino la sua 
                  celebrazione dell'eros era quanto di più lontano da un'idea 
                  consumistica, strumentale della sessualità ci potesse 
                  essere, anche quando si è allontanato dal sacerdozio, 
                  persino quando sembrava rinnegare il sacerdozio, non sapeva 
                  far altro che celebrare la vita. Lui aveva il carisma di questo 
                  speciale sacerdozio. Il suo è stato il dio che danza 
                  la vita...”. Così Nichi Vendola ricorda don Marco 
                  Bisceglia chiamato il “don Enzo Mazzi del Sud”, 
                  in quanto animatore di una di quelle comunità di base 
                  che si svilupparono spontaneamente pure all'interno della chiesa 
                  italiana fra gli anni sessanta-settanta. Ma il nome di don Marco 
                  oggi è legato anche a importanti e difficili battaglie 
                  civili: da fondatore dell'Arcigay nazionale fu colui che, più 
                  di altri, si profuse per legittimare i diritti degli omosessuali 
                  e per strutturare uno spazio di lotta che – come ammette 
                  lo stesso Nichi Vendola (che lavorò a Roma gomito a gomito 
                  con il sacerdote) – potesse obbligare i partiti al confronto 
                  su determinate tematiche. 
                  A don Bisceglia, che non nascose la sua omosessualità 
                  e dedicò tutta la vita e il sacerdozio ai poveri fino 
                  a essere sospeso a divinis da una chiesa molto pre-concilio, 
                  il giornalista Rocco Pezzano ha dedicato Troppo amore ti 
                  ucciderà (Edigrafema Edizioni, 2013, pp. 320, € 
                  16,00). Il libro è una appassionante biografia, che ripercorre 
                  le tappe dell'impegno politico e civile del prete. 
                  Don Marco nasce nel 1925 a Lavello, in provincia di Potenza, 
                  studia dai gesuiti e diventa discepolo in Spagna di padre Díez-Alegría, 
                  uno dei più grandi teologi del novecento, sostenitore 
                  della teologia della liberazione e voce in netto stridore con 
                  quei vertici della chiesa cattolica che, secondo lui, avevano 
                  tradito Gesù. Ordinato sacerdote nel 1963, don Marco 
                  l'anno successivo viene nominato parroco del Sacro Cuore di 
                  Lavello. Qui inizia a portare avanti una pastorale da curato 
                  di strada, cercando di rendere vivo nella vita di tutti i giorni 
                  il verbo delle Scritture. Promossa da don Bisceglia, nasce a 
                  Lavello una Comunità di base che si farà portavoce 
                  di un certo dissenso e malcontento che era andato maturando 
                  anche tra i cattolici. Sempre in prima fila a combattere per 
                  i diritti della sua gente, don Marco si fa portavoce di un Cristo 
                  umile, che si incontra da una parte come “brezza leggera” 
                  e dall'altra in tutti gli uomini che soffrono. 
                  Per questo suo sentire a portare la croce più sulle spalle 
                  che sul petto e stare a fianco delle rivendicazioni e delle 
                  proteste della sua gente, verrà rinviato in giudizio 
                  nel 1972. Troppo scomodo, don Bisceglia è soggetto a 
                  continui richiami dalla Curia, mentre a Lavello c'è chi 
                  vede dannoso il legame che ha stretto coi i fedeli che frequentano 
                  il Sacro Cuore. Tanto dannoso che pure i giornali nazionali 
                  cominceranno a tendere a interessarsi a lui, fino al definitivo 
                  allontanamento da parte del vescovo. La sua uscita di scena 
                  però non sarà facile: il 25 ottobre del 1978 dovrà 
                  arrivare a Lavello un consistente drappello di poliziotti e 
                  carabinieri per porre fine alla protesta in chiesa dei fedeli, 
                  che non vogliono che il loro parroco venga messo alla porta. 
                  Don Bisceglia andrà via da Lavello con il cuore affranto 
                  per il distacco dalla famiglia (in particolare dall'amata sorella 
                  Anita), dalla sua umile gente, dai quei giovani che avevano 
                  visto in lui un punto di riferimento. Si trasferirà a 
                  Roma, dove troverà accoglienza e lavoro e, con l'Arci, 
                  inizierà le sue lotte per i diritti dei gay. Trascinatore 
                  di folle e intelligenza vivacissima, don Marco nella capitale 
                  frequenterà i radicali di Marco Pannella (che lo volle 
                  candidato alle legislative nel 1979, ma i 6000 consensi non 
                  furono sufficienti per farlo eleggere) e i movimenti vicini 
                  alla sinistra radicale, dediti a portare avanti le sue stesse 
                  battaglie per i diritti civili. Finché, a metà 
                  degli anni ottanta, si perdono le sue tracce. 
                  Don Bisceglia ritornerà alla sua chiesa negli ultimi 
                  anni di vita (morirà di Aids nel 2002), tant'è 
                  che il Vaticano gli riconsegnerà la facoltà di 
                  poter dir messa, ma il sacerdote ritrovato non sarà più 
                  quello della parrocchia del Sacro Cuore, scomodo e scandaloso. 
                  Sarà, per don Marco un momento di riflessione profondo, 
                  in cui fare i conti con le proprie controversie e complessità. 
                  Sarà il tempo della preghiera e della meditazione su 
                  una vita apparsa, in tutti i suoi risvolti, intensissima e appassionante. 
                  Come sono appassionanti le pagine che Rocco Pezzano passa in 
                  dono ai lettori sulle “tre vite di don Marco Bisceglia”.
                  Mimmo Mastrangelo 
                   
                   
                    A 
                  fumetti,
                   contro l'inquinamento 
                Carlo Gubitosa e Giuliano Cangiano (Kanjano), autori del libro 
                  dal titolo ILVA. Comizi d'acciaio (Edizioni BeccoGiallo, 
                  2013, pp. 192, € 12,00) narrano, tramite l'arte del fumetto, 
                  un viaggio inedito negli ultimi cinquant'anni di industria siderurgica, 
                  in cui si racconta il “male oscuro dell'inquinamento”, 
                  attraverso storie di vita e di morte all'ombra dell'acciaio; 
                  storie di scontri tra “Davide e Golia”: cittadini 
                  e lavoratori si trovano a lottare contro politica, malaffare, 
                  industria e grandi sindacati; storie di sfruttamento del clima, 
                  dell'ambiente, del territorio, in nome di un'illogica, sfrenata 
                  ed egoistica speculazione produttiva. 
                  Il caso Taranto, come molte altre realtà lavorative e 
                  operaie, vede i diritti alla salute e alla vita soppiantati 
                  e violati dalla ricerca del massimo profitto dei padroni, votati 
                  al sistema capitalistico, all'ordine militare sovranazionale 
                  e mondiale, per il becero ricatto neoliberista tra lavoro o 
                  salute, imposto dagli ingranaggi di potere, dai poteri forti, 
                  da una politica locale connivente, corrotta. I cittadini e gli 
                  ecopacifisti attivisti di Taranto, tramite l'associazionismo 
                  ambientalista, da anni lottano contro il mostro dell'acciaio, 
                  contro il siderurgico infernale che emette sostanze tossiche 
                  (e non solo nel quartiere Tamburi) e nel frattempo cittadini, 
                  lavoratori e operai continuano a morire di inquinamento industriale, 
                  perché a Taranto è elevatissimo il tasso epidemiologico 
                  di incidenza tumorale. L'associazione pacifista e ambientalista 
                  PeaceLink, in primis, a Taranto, ha sollevato un autentico 
                  terremoto politico-giudiziario, una contrapposizione netta tra 
                  partiti (politica partitica) e magistratura. Il gip di Taranto, 
                  Patrizia Todisco, con il provvedimento di sequestro, nella sentenza 
                  del luglio 2012, dichiara esplicitamente: “con la salute 
                  la vita non si può mercanteggiare”. I poteri forti 
                  (partiti, sindacati, chiesa) troppo spesso sono rimasti in silenzio. 
                  Con l'omertà si è nascosta la verità, già 
                  nota da tempo, fatta di inquinamento, malattia, morte. 
                  Come attivista Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) 
                  mi sento in dovere di constatare che i veri partigiani contemporanei 
                  sono tutti gli ecopacifisti attivisti contro le cosiddette Goi, 
                  le grandi opere inutili e dannose, presenti, non solo in Italia, 
                  ma anche in Europa e nel mondo (come il Tav, il Muos ecc.); 
                  i magistrati che lottano contro la mafia e i poteri forti e 
                  tutti coloro che portano avanti cause giuste e oneste, dove 
                  vengono negati e calpestati i diritti umani, la verità 
                  e la giustizia, dove la magistratura si fa garante della legalità 
                  e della tutela dei principi cardine della Costituzione (come 
                  il diritto alla salute), dove le altre istituzioni sono invece 
                  spesso omertose e corrotte. 
                  “Ma il mondo ha proprio bisogno di tutto questo acciaio?”. 
                  Tale quesito pone, nella conclusione del libro, Alessandro Marescotti, 
                  presidente di PeaceLink. “Sembra che senza la produzione 
                  di acciaio dell'Ilva debbano crollare l'Italia, l'Europa e il 
                  mondo intero. (...)Ma è davvero così?”. 
                  In realtà la Commissione Europea parla di una produzione 
                  eccessiva. Le grandi opere vengono finanziate dai poteri forti, 
                  al fine di alimentare un mercato dell'acciaio ormai al tracollo. 
                  Ma è giunta l'ora che il sistema economico del grande 
                  capitale si renda conto del proprio collasso e della necessità 
                  di investire, al contrario, sui beni comuni, come la pace e 
                  l'ambiente, quali risorse principali della nostra comune umanità, 
                  da cui derivano altre priorità consequenziali, come la 
                  salute, la cultura, l'istruzione: la vita nella sua autentica 
                  essenza! 
                  È proprio questo il messaggio del libro di Gubitosa e 
                  Kanjano: un grido forte di disperazione di tutti gli oppressi, 
                  di tutti gli abitanti dei Sud del mondo schiacciati dalle bieche 
                  logiche di mercato, dallo sfruttamento delle risorse energetiche. 
                  Un inno alla vita, un urlo di protesta per rivendicare gli inalienabili 
                  diritti a un'esistenza serena e felice, contro tutte le manovre 
                  impositive dettate dai poteri forti, dallo strapotere economico 
                  dei mercati dell'alta finanza, dai padroni dell'acciaio, dai 
                  signori della guerra. 
                 Laura Tussi 
                   
                   
                    Biologia, 
                  etica hacker
                   e informazione 
                Alessandro Delfanti, sociologo dei nuovi media all'Università 
                  degli studi di Milano, ricercatore presso la McGill University 
                  di Montreal, ha da poco pubblicato per Elèuthera Biohacker. 
                  Scienza aperta e società dell'informazione (pp.120, 
                  € 10,00). 
                   
                  Il tuo libro è stato pubblicato prima in inglese, 
                  questa versione italiana sembra un po' diversa, ci vuoi spiegare 
                  quali sono le differenze e come nasce? 
                  «Il libro nasce dalla tesi di dottorato che ho fatto in 
                  Scienza e società all'Università Statale di Milano. 
                  Essendo stato anche all'estero l'ho scritta in inglese, pubblicare 
                  il libro in inglese mi consente di raggiungere lettori non solo 
                  italiani. Per quel che riguarda l'edizione italiana, l'idea 
                  di fare una versione ridotta, ma anche un po' trasformata, è 
                  nata per capire se questo tema poteva raggiungere un pubblico 
                  più ampio, composto non solo da chi si occupa di queste 
                  cose come ricercatore ma anche da chi è interessato alla 
                  cultura libera, all'open source e al rapporto tra scienza e 
                  società, senza essere per forza un addetto ai lavori. 
                  È un'edizione più accessibile, il pubblico accademico 
                  può leggere quella in inglese.» 
                   
                  Il titolo a cosa fa riferimento? Cosa vuol dire biohacker? 
                  «La definizione biohacker è utilizzata come termine 
                  per far capire che l'argomento del libro ruota intorno all'idea, 
                  che ho cercato di descrivere, che le culture hacker e quelle 
                  legate all'open source e al software libero stanno contaminando 
                  la ricerca scientifica. Temi, pratiche e alcune caratteristiche 
                  del movimento hacker si stanno diffondendo tra chi fa ricerca 
                  scientifica, in particolare biologia. Il libro presenta casi 
                  molto diversi, tra cui quello di alcune comunità che 
                  usano questo termine per descriversi “Siamo hacker della 
                  biologia”. 
                  Questi gruppi sono composti da persone che non lavorano all'interno 
                  delle mura della scienza, non lavorano nelle università 
                  o in qualche casa farmaceutica ma cercano di fare ricerca biologica 
                  in modo autonomo, autodidatta e indipendente dalle istituzioni. 
                  È la cosiddetta biologia “fai da te”. Poi 
                  ci sono i casi di ricercatori più tradizionali, che lavorano 
                  nel settore pubblico, come Ilaria Capua, una ricercatrice italiana, 
                  e di coloro che lavorano invece nel settore privato ma che condividono 
                  la stessa spinta a condividere le informazioni.» 
                   
                  Nel caso della cosiddetta biologia “fai da te” 
                  o D.I.Y. (do it yourself) o da garage, nel libro accenni al 
                  fatto che in realtà si tratta di un fenomeno che non 
                  sta producendo molte scoperte innovative o molti risultati scientificamente 
                  rilevanti. Negli anni '70 e '80, nei garage avvenivano delle 
                  cose importanti, mi riferisco a ciò che è stato 
                  lo sviluppo dei personal computer e alla nascita del movimento 
                  open source. Secondo te stiamo assistendo a qualcosa di simile? 
                  «Una risposta sul futuro non sono sicuro di averla. In 
                  questo momento le persone e i gruppi che hanno aperto laboratori 
                  indipendenti, in cui si può andare e sperimentare con 
                  la biologia, non stanno producendo sapere di livello paragonabile 
                  a quello di chi fa ricerca nelle istituzioni scientifiche. Le 
                  attrezzature sono costosissime, non è facile aprire un 
                  laboratorio che possa competere con quelli delle università. 
                  Nel libro cito una frase di Bill Gates che dice “Se avessi 
                  diciott'anni oggi, farei hacking della biologia”, prospettando 
                  un futuro di ragazzi che nel loro garage cambiano un'industria 
                  e cambiano un settore economico, come è successo con 
                  i computer negli anni '70. 
                  Io non so cosa succederà, quello che è interessante 
                  è che chi fa biologia in questo modo, con delle piccole 
                  comunità di hacker della biologia, può non avere 
                  delle competenze tecniche molto elevate ma contribuisce a creare 
                  una cultura scientifica nuova, diffusa, fatta di partecipazione 
                  e di una volontà di comprendere i meccanismi della scienza. 
                  Come si fa un esperimento? Come funzionano le istituzioni? Come 
                  si mette in piedi un laboratorio? Questioni tecniche e sociali. 
                  Da questo punto di vista è interessante e divertente. 
                  Per ora manca la possibilità tecnica di competere con 
                  altri laboratori e manca una cultura critica che renda questo 
                  settore paragonabile a quello dell'informatica, dove gli hacker 
                  presentano anche una volontà di cambiare l'industria 
                  del software e del computer. In molti casi, soprattutto negli 
                  Stati Uniti, più che opporsi e cercare di cambiare le 
                  dinamiche di potere su cui si reggono le industrie informatiche 
                  o della ricerca, c'è l'idea che si possa contribuire 
                  a una nuova industria.» 
                  La privatizzazione della vita 
                  Una parte del libro è dedicata proprio a questo 
                  tema: come l'impresa scientifica sia cambiata negli ultimi vent'anni 
                  rispetto a ciò che è stata nel '900. Sono tre 
                  le figure che profili: quella del ricercatore universitario, 
                  libero e indipendente, quella del ricercatore che lavora per 
                  le imprese private, e si destreggia tra i brevetti, e quella 
                  più recente del ricercatore che ha fatto propria l'etica 
                  hacker. Metti bene in luce l'ambivalenza di queste figure e 
                  quanto siano sfumati i loro contorni.  
                  «Questa è uno dei punti principali che cerco di 
                  sviluppare nel libro. Da una parte la questione della privatizzazione 
                  della vita: imprese private che fanno ricerca per brevettare 
                  i risultati, chiuderli, renderli inaccessibili e usarli solo 
                  per il profitto dell'impresa invece di condividerli; questa 
                  dinamica è in un certo senso cambiata, il brevetto non 
                  è più l'unico strumento che le imprese possono 
                  adoperare. 
                  La cosa interessante della scienza aperta di oggi è che 
                  presenta questa ambivalenza che nell'informatica è un 
                  dato di fatto da tanto tempo. L'open source può essere 
                  un modello di rottura capace di cambiare i modelli del capitalismo, 
                  come nel caso del free software, ma può essere anche 
                  una forma di innovazione sfruttata dalle imprese.»
  
                  Su questo argomento proprio Elèuthera aveva pubblicato, 
                  ormai qualche anno fa, Open non è free del collettivo 
                  Ippolita che spiegava queste dinamiche. Etica hacker, vuol dire 
                  tante cose e al suo interno si possono rinvenire aspetti diversi 
                  come il perseguimento di istanze libertarie e la ricerca del 
                  profitto e del successo privato.  
                  «Sì. Questi modelli possono tranquillamente diventare 
                  modelli di accumulazione di profitti. E così sta succedendo 
                  anche nella ricerca scientifica. Questo non vuol dire che non 
                  esistono più i brevetti, a volte è conveniente 
                  privatizzare, altre invece condividere ma essere poi in grado 
                  di raccogliere più velocemente, e meglio degli altri, 
                  i frutti della condivisione: per esempio fornendo servizi invece 
                  che vendendo informazioni. 
                  L'altro tema è il ruolo del singolo scienziato all'interno 
                  di questa dinamica nuova. La cosa interessante è che 
                  gli scienziati che decidono di condividere le informazioni possono 
                  avere fini molto diversi; possono avere scopi liberali: permettere 
                  l'accesso all'informazione anche ai paesi poveri (un tema classico 
                  della scienza aperta), oppure possono agire per scopi di profitto, 
                  quindi farlo perché questo permette di raccogliere finanziamenti 
                  da diverse istituzioni o permette di raccogliere innovazioni 
                  che vengono dalla rete e non solo dall'interno dell'azienda.» 
                   
                  Queste due dimensioni coesistono perfettamente, anzi sono 
                  quasi complementari: più diffondi dati che possono essere 
                  liberamente elaborati e più è possibile realizzare 
                  un profitto economico se hai una struttura che te lo permette. 
                  Spesso si pensa all'open access e a tutte le battaglie sull'informazione 
                  libera come battaglie di frontiera di pratiche libertarie.  
                  Questo è sicuramente vero ma d'altra parte ci sono 
                  grossi gruppi economico-finanziari che non hanno nessuna difficoltà 
                  a sfruttare il lavoro volontario di una comunità per 
                  poi confezionare il prodotto e venderlo a suo nome ricavandoci 
                  un profitto privato.  
                  «Quello che fanno i movimenti per l'accesso aperto o per 
                  la libertà d'informazione, secondo me è sacrosanto. 
                  Fa parte di un ideale libertario, ma in alcuni casi semplicemente 
                  liberale, di una democrazia basata sull'accesso all'informazione. 
                  Quindi niente di quello che scrivo toglie che tutto questo sia 
                  vero. Anzi lo ribadisco più volte. Io stesso sono un 
                  attivista dei movimenti per la scienza aperta e la cultura libera, 
                  quindi sono assolutamente a favore di tutto ciò e penso 
                  sia importante. Questo non toglie che nei momenti in cui questi 
                  fenomeni aumentano di importanza, le imprese sono in grado di 
                  trovare il modo di sfruttare anche la condivisione e non solo 
                  la privatizzazione.» 
                  Condivisione delle informazioni e sfida alle istituzioni 
                  
                Nel libro citi tre casi esemplari. Uno è quello 
                  di John Craig Venter, uno quello di Ilaria Capua e per finire 
                  quello di Salvatore Iaconesi. Tre casi molto differenti che 
                  permettono di capire molte cose. La storia di Venter è 
                  emblematica del legame tra ricerca libera e profitto economico. 
                  «Sì, prendo in considerazione questi tre casi perché 
                  sono esemplari per mostrare, tra le differenze che li caratterizzano, 
                  alcuni tratti comuni: la volontà di condividere le informazioni 
                  e il rifiuto delle burocrazie delle istituzioni; per scopi e 
                  con metodi molto diversi, però. Nel caso di Capua abbiamo 
                  una visione liberale della ricerca, per cui l'accesso delle 
                  informazioni deve essere garantito a più ricercatori 
                  possibili in più paesi possibili, perché permette 
                  di sviluppare in modo più efficiente la ricerca con ricadute 
                  sociali importanti (un tema classico dell'open access). Nel 
                  caso di Venter, il tipo di informazioni raccolte non sono più 
                  semplicemente privatizzabili e poi vendibili. È più 
                  interessante capire quali servizi fornire su quei dati, quindi 
                  condividerli permette di raccogliere capitali di provenienza 
                  diversa e di sviluppare un modello differente, assolutamente 
                  votato al profitto.» 
                   
                  Crea servizi per leggere i dati. 
                  «Sì. Questo non significa che Venter non abbia 
                  modelli di privatizzazione, mantiene un equilibrio tra momenti 
                  o tipi di ricerca nei quali l'importante è brevettare 
                  e altri casi in cui è meglio condividere e poi cercare 
                  di raccogliere le innovazioni che vengono da tutta la comunità 
                  di ricercatori. 
                  Il caso di Iaconesi è molto diverso perché non 
                  fa ricerca scientifica. Anche in questo caso però c'è 
                  la volontà di aprire e condividere le informazioni, nel 
                  suo caso la sua cartella medica, facendo qualcosa che le istituzioni 
                  della medicina non permettono o non favoriscono. Un caso molto 
                  diverso, vi si può leggere il sogno di una ricerca medica 
                  open source capace di trovare cure alle malattie anche tramite 
                  la condivisione delle informazioni. Quante più persone 
                  possono accedere a quelle informazioni, tante più persone 
                  possono partecipare interpretandole e magari riuscendo a risolvere 
                  un problema medico. Il suo caso, per molti versi diverso dagli 
                  altri citati, ha dei punti di convergenza: condivisione delle 
                  informazioni e sfida alle istituzioni. 
                  Ritengo che il potere sull'informazione sia una delle questioni 
                  più importanti nella nostre società. Chi produce, 
                  controlla e raccoglie i profitti che provengono dall'informazione? 
                  È importante, anche per un attivista della cultura libera, 
                  avere sempre un punto di vista critico: spingere per l'apertura 
                  delle informazioni non è sempre un'attività sufficiente 
                  per andare nella direzione auspicata, in realtà mette 
                  in campo dinamiche complesse: non apre soltanto nuovi spazi 
                  di autonomia ma anche nuove forme di sviluppo economico per 
                  le imprese.» 
                 Marco Liberatore 
                   
                   
                    1970/
                   Cinque giovani anarchici calabresi. Morti. 
                Quando nel 2001 usciva il libro di Fabio Cuzzola Cinque 
                  anarchici del Sud. Una storia negata, la vicenda legata 
                  alla morte di cinque compagni calabresi viveva solo nel dolore 
                  dei familiari e nel ricordo dei compagni che avevano vissuto 
                  l'irripetibile stagione del '68. Da quel momento in poi si è 
                  aperto un cammino che, attraverso le più svariate forme 
                  di comunicazione e arte, ha contribuito a fare conoscere anche 
                  fuori dal movimento anarchico questa vicenda, che oggi è 
                  patrimonio della storiografia ufficiale. Basti pensare che questa 
                  storia ha ispirato vari spettacoli teatrali, un documentario, 
                  canzoni, una puntata di Blu Notte di Lucarelli. 
                  Un altro importante tassello si aggiunge oggi con la pubblicazione 
                  del volume Il sangue politico (Editori Internazionali 
                  Riuniti, 2013, pp. 253, € 16,00) di Nicoletta Orlandi Posti, 
                  impreziosito dalla prefazione di Erri De Luca. 
                  Ha ragione lo scrittore napoletano quando afferma che questo 
                  è “un caso che li riassume tutti”, perché 
                  in questa vicenda s'incrociano drammaticamente la strage di 
                  piazza Fontana, la strategia della tensione, il golpe Borghese, 
                  la rivolta di Reggio Calabria dei “Boia chi molla” 
                  e la strage di Gioia Tauro, che con la recente sentenza, passata 
                  in giudicato, si configura come la prima strage della storia 
                  ad opera della 'ndrangheta. In questo gorgo di odio, lotta e 
                  misteri trovarono la morte, in un attentato camuffato da incidente, 
                  Angelo Casile, Gianni Aricò, Annalise Borth, Franco Scordo 
                  e Luigi Lo Celso, poco più di cento anni in cinque, ma 
                  con alle spalle una militanza già ricca di viaggi, manifestazioni, 
                  arresti e processi. 
                  Il libro poggia su due pilastri che fanno di questo lavoro un'opera 
                  agile e indispensabile per capire e ricostruire un momento nevralgico 
                  per la storia contemporanea. Orlandi Posti si è giovata 
                  dell'immensa mole di documenti di tutti i processi di piazza 
                  Fontana, oggi finalmente disponibile in formato digitale, e 
                  sulle narrazioni dei militanti del gruppo 22 marzo, che hanno 
                  consentito alla giornalista e scrittrice, orgogliosamente originaria 
                  della Garbatella, di dare completezza storiografica a un quadro 
                  di eventi complesso. 
                  La storia dei giovani anarchici, al tempo militanti della Fagi 
                  (Federazione anarchica giovanile italiana), s'incrocia con la 
                  macro storia, nella quale finiscono per imbattersi in “cose 
                  che faranno tremare l'Italia”. Trame oscure, più 
                  grandi della loro gioventù e che ancora aleggiano nella 
                  ricostruzione dell'incidente in quella maledetta notte fra il 
                  26 e 27 settembre del 1970 lungo l'autostrada nei pressi di 
                  Ferentino. 
                  Due elementi raccolti successivamente alle indagini rivelano 
                  la trama criminale ordita contro quei giovani mentre si dirigevano 
                  a Roma per consegnare ai compagni della Fai il frutto delle 
                  loro ricerche. In loco interviene la polizia stradale, quella 
                  sera comandata da Crescenzio Mezzina, uomo dei servizi, quattro 
                  anni dopo condannato per il tentato colpo di stato Fumagalli. 
                  La sua mano sottrarrà i preziosi documenti. 
                  Il secondo elemento è legato alla diffusione della notizia. 
                  La prima informativa dei servizi segreti sull'incidente, telegrafata 
                  alle tre del mattino del 27 settembre, arriva da Palermo, molto 
                  strano per un normale incidente stradale, avvenuto a mille chilometri 
                  di distanza. 
                  Una riflessione a parte merita la sperimentazione del metodo 
                  di scrittura utilizzato; la scrittrice dosa in maniera sapiente 
                  un doppio registro linguistico e narrativo, alternando passi 
                  romanzati, utili per fare capire a chi non ha vissuto quegli 
                  anni il clima e l'ambiente politico-culturale, a capitoli di 
                  vera e propria inchiesta “vecchio stile”, con documenti, 
                  articoli, stralci di interrogatori, fonti orali. 
                  Il sangue politico è diventato anche un monologo 
                  teatrale e un blog, dove l'autrice raccoglie materiali delle 
                  varie presentazioni a testimoniare che ancora quella storia 
                  ha molto da raccontare ai vivi e a “quelli che passeranno”. 
                 Fabio Cuzzola 
                  cirano2@tiscali.it 
                   
                   
                   Antologie/ 
                  Racconti anarchici dal mondo 
                “Dire che siamo piuttosto soddisfatti di questa raccolta 
                  sarebbe minimizzare parecchio. In realtà siamo spudoratamente 
                  orgogliosi del risultato, ci gira la testa, siamo in pieno delirio”. 
                  L'introduzione in inglese racconta un po' della storia che ha 
                  portato a Subversions, e l'altra introduzione, in francese, 
                  aggiunge ulteriori informazioni. Il progetto nasce in una scena 
                  libertaria, quella di Montréal, eccezionalmente ricca: 
                  decine di collettivi, strade piuttosto agitate (“abbiamo 
                  avuto l'onore di vedere l'amministrazione locale istituire una 
                  speciale task-force di polizia anti-anarchica”), una grande 
                  fiera del libro, un Festival internazionale del teatro anarchico... 
                  Qui da noi la storia inizia poco dopo l'uscita del primo volume: 
                  alla 5° Vetrina dell'editoria anarchica e libertaria di 
                  Firenze, con i primi contatti fra l'Anarchist writers bloc (Awb, 
                  Blocco degli scrittori anarchici) e i giovani autori, toscani 
                  e non, raccolti attorno alla Vetrina e ad alcune nuove pubblicazioni 
                  ivi presenti (rivista Collettivomensa, blog Cusa-Umanesimo anarchico). 
                  Il risultato è una collezione anglo-franco-italofona: 
                  Subversions vol II, a cura dell'Anarchist Writers Bloc 
                  (Anarchist Writers Bloc, Montréal 2012, pp. 272 in carta 
                  riciclata, prezzo non indicato, licenza Creative Commons 3.0, 
                  anarchistwritersbloc.org, info@anarchistwritersbloc.org, distribuzione 
                  AK Press); ventotto racconti di autori provenienti da diverse 
                  zone del Canada, e da Italia, Isole Britanniche, Francia, Usa, 
                  Nuova Zelanda, prodotti attraverso un processo di lavorazione 
                  partecipata a cura della rete di autori e di lettori dell'Awb. 
                  “La prima antologia multilingue di nuova narrativa anarchica”, 
                  vanta il sito web del Blocco: il secondo volume di quella che, 
                  uscita nel 2011 in versione anglo-francese, si presenta davvero 
                  come una realizzazione inedita nella storia dell'anarchismo, 
                  e nella storia della letteratura. 
                  Cosa sia un “racconto anarchico” potrebbe essere 
                  una questione problematica. I testi raccolti testimoniano di 
                  una grande varietà di declinazioni di questo concetto, 
                  e al tempo stesso di una visibile coesione del prodotto finale: 
                  in molti possibili modi, autori diversi (alcuni attivi da tempo 
                  come scrittori, altri ai loro inizi, ma non meno brillanti) 
                  raccontano storie diversamente connesse agli ideali anarchici 
                  e libertari. Ciascun racconto meriterebbe un commento specifico; 
                  mi limito qui a segnalare quello di Peter Gelderloos, “Gathering 
                  the Dolphins”*: una storia di capitalismo 
                  avanzato e di rapporto con le altre specie, ambientata in Italia, 
                  che ha la forza di una leggenda moderna, e che come una leggenda 
                  potrebbe circolare a lungo attraverso le lingue e i paesi. 
                  L'annoso dibattito sul rapporto fra arte e politica è 
                  ripreso nelle brevi prefazioni di Raoul Vaneigem e della scrittrice 
                  statunitense Marge Piercy: un ritorno ricorrente, questo di 
                  un tema trito e fondamentale, che è un altro indizio 
                  del trovarci nella fase di inizio di qualcosa di nuovo.
                  Matteo Broduè 
                * Titolo italiano proposto: “Radunando i delfini”.
  
                   
                   
                 
                I fantasmi di Stajano, 
                  per capire il Novecento 
                “Il non poter sapere dà una triste 
                  impotenza.  
                  I documenti sono soltanto scheletri che vanno nutriti di 
                  carne.  
                  Come possono delle carte far riascoltare voci, rivedere gesti, 
                  captare sguardi, far capire lo spirito del tempo?” 
                  
                La stanza personale e intima di Corrado Stajano (La stanza 
                  dei fantasmi. Una storia del Novecento, Garzanti, Milano 
                  2013, pp. 280, € 18,80) è un deposito di Storia. 
                  Piccole cose, petites madeleines suscitatrici di memoria 
                  occupano gli scaffali della libreria. Un punteruolo, un piccolissimo 
                  liuto, bossoli vuoti, soldatini di piombo, cornicette con medaglie 
                  al valore, fotografie saltate fuori da una scatola metallica 
                  dei droghieri. Il tempo, come immobilizzato, viene ri-cercato, 
                  lo spazio ri-costruito. Di immediato impatto emotivo la prospettiva 
                  di ripresa dal basso, quella che fa parlare gli oggetti come 
                  giocattoli dimenticati, cianfrusaglie sparse, testimoni inconsapevoli. 
                  L'arte maieutica di Stajano li restituisce alla vita. E convince, 
                  coinvolge, quel dare voce agli indizi, dettagli preziosi del 
                  “Secolo breve”, e agli altri fantasmi che si fanno 
                  testimoni concreti, in un dialogo – anche se a volte muto 
                  – con la Storia. 
                   Con 
                  la sua scrittura chiara, precisa, fluida, a tratti poetica l'autore 
                  ci conduce, quasi prendendoci per mano, in un viaggio nella 
                  Storia del Novecento. A partire dalla sua microstoria alla ricerca 
                  delle proprie radici, incrociando altre storie. Un tempo ritrovato 
                  in luoghi intimi, in spazi pubblici. Incursioni della memoria, 
                  mai indolori. 
                  Testimonianze rigorose, ben documentate, affidate ai taccuini. 
                  Carlo Emilio Gadda, volontario interventista, comprende solo 
                  sul campo e racconta cosa è stata la disfatta di Caporetto. 
                  Di un'altra guerra ci vengono restituiti, con sereno e ironico 
                  distacco, i bombardamenti su Londra dal gran diario di Churchill. 
                  Mentre, nel suo rifugio segreto, in un sottoscala, si decide 
                  il destino del mondo. E altri bombardamenti ricostruiti dal 
                  narratore a partire da schegge di ferro rimaste sullo zerbino 
                  e conservate con cura fino a diventare familiari. Confessa: 
                  “ero un instancabile raccoglitore di bossoli vuoti”. 
                  Trovano posto anche gli scritti dell'amico partigiano Nuto Revelli, 
                  ritratto immobile in una fotografia, dietro lo spigolo di un 
                  muro della grande stanza. “Ero amico di Nuto, passai lunghe 
                  giornate a parlare con lui. La guerra era il suo pensiero dominante, 
                  l'8 settembre un'ossessione”. Anche i diari depositati 
                  in archivi storici della Resistenza vengono interrogati, ma 
                  dei molti partigiani caduti si conoscerà solo il nome 
                  di battaglia. 
                  Note, appunti di un sinistro viaggio dell'autore in Grecia, 
                  proprio nel 1967, durante il colpo di Stato dei colonnelli, 
                  e fotografie di carri armati davanti al Parlamento che faranno 
                  il giro del mondo, sono richiamati alla memoria dall'inquieto 
                  Auriga di Delfi. È infilato nel vetro della libreria 
                  della stanza da più di quarant'anni, e lo scrittore si 
                  sente ammonito dalla fissità dolorosa del suo sguardo, 
                  quasi volesse metterlo sempre in guardia a cogliere per tempo 
                  gli insulti alla libertà. Quindi, Stajano interroga gli 
                  indizi del passato per parlare di noi, del nostro presente. 
                  In questo modo, siamo costretti a calarci nella quotidianità, 
                  a esistere in modo vero, in un rapporto dialogante con la Storia. 
                  Il merito sta proprio nel proporci una narrazione della storia 
                  da una prospettiva inedita e svecchiata, non antiquaria. Una 
                  Storia che ci riguarda. Lo scrittore come un archeologo scava 
                  in profondità, si interroga sulle motivazioni che hanno 
                  mosso le azioni, ma anche sullo stato d'animo, i pensieri intimi 
                  e profondi, il dolore di chi ha preso parte davvero alle vicende 
                  narrate, e di chi è rimasto. 
                  In una cornicetta liberty, la fotografia ritrae il padre, capitano, 
                  seduto con il moschetto sulle ginocchia. Dietro di lui, in piedi, 
                  la gerarchia. Tre tenenti, e gli altri nella vecchia uniforme 
                  dell'esercito regio. Forse la Grande Guerra è finita 
                  da poco. 
                  “Che cosa hanno visto in quegli anni di guerra, sul Montello, 
                  sul Monte Grappa, sul Monte Nero, sull'Isonzo, sul Piave? Hanno 
                  ucciso con quei moschetti simili ora a pezzi di legno inanimati? 
                  Hanno visto da vicino i loro soldati maciullati, i corpo a corpo 
                  cruenti, hanno avuto paura del fragore delle granate o sono 
                  riusciti a mascherarla?”. Considerazioni sulla crudeltà 
                  della guerra sono affidate anche alle pagine di scritti letterari. 
                  Altre fonti visive restituiscono luoghi, piazze e scenari di 
                  conflitti planetari. 
                  Come le tele dei “war artist”, Graham Sutherland 
                  e Henry Moore. Le immagini surreali dove la vita non conta, 
                  insieme a descrizioni minuziose di fotografie di guerra, ci 
                  rendono ancora più complici. Tra molte altre, si è 
                  colpiti da una fotografia, quella della madre, di forse vent'anni 
                  nella fotografia del matrimonio, con i capelli raccolti a crocchia 
                  e una rosa appuntata sul petto. Il cuore di quella donna, la 
                  madre, come tante altre donne, si sarebbe fatto sentire erigendo 
                  una muraglia di fermezza e coraggio per difende i propri figli 
                  la notte della perquisizione nella casa da parte della Wehrmacht. 
                  Anello forte, autorevole “non le servirono le parole”. 
                  La ricerca si snoda dei luoghi affettivi depositari di storie 
                  stratificate. Il nonno contadino, ricco proprietario “con 
                  il genio della terra”, la sua Terramata. Uno che “pensa 
                  in grande”, ma poco interessato alla politica. Luoghi 
                  sui quali si sovrappone la scrittura letteraria di autori che 
                  ci conducono in un viaggio lungo la campagna virgiliana e la 
                  valle del Po. Ma è la testimonianza diretta dell'autore 
                  a guidarci verso la città natale, Cremona, con la sua 
                  piazza delle fucilazioni e la Caserma del Diavolo, dove ora 
                  c'è la scuola per l'artigianato liutario e del legno 
                  che porta il nome di Antonio Stradivari. 
                  Invece, dal groviglio della memoria, un pezzo di legno color 
                  carminio, modellino di fabbrica, si dipana e riporta a galla 
                  la vicenda tremenda di Walter Alasia, terrorista delle Brigate 
                  rosse, assassino e vittima, rievocata dal fratello Oscar. Sono 
                  gli anni dopo l'autunno caldo e la strage di piazza Fontana 
                  che ha dilaniato Milano e l'Italia. Gli anni del golpe in Cile, 
                  del referendum sul divorzio, delle stragi di piazza della Loggia 
                  a Brescia, del treno Italicus, del periodico Il pane e le 
                  rose. Decine di morti innocenti. 
                  La riproduzione della carta a colori della Sicilia dove compare 
                  ancora capovolta “l'appendice dello stivale di cavaliere”, 
                  secondo le spiegazioni della maestra di Como, è occasione 
                  per un prossimo arcaico viaggio della memoria. Aspre tappe insidiose 
                  ripercorrono la terra che è stata nutrita dalla presenza 
                  di popoli diversi e che è la terra d'origine del padre, 
                  fin da ragazzo sottotenente del 65° Reggimento fanteria, 
                  ma poi prigioniero in un lager perché “ha prestato 
                  giuramento al re, non al fascismo”. Poi la Sicilia dei 
                  Gattopardi superstiti, tra pasticcerie e caffè, locali 
                  preferiti decenni dopo da uno dei capimafia. E l'incontro con 
                  Lucio Piccolo, incoronato d'alloro da Montale, così appartato 
                  e schivo, e diverso dal cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 
                  Infine, la Sicilia della Conca d'oro, tanto densa di fascino, 
                  e di morti ammazzati. 
                  Così, a mano a mano, attraverso questi viaggi inquieti 
                  della memoria, scaturiti dalla penna di un grande scrittore, 
                  “i fantasmi che aleggiano in una stanza possono diventare 
                  davvero entità di carne, ossa, sangue, fonti battesimali 
                  di un tempo perduto e ritrovato”. 
                  L'immagine conclusiva è rappresentata dalla famosa stanza 
                  traballante di Van Gogh, fissata nel colore del celebre dipinto, 
                  emblema di una vita non pacificata. Allo stesso modo, il groviglio 
                  nella stanza dei fantasmi non si è del tutto dipanato. 
                  Molti interlocutori della Storia che hanno lottato per un'Italia 
                  migliore, “i superstiti della libertà”, offrono 
                  il loro passato tribolato alle generazioni che verranno. Tuttavia, 
                  per Stajano, oggi è venuta a mancare anche la speranza. 
                  Allora, all'autore non resta che affidare alle parole poetiche 
                  di Eugenio Montale, suggellate in Riviere, quell'esile 
                  filo di speranza da infondere nelle nuove generazioni. Ma già 
                  quest'ultimo bel lavoro, sofferto e generoso, credo possa rappresentare 
                  un'apertura, un varco, poiché offre chiavi inedite di 
                  una Storia del Novecento, lontana dagli approcci accademici 
                  oppure libreschi di tanti manuali in uso nelle scuole. Perché, 
                  dentro i fatti, di fronte alla Storia ci siamo noi. 
                  E la prospettiva che Stajano riesce a restituire con la sua 
                  scrittura, scavando nell'anima di quanti hanno partecipato della 
                  Storia passando negli interstizi di altre storie, andando oltre 
                  i fatti, è già uno spiraglio di attesa fiduciosa. 
                  Quindi, non romanzo di un'autobiografia, ma racconto di una 
                  Storia del Novecento, umana e “partecipabile”. Condizione 
                  per elaborare un pensiero riflessivo e critico, promessa di 
                  libertà, individuale e collettiva. 
                  Claudia Piccinelli 
                   
                   
                 
                 La 
                  Resistenza in Italia
                   e il contributo (misconosciuto) degli anarchici 
                Il nostro collaboratore Giorgio Sacchetti ha da poco pubblicato 
                  un suo studio sul campo di concentramento (prima fascista, poi 
                  badogliano) di Renicci d'Anghiari (Arezzo) – tra il 1942 
                  e il 1943: Renicci 1943. Internati anarchici: storie 
                  di vita dal campo 97 (Aracne editrice, Roma 2013, pp. 236, 
                  € 16,00). 
                  Nella sua premessa (che qui ripubblichiamo) il direttore 
                  generale dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento 
                  di Liberazione in Italia, Claudio Silingardi, affronta anche 
                  la questione della sostanziale rimozione del contributo degli 
                  anarchici non solo alla Resistenza, ma anche – precedentemente 
                  – alla ventennale (e ben più “difficile”) 
                  militanza antifascista sotto e contro il regime fascista. 
                   
                  Ho trovato tra i miei libri un opuscoletto di Giorgio Sacchetti, 
                  dal titolo Renicci: un campo di concentramento per slavi 
                  e anarchici, pubblicato dalla Provincia di Arezzo nel 1987. 
                  Mi era servito per una piccola ricerca che stavo facendo su 
                  Emilio Canzi, anarchico divenuto – caso davvero eccezionale 
                  nella storia della Resistenza italiana – comandante unico 
                  della XIII zona partigiana nell'Appennino piacentino. Il fatto 
                  è che questo primo lavoro (presumo evoluzione della comunicazione 
                  presentata al convegno internazionale tenuto lo stesso anno 
                  sempre ad Arezzo) conferma davvero quanto l'autore asserisce 
                  nella sua introduzione, cioè l'impegno assunto a mantenere 
                  viva la memoria del luogo e di chi suo malgrado l'ha attraversato: 
                  io posso testimoniare che grazie alle sue ricerche ho potuto 
                  conoscere in modo non superficiale l'esistenza del campo di 
                  Renicci e il profilo di alcuni di coloro che vi furono trattenuti 
                  nel breve periodo badogliano. 
                  Ora arriva Renicci 1943. Internati anarchici: storie di vita 
                  dal campo 97 che, ci dice sempre l'autore, è il punto 
                  di arrivo di una trentennale attenzione al ruolo svolto dal 
                  campo, nel contesto di una produzione storiograca costantemente 
                  di alto livello, attenta alle correnti libertarie e sindacaliste 
                  toscane, ad alcuni profili biografici di rilievo nazionale e 
                  internazionale, alla nascita dello squadrismo fascista, alle 
                  esperienze sindacali sia precedenti al fascismo sia nell'Italia 
                  repubblicana. Ho avuto anche il piacere della sua collaborazione 
                  in uno dei progetti che mi ha maggiormente impegnato, quello 
                  del Dizionario storico dell'antifascismo modenese, per 
                  il quale Giorgio Sacchetti ha curato alcune voci tematiche. 
                  In realtà, ciò che preme l'autore è focalizzare 
                  la funzione che Renicci ha avuto nell'impedire che alcuni tra 
                  i più combattivi ed esperti militanti anarchici potessero 
                  svolgere un ruolo attivo subito dopo la caduta del fascismo, 
                  e fare emergere il profilo in molti casi esemplare di questi 
                  combattenti antifascisti. Le 118 biografie di “antifascisti 
                  non conformi” – come li definisce – sono il 
                  cuore di questo lavoro, accanto al tributo dovuto a una figura 
                  altrettanto non conforme, quella di Beppone Livi, ribelle anarchico 
                  e tra i primi esponenti e protagonisti della Resistenza nell'Aretino. 
                  Non è facile, oggi, far comprendere a chi è cresciuto 
                  in una società che fa del presente l'unica prospettiva 
                  praticabile, il senso di vite complesse come quelle raccontate 
                  dall'autore, il loro legame con il passato e la loro fiducia 
                  incrollabile in un futuro migliore. Eppure di questo si tratta. 
                  Persone che hanno conosciuto la violenza delle autorità 
                  e poi del fascismo, che sono state costrette a emigrare, a perdere 
                  il lavoro, a subire persecuzioni, carcere e confino, che però 
                  hanno continuato a rimanere il più possibile coerenti 
                  con le proprie idee e a credere nella possibilità di 
                  una società più giusta e migliore. Questo atteggiamento 
                  in molti di loro permane nonostante le profonde delusioni e 
                  i momenti di sbandamento. D'altra parte, poteva essere diversamente? 
                  Oggi certe vulgate si sono profondamente radicate, al punto 
                  di riuscire a rappresentare il fascismo come un regime tutto 
                  sommato tollerante, che se non avesse incespicato nelle leggi 
                  razziali e non avesse compiuto l'errore di entrare in guerra 
                  a fianco della Germania, in fondo non avrebbe agito male, come 
                  dimostrerebbe il consenso raccolto nella maggioranza della popolazione 
                  italiana. Queste rappresentazioni sono risultate vincenti in 
                  questi ultimi decenni di continuo attacco da parte delle forze 
                  politiche moderate all'antifascismo e alla Resistenza, in particolare 
                  a partire dal crollo dei regimi comunisti dell'Est e dalla crisi 
                  del sistema politico uscito dalla guerra. 
                  Lo sono state, però, anche per la difficoltà delle 
                  forze politiche antifasciste a fare i conti davvero con la memoria 
                  dell'antifascismo (e con la realtà effettiva del regime). 
                  Intanto, in molti casi si è determinato un appiattimento 
                  della storia dell'antifascismo entro quella della Resistenza, 
                  espungendo dal primo gli elementi ritenuti contraddittori rispetto 
                  alla rappresentazione della Resistenza come fenomeno unitario 
                  e democratico. Non a caso, dell'esperienza storica dell'antifascismo 
                  sono stati valorizzati o gli episodi unitari (come ad esempio 
                  le Barricate dell'Oltretorrente a Parma) o figure emblematiche 
                  (Gramsci per i comunisti, Matteotti per i socialisti, Rosselli 
                  per gli azionisti, don Minzoni per i democratico-cristiani), 
                  mentre sono stati rimossi gli errori, le scelte settarie, le 
                  contraddizioni politiche, l'orientamento rivoluzionario di alcune 
                  delle forze protagoniste dell'antifascismo, come il Partito 
                  comunista d'Italia e il movimento anarchico. 
                  Ma c'è dell'altro: l'antifascismo, oltre che diviso al 
                  suo interno, rimane sempre minoranza, e non gioca alcun ruolo 
                  nel far cadere il regime fascista. Mentre la Resistenza – 
                  anche se oggi sappiamo aver avuto anch'essa tanti problemi e 
                  contraddizioni – può essere rappresentata (e in 
                  buona parte lo è stata) come un movimento capace di raccogliere 
                  un forte consenso nella popolazione italiana, in grado di mettere 
                  in difficoltà la Repubblica Sociale Italiana, protagonista 
                  nella liberazione di città e paesi del Centro e del Nord 
                  Italia. 
                  Purtroppo il prevalere di queste rappresentazioni ci ha fatto 
                  perdere di vista il fenomeno concreto dell'antifascismo, le 
                  idee e le proposte elaborate ma anche la vita concreta, quotidiana 
                  di chi ha deciso di non adeguarsi. Direi che sia utile partire 
                  da un dato apparentemente banale: in una dittatura, in un regime, 
                  la normalità non è opporsi, ma appunto adeguarsi. 
                  Era difficile essere antifascisti, continuare ad esserlo con 
                  il passare degli anni, senza che si vedesse a breve un possibile 
                  cambiamento. Anche perché vi era una evidente sproporzione 
                  tra l'espressione delle proprie opinioni o l'agire politico 
                  e le conseguenze sul piano della repressione, che non riguardavano 
                  – bisogna sottolinearlo – solo il diretto interessato, 
                  ma la sua famiglia. Anni fa Silvio Berlusconi dichiarò 
                  pubblicamente che il confino era una sorta di villeggiatura; 
                  avrebbe dovuto chiedere alle mogli e ai figli dei confinati 
                  in quali condizioni erano costretti a vivere, venendo meno la 
                  presenza (per un periodo da due a cinque anni) del proprio congiunto 
                  e dei redditi del suo lavoro.
                 
                   
                      | 
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                    |   Gli anarchici Emilio Canzi (Piacenza 1897 - 1945) (a sin.)  e Alfonso Failla (Siracusa 1906 - Carrara 1986),  due delle figure 
                  di spicco tra i militanti  anarchici impegnati contro il fascismo  
                  dal suo sorgere alla sua sconfitta  | 
                   
                 
                 
                  La realtà della repressione non stava solo negli arresti, 
                  nel confino, nel carcere, nelle diffide e ammonizioni, nei continui 
                  controlli di polizia, ma in una vigilanza quotidiana esercitata 
                  dall'insieme delle organizzazioni sociali e assistenziali del 
                  fascismo, in meccanismi di controllo e di vessazione che portavano 
                  alla perdita del posto di lavoro, a costrizioni quotidiane, 
                  a rotture di vincoli familiari e sociali che, spesso, lasciavano 
                  come unico sbocco quello dell'emigrazione e dello sradicamento. 
                  Il tutto in un contesto di costruzione del consenso al regime 
                  che utilizzava tutti gli strumenti possibili, dalla scuola allo 
                  sport, dai mezzi di comunicazione alla promozione di una religione 
                  civile fascista. 
                  Essere antifascisti non era facile, perché occorreva 
                  una disponibilità al sacricio, per sé e per la 
                  propria famiglia, non indifferente, e perché era necessario 
                  resistere a una situazione che vedeva premiati i comportamenti 
                  di asservimento e di obbedienza nei confronti di un regime che 
                  conquistava sempre più consensi. All'estero, dove molti 
                  antifascisti si trasferiscono per poter continuare a vivere 
                  e ad agire, è difficile fare comprendere la pericolosità 
                  del regime, e solo dopo l'affermazione del nazismo in Germania 
                  a partire dal 1933, e ai primi flussi migratori di intellettuali 
                  e artisti tedeschi, alcuni paesi democratici iniziano ad interrogarsi 
                  davvero sul pericolo costituito dai fascismi europei. 
                  Da questo momento inizia a delinearsi il profilo dell'antifascismo 
                  come coalizione di forze e culture diverse, che contrastano 
                  non un partito ma una visione del mondo e dei rapporti economici 
                  e sociali, che prepara il personale politico che sarà 
                  protagonista della ricostruzione dell'Italia dopo la fine della 
                  seconda guerra mondiale, trasformando profondamente le culture 
                  politiche di alcune forze di opposizione che si sposteranno 
                  progressivamente su un terreno democratico. 
                  Nel caso degli anarchici (non solo, ma soprattutto) il momento 
                  di svolta è costituito dall'esperienza della guerra di 
                  Spagna. Il sogno di realizzare finalmente una società 
                  libertaria si infrange non solo contro la potenza militare messa 
                  in campo dai generali golpisti appoggiati da Hitler e Mussolini, 
                  ma dalle profonde ferite determinate dalle divisioni e dallo 
                  scontro entro il campo antifascista, in particolare tra i comunisti 
                  e gli altri partiti antifranchisti. Uno scoramento accentuato 
                  dalla condizione di precarietà che molti vivono al ritorno 
                  in Francia (tanti finiscono internati nei campi di prigionia 
                  allestiti nei Pirenei), dalla notizia disorientante della firma 
                  del patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania 
                  e, infine, dallo scoppio della seconda guerra mondiale, con 
                  l'occupazione nazista della Francia e la nascita del regime 
                  di Vichy. 
                  Le biografie presentate in questo volume rendono bene questa 
                  fase, tra chi cerca di spostarsi in altri paesi, chi rientra 
                  in Italia, chi vive l'esperienza dell'internamento, dei campi 
                  di concentramento e/o della cattura e consegna alle autorità 
                  di polizia italiane, con conseguente invio al confino. Oltre 
                  a coloro, ovviamente, che al confino c'erano già per 
                  effetto delle condanne comminate in Italia negli anni precedenti. 
                  Ciò che colpisce di questi uomini è la volontà 
                  di continuare la lotta. Viene impedito loro, come accennavo 
                  all'inizio, di essere da subito protagonisti della ripresa delle 
                  agitazioni sociali (duramente represse dal governo militare 
                  di Badoglio, con esercito e polizia che provocano 96 morti e 
                  552 feriti, mentre 2.341 sono i lavoratori arrestati) e nella 
                  riorganizzazione delle forze politiche antifasciste. Molti di 
                  loro, però, non avranno dubbi nel compiere la scelta 
                  della Resistenza dopo l'8 settembre. 
                  Purtroppo, il contributo degli anarchici alla Resistenza italiana 
                  non ha conosciuto il giusto riconoscimento da parte della storiografia. 
                  Certo, l'assenza di una organizzazione formalmente aderente 
                  al Comitato di Liberazione Nazionale, il fatto che questo contributo 
                  si sia concretizzato in esperienze non collegate tra loro, spesso 
                  tradotto in scelte individuali, non ha favorito un tentativo 
                  di sintesi generale. Però, nonostante questo, è 
                  troppo evidente una discriminazione che rimanda soprattutto 
                  a letture della storia della Resistenza condizionate dall'orientamento 
                  politico degli autori, o da una interpretazione superficiale 
                  dell'apporto che le idee libertarie hanno dato alla lotta antifascista. 
                  Alla fine, ciò che conosciamo della partecipazione anarchica 
                  alla Resistenza è frutto di ricerche generose da parte 
                  di storici o appassionati vicini al movimento, ma questa conoscenza 
                  non è ancora penetrata nelle ricostruzioni di carattere 
                  più complessivo. 
                  Da questo punto di vista spero che, anche grazie a lavori come 
                  questo, il settantesimo anniversario della Resistenza e della 
                  lotta di liberazione sia l'occasione per un salto di qualità, 
                  per dare finalmente il giusto rilievo alla partecipazione degli 
                  anarchici alla lotta antifascista e alla Resistenza. 
                 Claudio Silingardi 
                  Direttore Generale dell'Istituto Nazionale per la Storia del 
                  Movimento di Liberazione in Italia 
                   
                   
                 
                 Il 
                  mio babbo operaio,
                   morto di amianto 
                  
                Questo libro è un'antologia e l'ha pubblicata Alegre 
                  nel 2012. Si intitola Lavoro vivo (aa.vv., pp. 187, € 
                  14,00) e ci sono tanti contributi. C'è Stefano Tassinari, 
                  che è scomparso di recente. Ci sono Carlo Lucarelli e 
                  Milena Magnani. C'è Angelo Ferracuti che da anni sta 
                  facendo un lavoro imponente per raccontare la storia delle vittime 
                  del lavoro. Poi c'è Massimo Vaggi che gli operai li difende 
                  come avvocato nelle cause pensionistiche per l'esposizione all'amianto 
                  e la sua esperienza l'ha trasformata in un racconto molto bello. 
                  E non si può tacere il contributo di Beppe Ciarallo, 
                  che racconta in pagine toccanti la storia di suo padre, operaio 
                  molisano emigrato tra le nebbie di Milano, quando a Milano la 
                  nebbia c'era ancora. 
                  Questo libro è sempre attuale, perché di lavoro 
                  si muore ogni giorno. È così attuale che ho appena 
                  incontrato una storia che poteva a ragione entrare nell'antologia 
                  di Alegre. E pertanto questa recensione la intendo come un'estensione 
                  di un testo che continua a scriversi tutti i giorni, sulla pelle 
                  dei lavoratori. Degli operai, degli agricoltori, dei muratori, 
                  dei corrieri, di tutti quelli a cui un Capitale che si riproduce 
                  avvelenando il pianeta impone il dilemma mortale di scegliere 
                  tra il pane e il lavoro, tra il lavoro e l'ambiente, tra il 
                  lavoro e la salute e infine tra il lavoro e la vita. Di qui 
                  il termine “lavoro vivo”, inteso con uno slittamento 
                  semantico che sottrae spazio alla rappresentazione economica 
                  e descrive il lavoro proprio nei termini di una nuda vita che 
                  rasenta l'oscenità della morte quotidiana. Un lavoro 
                  che non premia l'operosità umana, la manualità 
                  suprema dei nostri vecchi operai e artigiani. Un lavoro che 
                  è work, più che labor. Un lavoro 
                  nocivo, avvilente, noioso, mortale. Un'oscenità sotto 
                  gli occhi di tutti, che tutti fanno finta di non vedere. 
                  Per questo non è assurdo recensire un libro intitolato 
                  Lavoro vivo con la lettera di una ragazza (Barbara Bertucci) 
                  a cui è appena morto il padre, operaio per tanti anni 
                  alla Breda di Pistoia. Più che una recensione, quel che 
                  ho fatto è stato provare a aggiungere un capitolo nuovo 
                  al libro. E purtroppo non sarà neanche l'ultimo. 
                  “Quando ero piccola, tutti gli anni in questo periodo, 
                  il babbo prendeva me e Marco e ci portava alla Breda. In sala 
                  mensa c'erano delle grandi scaffalature piene di giocattoli. 
                  Ci diceva di sceglierne uno che poi Babbo Natale ci avrebbe 
                  portato. Non ho mai creduto a nessun Babbo Natale, o meglio, 
                  la scoperta della sua inesistenza mi fu lieve, non dolorosa, 
                  perché sapevo che i regali me li portava il mio di babbo. 
                  Ne ebbi proprio la conferma perché una vigilia lo vidi 
                  portar su dalla cantina i pacchi. Ne gioii perché ebbi 
                  la conferma di quello che pensavo”. 
                  Non c'era nessun Babbo Natale, era il mio di babbo, Maurino. 
                  Il mio babbo operaio, che lavorava nella grande fabbrica chiamata 
                  Breda, quella dove andavamo a scegliere i regali. Ne ero così 
                  orgogliosa, mi vantavo anche, quando mi chiedevano 'che lavoro 
                  fa il babbo?' io fiera rispondevo 'È operaio alla Breda!'. 
                  Probabilmente allora, anzi, probabilmente già quando 
                  nacqui, le fibre d'amianto cadevano piano nei suoi polmoni. 
                  Fermandosi lì, da lontano iniziavano a devastargli la 
                  vita. Ma io non lo sapevo questo, lo avrei saputo solo molto 
                  tempo più tardi. Io ero fiera di lui, di questo babbo 
                  che sapeva fare e aggiustare tutto, le cui mani, per cinquant'anni, 
                  non hanno mai smesso un attimo di lavorare. Io ho sempre provato 
                  un'ammirazione stupefatta per questo suo riuscire a fare qualsiasi 
                  cosa, diversamente da me che so fare ben poco e infatti il babbo 
                  me lo diceva sempre 'Voialtri 'un sapete fa' nulla!'. 
                  Aveva ragione, non so mica fare nulla io. Però babbo, 
                  una cosa la voglio fare. Onorare la tua memoria e quella di 
                  tutti gli altri compagni a cui le fibre d'amianto hanno eroso 
                  la vita. Non smettere di lottare mai, per questa immensa ingiustizia 
                  subita. Ne vedo tanti qui, i tuoi amici, i tuoi compagni, quelli 
                  più giovani a cui hai insegnato tanto, quello più 
                  vecchi che ti son stati vicini una vita, tutti quelli che hanno 
                  beccato e sopportato le 'bande' che tu gli facevi, perché 
                  tanto anche loro 'niente via, 'un sanno fa' nulla!' 
                  Babbo ora son tutti qui a piangerti, con uno strazio che capisco. 
                  Li vorrei abbracciare tutti, forte forte, perché son 
                  loro che più mi stringono il cuore. Gli amici, compagni, 
                  colleghi di lavoro e di una vita che son venuti qui oggi a darti 
                  l'ultimo saluto e che mi rimandano un'immagine di te diversa, 
                  che io conoscevo poco, ma vorrei che ancora mi parlassero di 
                  te, mi raccontassero com'eri. Babbo. 
                  Ciao grande Maurino, la tua Barbara.”
                  Alberto Prunetti
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